ANTEPRIMA NON EDITATA
LA TEORIA DEL CAOS
L’aeroporto si stendeva attorno a lui come un labirinto di vetro e cemento, immerso in una luce artificiale che annullava ogni percezione del tempo. Era un luogo dove l’alba e il tramonto non esistevano, dove il prima e il dopo si mescolavano in un eterno presente. Un limbo perfetto.
“Ma da quanto sono in viaggio? Non ricordo nemmeno più da quanto tempo sono in giro. Sai come definisce il vocabolario la parola viaggio?”
A Tommaso piaceva trasformare i suoi pensieri in conversazioni fra sé e sé. Le trovava quasi sempre più affascinanti di quelle che faceva nella vita reale con molte persone reali. Si faceva domande, si dava risposte e trovava spesso il modo di discutere anche con sé stesso.
Il brusio delle voci si fondeva con il suono delle ruote dei trolley che scorrevano sul pavimento lucido, creando un’eco continua, quasi ipnotica. Annunci metallici scandivano partenze e arrivi, mentre uomini d’affari, turisti, famiglie e solitari come lui si muovevano con passo incerto o deciso, seguendo traiettorie invisibili, incrociandosi senza mai vedersi davvero.
Tommaso si lasciò cadere su una delle panchine di plastica, la schiena contro lo schienale rigido, gli occhi persi nel movimento costante delle persone. A prima vista, poteva sembrare uno degli sconfitti dalla vita. La barba incolta, i capelli spettinati, i vestiti consumati dal tempo e dal viaggio gli davano l’aria di un uomo allo sbando. Ma chi avesse osservato con più attenzione, avrebbe notato dettagli che raccontavano un’altra storia: le scarpe, vecchie ma costose, che pochi si sarebbero
potuti permettere; lo zaino, logoro ma di ottima fattura, scelto con cura per durare. Ogni cosa su di lui parlava di una caduta volontaria, non subita.
Una famiglia con bambini piccoli litigava su quale gate dirigersi. Il padre cercava di mantenere la calma, la madre frugava nervosamente nei documenti, i bambini saltellavano senza preoccupazioni. Più in là, una coppia di giovani sedeva a terra, condividendo una birra comprata a un prezzo esagerato in un bar dell’aeroporto, le risate smorzate dal sonno e dall’attesa. Un uomo in abito elegante digitava freneticamente sul telefono, con il volto contratto in una smorfia di concentrazione. Ogni persona aveva una storia, una destinazione. Ma in quel momento, erano tutti fermi nello stesso posto. Tutti in attesa.
“Sai come definisce il vocabolario la parola viaggio? ‘Lo spostamento da un luogo a un altro che sia distante dal primo’. Ma perché abbiamo questa fottutissima necessità di dover dare definizioni a tutto? Il Dalai Lama dice che se in una società un concetto o un’emozione non sono definiti dalla lingua parlata, allora quel concetto, quell’emozione, è come se non esistessero. Eppure, se ci pensi bene, quando parli di un viaggio, di solito hai in mente i luoghi, la destinazione, la meta… mai lo spostamento.”
Un bambino correva avanti e indietro tra le file di sedili, ridendo, ignaro del peso delle emozioni che aleggiavano nell’aria. Una donna anziana sedeva vicino a una vetrata, lo sguardo fisso sulla pista d’atterraggio, le mani strette su una borsa logora. Tommaso la osservò per un attimo, chiedendosi se anche lei, come lui, non sapesse più se esistesse ancora un vero posto dove tornare.
“Quanti di loro hanno davvero scelto di essere qui? E quanti stanno solo seguendo il flusso?”
Un annuncio interruppe i suoi pensieri, una voce metallica che rimbalzò tra le pareti dell’aeroporto. Il display sopra di lui
lampeggiò di nuove destinazioni, nomi di città che scorrevano davanti ai suoi occhi come scelte possibili, mondi alternativi. Da qualche parte, in un altro aeroporto, qualcun altro stava vivendo lo stesso momento. Lo stesso limbo.
Gli tornò in mente qualcosa che aveva studiato anni prima, all’università.
La Teoria del Caos.
Era stata una delle poche lezioni di fisica che lo avevano affascinato. Forse per la passione con cui il professore ne parlava, o forse per quel senso di imprevedibilità che sembrava avvicinarla più alla vita reale che ai numeri e alle equazioni su cui di solito inciampava. Ricordava ancora il modo in cui il professor Zanetti, un uomo magro con una camicia perennemente spiegazzata, si muoveva nervosamente tra i banchi, agitando le mani come se dovesse afferrare concetti invisibili e renderli concreti per chi lo ascoltava.
“Immaginate una pallina da ping pong lanciata in una stanza”, diceva con un sorriso quasi complice. “Colpirà un punto del pavimento, rimbalzerà su un tavolo, contro il muro, poi di nuovo giù. Se ripetete il lancio, anche di un solo millimetro diverso, tutta la traiettoria cambierà. La fisica classica direbbe che tutto è prevedibile. Ma la realtà è diversa. Basta una piccola variazione nelle condizioni iniziali e ogni evento prende una direzione del tutto inaspettata.”
Tommaso si ricordava ancora il brivido di eccitazione che lo aveva attraversato quella volta. Perché, per la prima volta, sentiva che la fisica parlava la lingua della vita. Ogni piccolo gesto, ogni decisione, ogni coincidenza: tutto aveva il potere di cambiare il corso degli eventi.
“E poi c’è il butterfly effect”, aveva aggiunto il professore, disegnando una piccola farfalla sulla lavagna. “Il battito d’ali di una farfalla in Brasile potrebbe generare un uragano in Texas. Il che non significa che ogni farfalla scateni un uragano, ma
che anche il più piccolo evento può avere conseguenze imprevedibili. Il problema è che il sistema è così complesso che non possiamo mai sapere quale battito d’ali sarà quello decisivo.”
Tommaso aveva passato giorni a rimuginarci sopra. Aveva iniziato a vedere il butterfly effect ovunque. Una frase detta al momento giusto, un treno perso, uno sguardo scambiato con una sconosciuta in un bar. Eventi minimi, apparentemente insignificanti, che in realtà mettevano in moto una catena di conseguenze impossibili da prevedere.
E ora, seduto su quella panchina di plastica nell’aeroporto, la sensazione tornava prepotente.
E se fosse vero non solo per i fenomeni fisici, ma anche per le emozioni?
Se un piccolo gesto, un sorriso, un dubbio, una paura sussurrata nell’orecchio di qualcuno, avesse il potere di cambiare un destino, di innescare un effetto domino capace di stravolgere intere vite? Non era forse così che funzionava la realtà?
Chi si innamora per caso, chi perde una coincidenza e cambia lavoro, chi incrocia una persona nel momento sbagliato e si ritrova a inseguire un rimpianto per anni. Ogni cosa si muoveva in un equilibrio precario, un sistema caotico che non seguiva una logica apparente, ma che, a posteriori, assumeva un senso preciso.
Ed ecco il pensiero che gli attraversò la mente all’improvviso, come un lampo che squarcia un cielo piatto: nella teoria del caos il dove e il quando non sono importanti. Conta solo il cosa e il perché.
Perché tutto ciò che accade non è importante in sé, ma per le conseguenze che genera. Il luogo e il tempo sono irrilevanti: è il significato di quell’attimo a fare la differenza.
E allora, cosa sarebbe accaduto se quel giorno lui avesse scelto un volo diverso? Se fosse arrivato un’ora dopo o un’ora prima? Se non si fosse seduto proprio su quella panchina? Se non avesse pensato a tutto questo proprio ora?
La risposta era chiara. Non aveva importanza. Lui era lì. Adesso.
E in qualche modo, tutto il resto ne sarebbe derivato.
Si alzò lentamente, infilò le mani nelle tasche e lasciò che l’aeroporto lo inghiottisse, un piccolo battito d’ali perso in un mondo di movimenti imprevedibili. Ora ne era davvero convinto: il dove e il quando non contano davvero. Quello che conta è cosa accade e perché. Tutto il resto è solo un’illusione che ci raccontiamo per illuderci di avere il controllo.
Il pub era avvolto da una luce calda, il chiacchiericcio si fondeva con il tintinnio dei bicchieri, creando un’atmosfera vibrante di vita. L’odore di birra e legno impregnato dal tempo dava alla serata una sensazione familiare, quasi rassicurante.
Tommaso era seduto a un grande tavolo di legno scuro, le mani intorno al bicchiere ancora mezzo pieno. Davanti a lui, Luca rideva, il viso illuminato dalla luce soffusa delle lampade sopra il bancone. Rideva sempre con tutto sé stesso, e per anni Tommaso aveva trovato in quella risata un’ancora di stabilità.
“Allora?” chiese Luca, inclinando leggermente il capo, con quel suo modo di scrutare dentro le persone. “Che ti prende?”
Tommaso si strinse nelle spalle. “Nulla”
Luca scosse la testa, appoggiando i gomiti sul tavolo. “Cazzate. Ti conosco da troppo tempo.» Poi, con un sorriso sghembo, aggiunse: «Hai tutto, eppure hai la faccia di uno che sta cercando qualcosa che non sa nemmeno nominare.”
Tommaso si girò leggermente, lasciando che il suo sguardo vagasse nel locale. Vedeva coppie che si sussurravano all’orecchio, amici che si prendevano in giro, camerieri che si muovevano veloci tra i tavoli. Il mondo sembrava in perfetto equilibrio. Eppure, dentro di lui, qualcosa era fuori posto.
“Non so,” ammise, girando il bicchiere tra le mani. “A volte ho la sensazione che questa non sia davvero la mia vita.”
Luca non distolse lo sguardo. Non lo giudicava mai. “E allora di chi sarebbe?”
Tommaso rise senza convinzione. “Di qualcun altro. Di quello che ho sempre pensato di dover essere.”
Un attimo di silenzio si insinuò tra loro, ma non era scomodo. Luca prese un sorso di birra e si appoggiò allo schienale. Alzò un braccio per sistemarsi i capelli, e i suoi braccialetti di cuoio e metallo tintinnarono leggermente. Ne portava sempre diversi al polso, alcuni più nuovi, altri consumati dal tempo e dai viaggi. Un suono leggero, che Tommaso ormai associava a lui da sempre.
“Sai cosa penso? Che tu sei come un uomo che ha tutto ma non ha ancora deciso cosa vuole davvero.”
Tommaso sollevò un sopracciglio. “E tu invece hai capito tutto?”
Luca sorrise appena. “No, ma so che non mi basterà mai quello che gli altri si aspettano da me. Non mi interessa la vita perfetta. Mi interessa la vita che mi fa sentire vivo.”
Tommaso abbassò lo sguardo, lasciò che quelle parole si insinuassero dentro di lui. Si sentiva sempre più un estraneo
nella sua stessa esistenza. Era come se tutto fosse già scritto, deciso da tempo, e lui dovesse solo seguirne il copione.
Si erano conosciuti anni prima, in un altro contesto, in un altro tempo. Il campo da pallavolo era stato il primo terreno comune. Tommaso ricordava ancora il primo allenamento con Luca. Lui era già parte della squadra, uno di quelli che facevano gruppo, che sapevano come muoversi tra il gioco e le dinamiche di spogliatoio. Tommaso, invece, era il nuovo arrivato, quello che doveva dimostrare qualcosa.
Era stata una partita di allenamento a farli avvicinare. Avevano lo stesso ruolo, facevano spesso esercizi di allenamento insieme. Luca aveva osservato Tommaso giocare, aveva notato la sua determinazione, la voglia di migliorare. E, dopo un set particolarmente intenso, gli aveva dato una pacca sulla spalla. “Bravo, hai talento! Un gran bel tocco. Ti manca qualche centimetro di altezza, ma sai tenere la squadra come un vero leader.”
Da quel giorno, le birre post-allenamento erano diventate un’abitudine. Prima con tutta la squadra, poi sempre più spesso solo loro due. Parlavano di tutto, dai sogni ai fallimenti, dalle ambizioni ai dubbi più profondi. Luca aveva un modo di vedere la vita che affascinava Tommaso. Era spontaneo, incurante delle regole non scritte che imponevano di nascondere certe fragilità.
“Sai perché siamo diventati amici?” gli aveva chiesto una sera, dopo l’ennesima birra, gli occhi un po’ più lucidi del solito. “Perché in mezzo a tutta questa gente che si sforza di essere qualcosa, tu sei solo te stesso. Anche quando non sai chi sei.”
Tommaso aveva riso, ma quelle parole gli erano rimaste dentro.
Le ragazze tornarono dal bagno, interrompendo i suoi pensieri. Una di loro si sistemò accanto a Luca, posando una mano sulla sua spalla con un gesto che sembrava casuale, ma che
conteneva un’intimità sottile, quasi impercettibile. Tommaso le rivolse un sorriso di circostanza, mentre Luca le lanciò uno sguardo complice. “Sei pronta?”
Lei annuì. Tommaso la osservò per un istante, cercando di decifrare qualcosa nel suo sguardo, ma lei si limitò a ricambiare il sorriso, senza dire nulla. Una sensazione indefinibile gli sfiorò la mente, ma la lasciò scivolare via. Non era il momento di pensarci.
Luca si alzò, allungandosi per dargli un’ultima pacca sulla spalla. “Ci vediamo domani?”
Tommaso annuì. “Certo.”
Mentre li osservava uscire, una strana inquietudine si insinuò dentro di lui. Come se, per un attimo, avesse intravisto qualcosa di importante, senza riuscire ad afferrarlo davvero. Ma poi si scosse. Era solo una sera come tante. O almeno, così pensava.
Tommaso rimase qualche secondo a fissare la porta. Il rumore della città si insinuava dentro ogni volta che qualcuno entrava o usciva, una brezza fredda che contrastava con il calore del locale. Accanto a lui, Marta guardava distrattamente il boccale di birra orami vuoto.
“Usciamo?” chiese lei, senza sollevare lo sguardo.
Tommaso annuì e si alzò, prendendo la giacca. Uscirono nel freddo della sera, le mani affondate nelle tasche, i passi che risuonavano sul marciapiede umido. Camminavano fianco a fianco, ma la distanza tra loro sembrava più ampia di quanto lo spazio fisico suggerisse.
“Ti sei divertito?” chiese Marta dopo un po’, con un tono che sembrava cercare conferma di qualcosa.
Tommaso si strinse nelle spalle. “Sì, solita serata.”
Marta annuì, stringendosi nel cappotto. “A volte ho l’impressione che tu sia lì, ma non davvero presente.”
Tommaso si voltò a guardarla, sorpreso. “In che senso?”
Lei sospirò, come se fosse stanca di dover spiegare qualcosa che aveva già tentato di far capire più volte. “Come stasera. Sei lì, parli, scherzi… Ma poi ti guardo e sembra che tu sia da un’altra parte.”
Lui abbassò lo sguardo. Non aveva mai pensato di apparire distante. Forse perché dentro di lui quel senso di spaesamento era così normale che non lo percepiva nemmeno più.
“Non è vero,” provò a dire, ma Marta scosse la testa.
“Lo è.” Si fermò sotto un lampione, la luce giallastra le illuminava il viso. “Non so più cosa pensi, non so più cosa vuoi. A volte ho la sensazione che tu non voglia nemmeno stare qui.”
Tommaso si morse l’interno della guancia. Sentiva il peso delle sue parole, ma allo stesso tempo non sapeva come risponderle. Era vero? Non voleva stare lì? O semplicemente non sapeva più come stare da nessuna parte?
“Stiamo bene insieme, no?” chiese infine, cercando un appiglio, una certezza a cui aggrapparsi.
Marta lo guardò a lungo, poi distolse lo sguardo. “Stiamo insieme. Non è la stessa cosa.”
La risposta gli lasciò un sapore amaro in bocca. Non si era mai fermato a chiedersi se stare con Marta fosse una scelta o solo un’abitudine. In fondo, lei c’era. Una presenza costante, rassicurante. Una parte della sua vita che non aveva mai messo in discussione.
Eppure ora, nel silenzio della notte, quelle certezze sembravano vacillare.
Continuarono a camminare, senza più parlare. Il rumore dei passi sull’asfalto bagnato riempiva lo spazio tra di loro. Forse, pensò Tommaso, Marta aveva cercato di dirglielo altre volte. Forse, nei piccoli gesti quotidiani, nei silenzi troppo lunghi, negli abbracci che si scioglievano troppo in fretta, c’era già stata la risposta che ora gli sembrava improvvisa e dolorosa.
Ma lui non l’aveva mai voluta vedere.
Forse perché ammetterlo significava dover fare qualcosa al riguardo. Significava accettare che, nonostante tutto, la loro storia era già cambiata. E che a volte, semplicemente, l’amore non è abbastanza per restare.
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IN PARTENZA
L’aeroporto non dormiva mai.
Mentre la città si ritirava sotto la coltre della notte, l’aeroporto continuava a pulsare, un cuore artificiale che batteva al ritmo dei neon intermittenti e delle voci metalliche che annunciavano voli verso destinazioni lontane. Nel buio, mentre le strade si svuotavano e le finestre si spegnevano una ad una, in quell’angolo di mondo si respirava un’energia sospesa, una vibrazione sottile, quasi elettrica, fatta di partenze imminenti, attese silenziose e pensieri che si intrecciavano in mille direzioni.
La notte aveva il potere di trasformare l’aeroporto in un non-luogo ancora più surreale. I terminal si svuotavano parzialmente, lasciando spazio a una calma apparente, una tregua fragile nel vortice continuo del giorno. Il brusio costante della folla si affievoliva, ma non spariva mai del tutto. Le sedute di plastica, disposte in file ordinate, ospitavano viaggiatori solitari che cercavano riposo su sedili scomodi, avvolti nelle loro giacche o rannicchiati su loro stessi. Alcuni dormivano con il capo appoggiato a uno zaino, altri fissavano il vuoto con lo sguardo perso, ipnotizzati dall’idea del domani che li attendeva dall’altra parte di un volo.
L’odore dell’aria condizionata, mescolato a quello del caffè stantio e dei detergenti industriali, si diffondeva nei corridoi quasi deserti. Le vetrate riflettevano le luci fredde dei lampioni esterni, mentre le porte automatiche si aprivano e chiudevano con un sussurro costante, come il respiro di una creatura insonne. Ogni tanto, il suono metallico delle ruote di un trolley rompeva la quiete, rimbalzando sui pavimenti lucidi con un’eco che sembrava più forte del necessario.
La notte prima della partenza aveva sempre un sapore particolare. Un misto di attesa e incertezza, di eccitazione e paura. Era il momento in cui la consapevolezza del viaggio si faceva più intensa, quando l’idea di lasciare qualcosa alle spalle diventava reale. C’erano i viaggiatori esperti, quelli che si muovevano con sicurezza, i loro passi decisi, lo sguardo rivolto avanti, come se l’idea stessa dell’attesa fosse un dettaglio trascurabile. Poi c’erano quelli che ancora non si erano abituati alla vertigine della partenza, coloro per cui ogni viaggio portava con sé il peso del distacco e la promessa di qualcosa di ignoto.
Sei persone, immerse nei loro universi privati, si stavano preparando per un viaggio.
C’era chi doveva partire, chi tornare, chi viaggiava con il corpo e chi, invece, percorreva un viaggio interiore.
Giulia era seduta sul letto, la valigia aperta davanti a sé come un libro ancora da scrivere, ogni tasca e ogni angolo una pagina bianca pronta ad accogliere la storia che stava per scrivere. Le sue dita scorrevano lente su una strana catenina. Con una forma a spirale che ricordava qualche antica tribù di chissà quale parte del mondo. Giulia non ne aveva mai capito il suo vero significato ma sapeva che fosse importante. Le sue dita scorrevano lungo la superficie della spirale, mentre l’aria intorno a lei sembrava sospesa in attesa di quel gesto di liberazione.
La mise in valigia senza pensarci troppo. Una catenina trovata per caso in un momento importante, il cui significato le era sempre sfuggito ma che aveva sempre sentito come un segno di buon auspicio che il destino le aveva riservato, nonostante tutto.
Mentre riponeva con cura la catenina nella valigia, i suoi occhi grandi, di un verde profondo, si posavano su ogni oggetto con una consapevolezza nuova. Per la prima volta, preparare una valigia era diventato un atto del tutto personale, un rituale di autoaffermazione: non più un bagaglio destinato a contenere ciò che il mondo si aspettava da lei, ma uno scrigno in cui custodire il peso delle sue emozioni irrisolte, le paure che aveva sempre celato dietro una facciata di silenzio e routine.
Ogni piega sistemata, ogni oggetto posato con meticolosa cura, sembrava sigillare un frammento della sua vita. Chiudere la cerniera della valigia non era solo un gesto pratico, ma un simbolo potente: in quel momento, Giulia stava chiudendo la porta su un passato carico di delusioni e insoddisfazioni, aprendo al contempo la via per un futuro incerto ma pieno di promesse. L’atto stesso era carico di un senso di rinnovamento, come se ogni spazio lasciato libero all’interno della valigia rappresentasse un piccolo vuoto pronto ad essere riempito da nuove esperienze, nuovi incontri e, soprattutto, dalla riscoperta di sé stessa.
Mentre le sue mani riposavano sul bordo del tessuto, il suo sguardo si fece intenso, quasi ipnotico. In quegli attimi, il tempo pareva rallentare, e le emozioni – quelle che fino a quel momento aveva sempre tenuto sotto chiave – iniziarono a emergere silenziose, come ombre fugaci danzanti sulla superficie di un lago al tramonto. C’era in lei un misto di desiderio di libertà e di un dolore sottile, indefinito, che le stringeva il cuore. Non si trattava di una sofferenza esplicita, ma di una crisi interiore, di un vuoto che si era fatto troppo grande per essere ignorato, un invito silenzioso a cercare altrove quella parte di sé che era rimasta inascoltata per troppo tempo.
Con ogni oggetto che posava nella valigia, Giulia sentiva di staccarsi un po’ di più dalle costrizioni di una vita che le era sembrata sempre troppo definita, troppo preconfezionata. La luce soffusa della stanza giocava con le ombre sui suoi lineamenti, enfatizzando quella bellezza malinconica che si celava dietro ogni esitazione, ogni gesto misurato. La valigia, ora quasi piena, si trasformava in una metafora di questo suo nuovo inizio: un contenitore che, pur accogliendo il passato, era destinato a fare spazio al futuro, a quel viaggio interiore che la chiamava con voce impercettibile ma inesorabile.
Così, mentre chiudeva lentamente la cerniera, Giulia si rese conto che ogni strato di stoffa e ogni piccola piega rappresentava non solo abiti e oggetti, ma anche frammenti di sé stessa, storie mai raccontate e sogni sospesi. E in quel gesto, silenzioso e carico di significato, vi era la promessa di poter finalmente partire: di abbandonare le vecchie certezze per inseguire quella libertà tanto desiderata, anche se il sentiero era avvolto da una nebbia fitta di emozioni irrisolte e segreti troppo dolorosi per essere svelati apertamente.
Leonardo si trovava nella stanza accanto, seduto su una poltrona consunta dal tempo, con lo sguardo fisso sulla porta socchiusa. Ogni tanto i suoi occhi vagavano nel corridoio, cercando segni, anche impercettibili, che potessero farle cambiare idea, che potessero indicargli che Giulia non aveva ancora definitivamente scelto di partire.
Non riusciva a credere che colei che aveva amato, protetto e cercato di comprendere stesse andando via senza dargli la possibilità di rimanere accanto a lei. Sapeva bene che la loro storia era stata segnata da problemi reali, da silenzi che avevano pesato più di mille parole. Eppure, con tutta la sua dedizione, Leonardo era convinto di aver fatto il possibile per evitare quel punto di rottura. Ora, però, mentre il rimorso e la confusione si intrecciavano nel suo animo, cominciava a emergere una sottile rabbia: un amaro risentimento nei confronti di Giulia per aver deciso di fuggire, per aver chiuso quella porta senza fermarsi un attimo a lottare insieme a lui.
Le sue mani tremavano lievemente, non solo per il peso dei ricordi e delle parole non dette, ma anche per quel rancore silenzioso che lo attanagliava. Continuava a interrogarsi su quali fossero state le vere mancanze: forse aveva offerto troppo poco, o forse la sua incapacità di leggere quei piccoli segnali, quegli sguardi silenti che avrebbero potuto parlare più forte di ogni parola, lo aveva condannato. Nel suo cuore, insieme al desiderio disperato di rimediare, cresceva l’amara consapevolezza che forse, nonostante i suoi sforzi, lei aveva scelto la via dell’allontanamento.
In quegli attimi, la luce fioca della lampada giocava sulle pieghe del suo volto segnato, amplificando il contrasto tra il desiderio di riconnettersi e l’orgoglio ferito. “Perché proprio lei deve andare?” si chiedeva, mentre il pensiero acuto del “forse” si faceva largo, mescolandosi a un senso di impotenza. Forse, si ripeteva, avrebbe potuto fare di più; forse avrebbe dovuto essere più attento a quel silenzio che lei celava. Ma accanto a quel tormento, un’irrefrenabile rabbia si insinuava: la frustrazione di non aver saputo trattenere la persona che amava, il risentimento per un’uscita che lui percepiva come un tradimento silenzioso.
Così, Leonardo si trovava intrappolato in un vortice di emozioni contrastanti: il desiderio di rimediare, la consapevolezza dei propri limiti e un’amara rabbia nei confronti di quella decisione irrevocabile. In quel silenzio, tra ricordi di risate e di momenti condivisi, restava il dubbio se l’amore potesse davvero superare ogni errore, o se, a volte, il semplice atto di partire fosse il prezzo da pagare per la libertà personale.
Sofia si trovava da sola nella sua stanza d’hotel, il bagaglio aperto sul letto come un invito silenzioso a riscrivere il proprio destino. Questa volta, il gesto di preparare la valigia per il suo ennesimo viaggio di lavoro assumeva un sapore strano, quasi irreale, come se ogni oggetto inserito fosse una piccola tregua concessa al dolore che non riusciva a colmare.
Con la precisione di chi ha imparato a contare ogni minuto del proprio tempo, iniziò a sistemare gli abiti. Ogni capo veniva scelto con cura: non era solo un atto pratico, ma quasi un rituale, un modo per esorcizzare ricordi troppo pesanti per essere nominati apertamente. In quell’atto di ordinare la propria vita, l’attenzione si soffermava sui dettagli che tradivano una profonda solitudine. Mentre riponeva una camicia di seta, notò lo spazio vuoto che lasciava accanto a lei, un vuoto che sembrava simbolizzare tutto ciò che non poteva essere riempito.
Il gesto più intenso fu quello di infilare in fondo alla valigia un piccolo fazzoletto di lino, l’unico oggetto che portava con sé da tempo e che conservava, sebbene in silenzio, un peso inconfondibile. Non era solo il tessuto morbido a parlare di momenti passati; era come se quel fazzoletto custodisse in sé ogni sussurro di un addio, un dolore che lei cercava di nascondere dietro l’efficienza del suo lavoro.
Mentre chiudeva la cerniera della valigia, con un gesto quasi rituale, Sofia inspirava profondamente, cercando di raccogliere il coraggio necessario per lasciarsi alle spalle anche se per poco quel mondo che la opprimeva. Ogni movimento era carico di quella strana miscela di determinazione e inquietudine: la routine della preparazione si faceva spazio accanto al silenzio di un lutto non detto, di una perdita troppo profonda per essere esposta senza timore di svelare troppo.
In quella luce fioca della stanza d’hotel, con la valigia ormai chiusa, Sofia era pronta a partire. Eppure, mentre raccoglieva il suo portatile e altri oggetti indispensabili, un pensiero si faceva strada, delicato e persistente: il ricordo di una presenza che, pur non essendo mai menzionata apertamente, pesava come un’ombra sul suo cuore. Un dolore che non era mai stato del tutto superato, ma che lei aveva imparato a celare dietro un’imperturbabile facciata professionale.
Così, mentre si preparava per un altro viaggio in terre lontane, ogni dettaglio – dal rumore sordo della cerniera che si chiudeva alla morbidezza dei tessuti scelti – raccontava una storia di solitudine e resilienza. Un racconto che, solo in punta di penna, accennava a quel dolore che, senza mai esporsi completamente, guidava le sue scelte e le sue partenze, lasciando all’osservatore il sospetto che dietro quella freddezza apparente si celasse un’insoddisfazione troppo ben mascherata per essere svelata in un primo sguardo.
Francesco si insaponava il viso con gesti lenti, metodici, quasi rituali. Il rasoio scivolava sulla pelle con precisione, tracciando una scia liscia nella densa schiuma, mentre per lui, per una volta, radersi la sera assumeva un significato diverso. Non era semplicemente cura personale: era come se ogni passaggio fosse un tentativo disperato di fermare, o forse di accelerare, il tempo che sembrava scivolare via inesorabile.
Si fermò un attimo e sollevò lo sguardo verso lo specchio. La luce fredda del bagno esaltava le ombre sotto i suoi occhi, raccontando storie di notti insonni e pensieri che si rincorrevano senza tregua. Era stanco. Non della giornata, né di qualcosa di specifico, ma di quell’attesa che si era radicata in lui come una seconda pelle, un peso silenzioso che non gli permetteva di riposare.
Nel riflesso vedeva un uomo che cercava, tra le pieghe del proprio volto, un segnale, una risposta che confermasse che era ancora lui. Le mani, ora asciutte e levigate, parevano voler imprimere un ricordo, un ricordo di un tempo in cui ogni gesto aveva un senso diverso. L’acqua calda scorreva nel lavandino, portando via la schiuma bianca, mentre lui passava le mani sul viso, quasi come se cercasse di cancellare una traccia di quel dolore che non si era mai del tutto dissolto.
Si voltò, lasciandosi alle spalle l’immagine di sé stesso nello specchio, e si diresse verso la stanza. L’orologio sul comodino segnava un’ora indecifrabile, una di quelle ore sospese che non appartengono né alla notte né al mattino, accentuando quella sensazione di tempo rubato. Accanto alla lampada accesa, un libro aperto, la costa piegata dall’uso, testimonianza silenziosa di notti passate a cercare risposte, stava a ricordargli che il tempo era prezioso eppure sfuggente.
Si lasciò cadere sul letto, fissando il soffitto con uno sguardo che parlava di domande senza risposta e di attese che non sembravano mai giungere. Avrebbe dovuto dormire, avrebbe dovuto chiudere gli occhi e lasciarsi alle spalle tutte quelle giornate che si erano mescolate in un unico, interminabile presente. Ma quell’attesa – quella strana attesa – non gli permetteva di trovare pace.
Mentre il silenzio della stanza si faceva pesante, i suoi pensieri cominciavano a correre già verso l’esterno, verso quel luogo che attendeva da tempo, un punto d’incontro che avrebbe potuto segnare una svolta. Non era soltanto la routine di una serata qualunque: era l’impulso di chi sa che qualcosa sta per cambiare, di chi attende un incontro che potrebbe riscrivere la sua storia. C’era in lui un impaziente fervore, una miscela di rimorso e speranza, una tensione silenziosa che gli faceva battere il cuore a ritmi irregolari.
Eppure, dietro quella maschera di calma apparente, si nascondeva anche una sottile rabbia, un amaro risentimento. Ogni gesto, ogni preparazione, era intriso di quella consapevolezza dolorosa: un senso di colpa che lo perseguitava, e un desiderio inconfessato che la sua storia potesse finalmente riprendere un nuovo inizio, nonostante tutto.
Così, mentre chiudeva con una strana attenzione, il libro aperto sul comodino, come a sigillare non solo capitoli di una storia che ora neanche ricordava, ma anche frammenti di un passato troppo pesante per essere completamente dimenticato. Così Francesco non poteva fare a meno di pensare al futuro. Un futuro in cui, forse, avrebbe potuto riprendere il cammino. E in quell’attimo sospeso tra il desiderio di rimediare e l’impazienza di un nuovo inizio, ogni dettaglio del suo rituale si faceva eco di quella lotta interiore, lasciando intuire, senza svelare del tutto, il legame profondo che avrebbe presto messo alla prova ogni certezza.
Fabio ed Elisa affrontavano il loro personale campo di battaglia: la valigia. Mentre Elisa, con quella precisione quasi chirurgica, selezionava ogni oggetto con la determinazione di chi sa esattamente che ogni dettaglio può fare la differenza, Fabio agiva con l’ironia che li aveva sempre contraddistinti. Lei era metodica, implacabile, decisa a portare tutto ciò che potesse servire per un viaggio – non solo per il lavoro, ma anche per quei momenti di complicità che, dopo anni di litigi e riappacificazioni, avevano trasformato la loro relazione in un equilibrio quasi invidiabile. Fabio, al contrario, si divertiva a eliminare furtivamente ogni oggetto superfluo: un paio di scarpe in più? Via, con un gesto quasi teatrale. Un phon grande quanto una turbina? Sparito in un batter d’occhio. Un impermeabile per un clima tropicale? Non c’era neppure il tempo di toccarlo, disperso come una vanità inutile.
Elisa chiuse la valigia con un sorriso di soddisfazione, ignara della sottile strategia del marito. Fabio osservava quella scena con un misto di divertimento e serietà. Per lui, le cose inutili non solo appesantiscono il viaggio, ma anche la vita. Mentre le dita di Elisa accarezzavano i tessuti, Fabio, con un sorriso sornione, ripensava a quei momenti passati, quando un litigio troppo pesante aveva quasi spezzato il loro mondo, portandolo perfino ad un punto di svolta, lasciandoli entrambi segnati e, alla fine, riformati.
Ma ora, in quell’istante di preparativi, tutto era diverso. La valigia di Elisa, meticolosamente ordinata, era anche il simbolo di un nuovo inizio, un contenitore pronto ad accogliere non solo vestiti, ma anche quella rinnovata promessa di ripartire insieme. Fabio, da parte sua, si divertiva a ridurre ogni ingombro, quasi come se liberandosi di ogni oggetto superfluo potesse alleggerire anche il peso di ricordi troppo dolorosi. Con ogni gesto, in quella guerra silenziosa di ordinamento, si faceva spazio una punta di ironia, un sorriso complice rivolto a Elisa, come a dire: “Le cose inutili non hanno posto qui, né in viaggio, né nella vita.”
Le mani di Fabio scorrevano veloci, e mentre riponeva un oggetto, non poteva fare a meno di ricordare quei momenti oscuri che avevano quasi spezzato la loro unione – momenti che, pur non venendo mai nominati apertamente, trasparivano negli sguardi, nei piccoli gesti e nella tensione che solo chi ha vissuto una crisi profonda sa percepire. Eppure, in quell’istante, tutto era intriso di un’ironia dolceamara: il caos passato, con i suoi litigi pesanti e le notti in bianco, si trasformava in un gioco di eliminazione, quasi come se ogni oggetto tolto rappresentasse un peso in meno, un peccato perdonato.
Elisa, guardando Fabio mentre spariva in un angolo per eliminare un’ennesima banalità, sorrideva, consapevole che quella dinamica, fatta di piccole battaglie e di grandi riconciliazioni, era diventata la loro salvezza. Era un equilibrio costruito sul tempo, sulle lacrime e sulle risate, che li aveva portati a capire che, anche se il passato era intriso di dolore, il futuro poteva ancora riservare sorprese leggere e piene di significato.
Così, tra una risata sommessa e un gesto complice, i preparativi per il viaggio divennero non solo un rituale quotidiano, ma anche un atto di speranza: la promessa che, nonostante tutto, si poteva ancora partire insieme, alleggeriti da ciò che era stato e pronti a lasciare spazio a nuove avventure, senza mai dimenticare che ogni piccola scelta, ogni oggetto eliminato, era parte integrante del loro percorso verso una vita che, finalmente, sembrava poter risplendere di una luce nuova.
In un altro luogo, in un altro tempo, lontano da tutto e da tutti, forse anche da sé stesso, Tommaso sollevò lo sguardo dal libro che non stava davvero leggendo. La sala d’attesa era permeata da un aroma familiare: un misto di aromi etnici, profumi costosi che ricordavano antichi viaggi e la stanchezza palpabile della gente che aspettava, come se ogni attimo fosse sospeso in un limbo tra il prima e il dopo. Qui, in quel non-luogo, il confine tra il partire e il restare si dissolveva, lasciando spazio solo a un’attesa silenziosa.
Si passò una mano tra i capelli, come per cercare di sistemare anche quelle piccole ciocche ribelli che parlavano di notti insonni e di pensieri che non trovavano pace, mentre incrociava le gambe, lasciando che il tempo, inesorabile, scivolasse via. Forse, rifletteva, il viaggio non era altro che questo: un’attesa continua, un lungo periodo in cui, senza rendersene conto, si cerca sempre qualcosa – una risposta, un segno, un cambiamento.
Sul polso, nascosto sotto la manica della giacca, batteva silenzioso un vecchio orologio da polso, il cui polsino in cuoio consumato parlava di anni e di strade percorse senza mai essere stato tolto. Era l’unico oggetto fedele, un piccolo anello di costanza in mezzo a quel caos di transizioni e sospensioni.
In quel momento, mentre osservava gli altri viaggiatori che si perdevano nei propri pensieri e aspettative, Tommaso si domandava se, in fin dei conti, ogni viaggio non fosse un atto di ricerca interiore, una continua corsa a inseguire l’essenza di ciò che, nel profondo, ognuno di noi spera di trovare. Ogni sguardo, ogni sorriso scambiato fugacemente, poteva essere il battito d’ali di una farfalla destinato a scatenare un uragano di conseguenze inaspettate. E lui, con il suo vecchio orologio al polso, era lì, parte di un disegno più grande, in attesa di un segnale che potesse indicargli la via o a insegnargli come fare per scegliere quella giusta.
Fabio ed Elisa si trovavano in una serata che pareva voler raccontare una storia di serenità e bellezza, ma sotto quella patina scintillante si celava una tensione che solo loro sapevano leggere. Seduti nel loro ampio salotto, con luci soffuse e un sottofondo di musica jazz che scivolava lentamente, i due parlavano dei loro progetti per il giorno successivo. Elisa, con il tono sicuro di chi dirige eventi culturali e curatrici di mostre, illustrava con passione l’ultima installazione che aveva organizzato per una galleria d’arte: “Sai, Fabio, ho scelto di esporre opere che giocano con la luce e l’ombra, per sottolineare come ogni dettaglio, anche il più sottile, possa trasformare l’intera esperienza visiva.”
Fabio, che nel frattempo annotava qualche appunto su un taccuino dal design minimalista, le lanciò uno sguardo complice e poi, con un sorriso beffardo, rispose: “Mi ricordo che anche tu sei un’amante dell’essenzialità, Elisa. Magari potresti dirmi come fai a scegliere solo l’essenziale per una mostra… E poi invece quando prepari una valigia, l’essenziale è l’unica cosa che lasci a casa?”
Le sue parole, pur dette con leggerezza, cominciarono a farsi strada nel discorso, aprendo una breccia tra la loro armonia apparente. Elisa, che aveva sempre ammirato il modo in cui Fabio trasformava il caos in ordine, non poté fare a meno di replicare con una punta di amarezza: “Ah grazie! Sempre una parola gentile per la tua Elisa vero? Ma non ti può passare per la testa che tu non sei il tenutario unico del segreto su cosa sia essenziale e cosa no…. Non credi che a volte eliminare tutto, anche ciò che potrebbe raccontare qualcosa, ti faccia perdere parte di noi? Non è solo questione di design, sai; a volte, ciò che a te sembra superfluo porta con sé ricordi e sentimenti importanti… E invece che alleggerire ottieni l’effetto contrario e rendi tutto più pesante?”
Fabio si fermò per un attimo, le dita tremolanti mentre tracciava una linea sul margine del taccuino, e poi rispose in tono scherzoso, ma con un’ombra nei suoi occhi: “Forse, cara, sto cercando di alleggerire il viaggio che abbiamo iniziato insieme anni fa, sia quello fisico che quello interiore. Diciamo che io preferisco portare solo ciò che non ritengo pesante… per quello ci sei già tu che basti e avanzi mia cara!”
La battuta, inizialmente divertente, si trasformò in un preludio di una discussione che avrebbe preso forma in maniera più intensa. L’atmosfera, fino a quel momento pervasa da un equilibrio sottile, cominciò a scalfire. Elisa si fece seria, cercando di spiegare con calma: “Primo non sono pesante! In nessun senso e mettitelo bene in testa!! Secondo: non è che io voglia accumulare ogni cosa, Fabio. Ma a volte, eliminare troppo rischia di cancellare anche le parti che ci hanno reso ciò che siamo. Il mio lavoro, la mia passione per le mostre, mi hanno insegnato che ogni dettaglio conta, ogni ombra e ogni luce insieme creano l’armonia di un tutto.”
Il tono della conversazione mutò; le parole divennero più veloci e i sorrisi cominciarono a celare una crescente frustrazione. Fabio, con la sua consueta ironia, replicava in modo affrettato, cercando di giustificare la sua scelta di ridurre il superfluo, ma Elisa non si lasciava convincere. In quel momento, tra i bicchieri di vino e le ombre danzanti sulle pareti, il loro scambio sembrava andare ben oltre una semplice discussione sul design degli spazi o sulla cura degli oggetti.
Ogni frase era un eco di vecchie ferite, di litigi passati in cui le parole avevano colpito più forte dei gesti. Il tono, pur mantenendo un velo di ironia, si faceva più acuto: “Fabio, a volte penso che tu stia cercando di cancellare tutto ciò che abbiamo vissuto. Non ti rendi conto che i ricordi, anche quelli dolorosi, sono parte di noi?” disse Elisa, la voce bassa, carica di una tristezza che faceva tremare l’aria intorno a lei.
Fabio abbassò lo sguardo, e per un attimo il silenzio cadde tra di loro, denso e palpabile. Fu allora che, in quel breve istante, entrambi capirono che quella litigata, nata da un motivo apparentemente futile – un’ossessione per l’ordine e per l’essenzialità – era il riflesso di tensioni ben più profonde, quelle che avevano quasi distrutto il loro rapporto in passato. Quel litigio era solo l’inizio di un percorso doloroso, uno dei tanti che li avrebbe condotti, in seguito, a una rottura temporanea segnata da un incidente fatale, un evento che avrebbe cambiato per sempre la loro esistenza.
La serata, che era cominciata con la promessa di una tranquilla complicità, si trasformava ora in un momento di amarezza, un flash di emozioni contrastanti che avrebbe lasciato una cicatrice indelebile. E in quel momento, con le luci soffuse e il rumore sommesso della pioggia in sottofondo, Fabio ed Elisa si resero conto che, nonostante ogni litigio e ogni riconciliazione, il loro rapporto era sempre stato fatto di momenti di intensa vulnerabilità e di una forza che, pur nata dal dolore, li aveva sempre tenuti insieme.
Così, mentre la tensione si faceva più intensa e le parole non dette si accumulavano come ombre, quella serata diventava il precursore di una tempesta che nessuno di loro avrebbe potuto evitare, un segnale premonitore di quella svolta che, nel tempo, avrebbe rappresentato il punto di svolta della loro vita, e che, pur non rivelandosi immediatamente, avrebbe poi dato loro una seconda possibilità, seppur a caro prezzo.
E poi, il viaggio.
L’auto di Leonardo e Giulia sfrecciava nella notte, il motore scandiva il silenzio teso tra loro. Lei fissava il mondo scorrere fuori dal finestrino, un vortice di luci e ombre che sembravano accelerare il tempo. Leonardo, al volante, aveva le mani serrate sul volante come se potesse trattenere qualcosa, come se bastasse stringere forte per non lasciarla andare. Non parlavano. Non c’era più nulla da dire. Giulia aveva il respiro corto, il petto contratto come se un peso invisibile la schiacciasse. Avrebbe forse voluto che Leonardo le chiedesse di restare, ma sapeva che non lo avrebbe fatto. Lui non era mai stato uno da gesti estremi. L’amava, ma la lasciava andare. O forse la lasciava andare proprio perché l’amava. A un semaforo rosso, Leonardo girò appena il viso verso di lei. “Ti mancherò?” Giulia chiuse gli occhi per un istante. “Non lo so.” Il semaforo diventò verde. Ripartirono.
L’aeroporto era un ecosistema perfetto di ordine e movimento, e Sofia si muoveva al suo interno con la sicurezza di chi sa esattamente dove sta andando. Il trolley scivolava accanto a lei in una traiettoria precisa, il passo misurato, il portamento impeccabile. A chiunque l’avesse vista in quel momento, sarebbe apparsa come la viaggiatrice perfetta: elegante, concentrata, in perfetto controllo. Eppure, dentro di sé, qualcosa vibrava in modo irregolare, come una nota stonata in una sinfonia perfetta. Il telefono vibrò nella tasca del cappotto. Lo estrasse con un gesto automatico, senza rallentare il passo. Guardò il nome sullo schermo e lo rimise via senza rispondere. Non perché non volesse, ma perché sapeva già cosa avrebbe sentito. Domande a cui non voleva rispondere. Voci che preferiva tenere a distanza. Un’altra cosa da chiudere in valigia, insieme a tutto ciò che aveva scelto di lasciarsi alle spalle. L’altoparlante annunciò la partenza imminente di un volo – non il suo – e per un attimo il flusso di persone si mosse con un ritmo più frenetico. Sofia rimase ferma, le braccia incrociate davanti a sé, osservando quel piccolo vortice di vite in transito. Gli aeroporti erano sempre stati luoghi di passaggio, crocevia di storie che si sfioravano senza mai toccarsi davvero. Ed era proprio questo che li rendeva perfetti: nessuno rimaneva, nessuno si fermava troppo a lungo. Esattamente come lei.
Francesco era fermo al semaforo da dieci minuti. O almeno, così gli sembrava. Il motore dell’auto ronzava piano, mentre il tamburellare delle sue dita sul ginocchio rompeva il silenzio nell’abitacolo. Aveva sempre pensato di essere bravo a mascherare il nervosismo. Eppure, quel giorno, il solito sorriso di circostanza non sembrava più bastare. Girò lentamente la chiave e spense la macchina. Il respiro gli tremava appena. Il viaggio che stava per intraprendere non prevedeva biglietti né imbarchi, eppure gli sembrava di essere sull’orlo di una partenza che avrebbe cambiato ogni cosa. Si guardò le mani. Quando mai gli erano sembrate così vuote? Le luci della strada si riflettevano sul parabrezza, e per un istante gli sembrò di scorgere il suo futuro oltre il vetro. Non era un luogo. Era una possibilità. Ma avrebbe avuto il coraggio di afferrarla?
Fabio ed Elisa attraversarono le porte automatiche dell’aeroporto, il suono del loro passaggio coperto dal brusio costante della folla. “Abbiamo tutto?” chiese lei, con un tono che sapeva già la risposta. Fabio sorrise, accomodandosi meglio lo zaino sulla spalla. “Abbiamo quello che serve.” Lei annuì, senza notare il piccolo guizzo compiaciuto negli occhi del marito. Era convinto di aver vinto l’ennesima battaglia silenziosa sulla valigia. Ma Elisa lo conosceva più di quanto lui immaginasse. Aveva già messo in conto che avrebbe sottratto qualcosa di “non essenziale”. E aveva già deciso di non farglielo notare. Perché, in fondo, in quella danza di sottrazioni e aggiunte, si nascondeva il loro equilibrio. Mentre si mettevano in fila per il check-in, Elisa si girò appena, osservando per un istante l’andirivieni della gente. Ogni viaggio iniziava così: con il rumore di passi, voci, coincidenze casuali. E con quella leggera vertigine che ti prende quando sai che qualcosa, da quel momento in poi, cambierà.
In un piccolo studio dal design minimalista, Fabio passava le dita su schizzi sparsi, tracciando linee nette che cercavano di eliminare ogni superfluo. Accanto a lui, Elisa, immersa in una mostra in una galleria intima, annotava ogni dettaglio di opere che esaltavano la luce e l’ombra. Tra una battuta e l’altra, tra un sorriso e un’occhiata troppo intensa, si intravedeva già quella sottile divergenza: Fabio, deciso a ridurre il caos della vita, e Elisa, convinta che ogni imperfezione racchiudesse un ricordo prezioso. Un litigio quasi banale sul modo di disporre gli oggetti, un dettaglio fuggente che, senza svelare troppo, sembrava preannunciare un’inarrestabile rottura.
In un appartamento immerso in luci soffuse, Giulia fissava una vecchia fotografia appesa al muro: un’immagine sbiadita di un momento di felicità ormai lontana. Quel ricordo, inaspettato e silenzioso, scatenò in lei una lieve inquietudine. Mentre sorseggiava un tè ormai freddo, il suo sguardo si fece incerto, come se cercasse in quella memoria la chiave per capire perché, nonostante tutto, sentisse il bisogno irrefrenabile di lasciarsi alle spalle un passato che pesava troppo.
Nel corridoio frenetico di un ospedale, Leonardo osservava, con occhi attenti e un velo di tristezza, un paziente che non poteva essere salvato. In quel momento, tra il brusio delle macchine e i passi affrettati dei colleghi, lui percepì il peso di un silenzio interiore che lo segnava profondamente. Quel ricordo – un attimo di impotenza che gli aveva fatto dubitare di sé – era il seme di una domanda che ancora lo tormentava: come poter essere davvero presente, se il passato lo legava a ogni sofferenza non detta?
Su un treno che percorreva strade deserte, Francesco sedeva accanto a un finestrino appannato. Nel riflettere sul paesaggio che scorreva veloce, percepiva in ogni luce ed ombra un’eco di sé stesso, un vuoto che gli ricordava che, a volte, i piccoli gesti – un sorriso appena scambiato, un silenzio carico di domande – potevano essere il battito d’ali di una farfalla, capaci di scatenare un uragano. Quell’attesa silenziosa, senza ancora svelare la sua identità nascosta, si faceva strada nel suo animo, lasciando intendere un futuro che doveva ancora essere scritto.
In una notte intrisa di luci urbane e riflessi sul vetro di una finestra, Sofia osservava il mondo fuori con un’espressione che tradiva più di quanto volesse dire. Una volta, in un giovane incontro, aveva assaporato un amore sfuggente – una promessa interrotta da un dolore che ancora, silenziosamente, la segnava. Quell’attimo, quasi dimenticato, era il seme di una determinazione: quella di cercare, in ogni viaggio, un frammento di sé che potesse farle colmare il vuoto lasciato da ciò che non poteva essere recuperato.
Valentina Giavani
Aggiungo… che ho avuto la fortuna di leggero tutto!!!!
Valentina Giavani
Ecco un libro non banale, scritto per essere letto e ritrovarsi nei personaggi come se fossero persone realmente incontrate! Il finale… una sorpresa! Lo consiglio vivamente perché è sempre intrigante “spiare” nella vita degli altri e ritrovare se stessi! Bravo allo scrittore in erba e all’esordio, adesso aspetto il tuo prossimo libro!