È una mattina limpida di primavera, ma dentro di me tutto è sfocato.
Una brezza tiepida entra dalla finestra, accarezza la pelle ancora intorpidita, ma non riesce a spazzare via il sapore acre che mi porto in bocca. Il terzo mojito della serata mi ricorda che ho oltrepassato il limite – di nuovo.
Afferro la bottiglia con la stessa foga di un viaggiatore errante sotto il sole cocente, la sollevo, ma l’ultima goccia scivola lenta nel collo di vetro. Troppo lenta. Non basta.
Il mio corpo nudo è ancora intrappolato in un limbo da cui sembra impossibile uscire. Scorro la mano lungo i fianchi, come a cercare una prova della mia esistenza. Le lenzuola sono umide, appiccicate alla pelle.
Con uno scatto mi sollevo e appoggio i piedi a terra. Il pavimento è gelido, il contatto mi provoca un brivido inaspettato. Un brivido di piacere.
Mi trascino verso il frigorifero e afferro una bottiglietta d’acqua. Bevo fino all’ultima goccia, cercando di sciacquare via la notte appena trascorsa. Ma il sapore non se ne va.
Mi guardo intorno: la casa è un riflesso di me. I vestiti abbandonati sul pavimento, i calici vuoti con il rosso rappreso sul fondo, l’odore di fumo che si è aggrappato ai muri. La serata è finita, ma il vero disordine non è qui: è dentro di me.
Dovrei sistemare tutto prima che arrivi mio fratello. Tra qualche ora Andrea busserà alla porta e non posso dargli il benvenuto con questo caos informe.
Mi siedo sul divano. Chiudo gli occhi e ascolto il mio respiro.
Provo a distrarmi, a svuotare la mente. Ma un dolore lancinante alla testa si frappone tra me e i ricordi della sera precedente.
Lentamente riaffiorano, lenti e confusi. Le sue mani su di me. Il suo respiro affannato. Il mio piacere che si mescola alla rabbia.
Dopo tutto quello che è successo, non avrei dovuto farlo tornare a casa mia. Per giorni mi ero ripromessa di non cedere a questa danza pericolosa. Ho cancellato ogni pensiero su di lui come si cancella una scritta sulla sabbia, aspettando solo che l’alta marea facesse il suo lavoro.
Ci pensate mai a come un piccolo evento possa cambiare tutto? L’effetto farfalla, lo chiamano. Un battito d’ali che scatena un uragano dall’altra parte del mondo.
Credevo di essere più forte. Più decisa. Ma chi volevo ingannare? In fondo, l’avevo già deciso.
Il citofono interrompe bruscamente i miei pensieri.
«Sarà lui?» penso massaggiandomi le tempie
Poi apro il cancello principale senza pensarci.
«Avrà dimenticato sicuramente qualcosa!» mi guardo intorno ma in quel caos è difficile identificare cosa.
Corro in bagno e mi guardo allo specchio. Che brutta cera!
Capelli scompigliati. Mascara colato. Occhiaie scavate da una serata complessa. Dovrei sistemarmi.
Infilo velocemente la vestaglia di seta giallo burro di Vera Persiani.
Il campanello risuona, assordante nella mia testa.
Corro ad aprire la porta. La spalanco.
«Sei tu! Entra…»
Mi giro sistemando i capelli dietro le orecchie. Poi il buio. Per sempre.
Carlo
Doveva essere il mio sabato libero. Un caffè lento, niente sirene, niente furti. Ma la centrale ha altri piani per me.
Il telefono aveva squillato alle 11:27. Mentre ero ancora sotto le lenzuola a concedermi il mio meritato riposo dopo una settimana di lavoro intensa.
Quando il telefono suona il tuo giorno libero, non porta mai buone notizie. Una voce asciutta all’altro capo mi aveva detto soltanto:
«Commissario, abbiamo un codice rosso in Corso di Porta Romana 12. Donna trovata morta.»
Poi il silenzio, quello denso delle telefonate che finiscono troppo presto.
Milano non è una città che trabocca di casi come questo. Furti, rapine, truffe? Certo. Ma omicidi? Pochi. E quando succedono, di solito hanno una spiegazione chiara.
Infilai la divisa del giorno prima, ancora piegata sulla poltrona di fronte al letto. Aveva l’odore della notte, del sonno interrotto, delle urgenze che non aspettano l’alba.
Mi passai una mano tra i capelli e corsi in bagno. Giusto il tempo di lavarmi la faccia e rendermi vagamente presentabile. Niente barba. Niente colazione. Il caffè sarebbe arrivato più tardi, forse. O forse no.
Scivolai giù per le scale del palazzo come se stessi scappando da qualcosa. Saltai in macchina, girai la chiave e partii.
Arrivai in meno di dieci minuti dopo aver deliberatamente ignorato tutti i semafori che si frapponevano tra me e la appartamento della vittima. L’edificio era già transennato, i lampeggianti blu disegnavano ombre sulle facciate delle case. Una folla di curiosi si accalcava dietro il nastro della scientifica: donne eleganti, uomini ben vestiti, adolescenti col telefono in mano pronti a registrare ogni passo. Si alzavano sulle punte, cercavano di sbirciare, di cogliere anche solo un dettaglio da postare sui social.
Mi feci largo senza parlare. Sara Marchesi, il mio agente migliore, mi vide arrivare e mi venne incontro.
«Commissario. La vittima si chiama Asia Aspesi, trentadue anni» mi ragguagliò velocemente «È stato il fratello a trovarla. Era già morta.»
Poi si fermò, mi bloccò per il braccio e aggiunse «Non è un bello spettacolo».
Ci incamminammo verso l’ingresso.
«Sai già qualcosa sulla causa della morte?» chiesi, senza rallentare il passo.
Sara annuì appena. «Il medico legale non è ancora arrivato, ma dai primi rilievi sembra sia stata colpita alla testa. »
«Con cosa? »
«Non lo sappiamo. Nessuna arma è stata trovata nell’appartamento. È scomparsa, ammesso che sia mai stata lì. »
Feci un respiro profondo, poi aggiunsi: «Testimoni? Qualcuno ha visto o sentito qualcosa? »
Sara scosse la testa. «Nulla finora. Nessuna segnalazione, né dai vicini né da passanti. Troppo silenzio, per essere Milano. »
Sgranai gli occhi, stringendo i denti. Nessuna arma. Nessun testimone. E un fratello devastato. L’inizio di una brutta storia. E io l’avevo appena imboccata.
Varcai il portone principale e salii le scale con un peso nello stomaco. Ogni gradino sembrava rallentarmi. Poi entrai nell’appartamento, la vittima era all’ingresso….
Ricordo poche scene del crimine come quella, in realtà ricordo poche scene del crimine e basta.
Il corpo era steso a terra, il capo immerso in una pozza di sangue. Il volto rivolto al soffitto, gli occhi spalancati.
Il viso della ragazza era tumefatto, quasi irriconoscibile. Lividi sulle braccia, segni di colpi ripetuti. Un’esplosione di rabbia, di odio. Non era stato un omicidio freddo, ragionato. Era qualcosa di più violento e viscerale.
Non avevo certezze, ma il mio istinto mi diceva che chi ha colpito… probabilmente era un uomo. Per la violenza. Per l’efferatezza del delitto.
«Comandante, la scientifica è arrivata! »
La voce dell’agente Marchesi mi strappò dai mie pensieri. Annuii, lasciai il campo alla squadra e mi allontanai.
Nella stanza accanto, seduto su una sedia con le spalle curve e lo sguardo incollato al vuoto, c’era il fratello della vittima. Mi avevano riferito il suo nome. Andrea. Il 118 lo ha trovato così, in stato di shock. È stato lui a chiamare i soccorsi.
Mi sedetti di fronte a lui.
«Sono Carlo Ferri, comandante della polizia» con tono sommesso aggiunsi «Mi dispiace per la sua perdita. Dovrei farle qualche domanda, se la sente di aiutarci? »
Lui non rispose subito. Il suo sguardo passò attraverso di me, come se fossi trasparente. Provai a destare la sua attenzione, con scarsi risultati:
«L’agente mi ha riferito che è stato lei a chiamare la polizia. Può dirmi come è entrato? »
Le sue mani si strinsero, mi rivolse uno sguardo intenso e allo stesso tempo vuoto «Io… avevo le chiavi. Ho suonato e suonato, ma Asia non apriva. Così.. sono entrato e lei era lì…» La voce gli si spezzava. «Sulla porta… » si coprii la bocca con una mano. «Mi scusi… »
Gli diedi il tempo di respirare.
«Ha notato segni di effrazione?»
Scosse la testa. «Nulla. Lei sapeva che sarei arrivato stamattina. Io non so… non so cosa sia successo.»
L’agente Marchesi confermò la sua teoria «Commissario, abbiamo verificato. Le confermo che non ci sono segni di effrazione. L’assassino presumibilmente era un conoscente della..» Sara abbassò lo sguardo, il tono sommesso in segno di rispetto e di solidarietà per il fratello «…vittima»
Annuii, annotando mentalmente l’informazione e mi rivolgo al fratello.
«Asia viveva con qualcuno?»
Esita. «No, viveva da sola» si massaggiò le tempie «Mi ha raccontato che frequentava di tanto in tanto una persona. Un cliente della sua azienda. Credo sia successo qualcosa tra loro, ma voleva parlarmene a voce…» Sollevò gli occhi pieni di dolore su di me
«Io non posso crederci…».
Con un cenno silenzioso, comandai all’agente Marchesi di restare con Andrea, anche se nutrivo poche speranze sulla rilevanza delle informazioni che avrebbe potuto fornirci in quello stato.
Mi congedai per avvicinarmi alla vittima. Nel frattempo il medico legale era arrivato.
«Commissario.» Mi strinse la mano con fermezza, poi si chinò sul corpo della vittima mentre infilava con calma i guanti in lattice blu.
Sollevò le braccia ormai flaccide, osservando con attenzione i lividi violacei che le chiazzavano la pelle. Poi passò alla testa: le scostò con delicatezza i capelli, incrostati di sangue secco, e ne studiò la ferita.
Esaminò le mani: ispezionò le unghie, le sfiorò con una pinzetta sterile, poi osservò le gambe. Infine sollevo la maglietta della donna, appoggiò il dorso della mano guantata sull’addome.
«La temperatura addominale è ancora leggermente superiore a quella ambientale, e la rigidità è in fase avanzata, ma non completa. Direi che il decesso risale a circa quattro-sei ore fa,» mormorò, più per sé che per me.
«Qualsiasi cosa le dirò dovrà essere confermata dall’autopsia,» aggiunse, sollevando lo sguardo.
«La vittima è stata colpita alla testa con un oggetto contundente. La frattura parietale sinistra e l’emorragia cerebrale fanno pensare a una morte istantanea.»
Scrollò lievemente il capo.
«Nessun segno evidente di colluttazione. Non ho rilevato materiale biologico sotto le unghie, né escoriazioni sulle nocche. Le mani sono pulite: non sembra si sia difesa.»
Indicai i lividi che segnavano le braccia della donna. «E questi?»
«Ecchimosi post-mortem,» rispose.
«Formazioni vascolari dovute a compressione successiva al decesso. L’assassino ha infierito sul corpo quando era già senza vita.»
«Quindi ha ucciso… e poi si è accanito.» Tradussi
«Esatto,» confermò il medico legale, sollevandosi lentamente.
«Che senso ha?» pensai ad alta voce.
«Questo dovrà scoprirlo lei!» concluse con uno sguardo che sembrava già altrove.
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