Il sole saliva sempre più, percorrendo il suo arco naturale. La luce colpiva in pieno il muro del lato diroccato della comunità, accendendolo come a dargli vita. Sembrava la prua di una nave o la carcassa di una balena trascinata a riva dalle onde dell’oceano. Melissa pensò che Miriam fosse ancora là dentro, in qualche modo, incastrata tra i fanoni di quel grande cetaceo fatto di cemento, e che il suo odore e il suo respiro continuassero a vagare come fantasmi all’interno di quel relitto. Avrebbe voluto tornarci, ripercorrere di giorno la strada che avevano fatto nel buio, se non altro per capire: capire se quello che era accaduto fosse stato solo un sogno o realtà.
Il pensiero la spaventava: temeva che ogni parola potesse come incastrarla, murandola viva a Desiderio per sempre. Forse non avrebbe detto tutto. Ma qualcosa avrebbe dovuto dire, confessare. Sapeva che la dottoressa Romeo non forzava mai: chiedeva, e ascoltava davvero.
E Melissa, dopo tanto tempo, sentiva il bisogno di essere ascoltata. Di trovare un senso. Di non perdersi in quell’abisso che si stava aprendo dentro di lei, ancora una volta.
Intanto, attorno, le ragazze avevano iniziato a bagnarsi con l’acqua per gioco. Ridevano, si rincorrevano nel prato lanciandosi secchiate, felici. Marcello e Paola le osservavano da lontano, con l’aria rilassata di chi lascia fare finché non diventa troppo. Melissa si tirò indietro: in quel momento la gioia degli altri la infastidiva, la faceva sentire più sola.
Alle undici e mezza furono tutte invitate a rientrare in struttura per prepararsi alla piscina. Un’ultima secchiata tra le risa, poi corsero a sistemare zaini e costumi, entusiaste per quella che sarebbe stata l’ultima uscita stagionale. Nel rientrare, Paola la chiamò e le disse:—La dottoressa Romeo mi ha risposto che per oggi va bene. Ti accoglierà nel suo studio alle quindici. Noi andremo in piscina con le altre, ma nel pomeriggio entrerà in turno Laura, che ti accompagnerà.
Melissa si sentì sollevata e impaurita al tempo stesso. Alla notizia lo stomaco le si chiuse: sperava solo che la dottoressa non cambiasse idea e che l’avrebbe ricevuta davvero.
La dottoressa Giulia Romeo aveva quarantacinque anni e una presenza, intellettuale e fisica, che non si lasciava ignorare. Melissa, sin dal primo giorno, l’aveva percepita come una figura al tempo stesso accogliente e ambigua. Le sue parole non erano mai casuali, mai dettate dalla fretta o dalla superficialità. Perfino il suo silenzio aveva peso: un silenzio che ascoltava, che sapeva attendere.
Alta, ben proporzionata, con una chioma nera e folta che le cadeva sulle spalle in un disordine calcolato, amava vestirsi con sobrietà senza rinunciare al gusto. Prediligeva pantaloni sartoriali, camicie di seta, scarpe basse e gioielli discreti. Il seno abbondante, che tentava invano di celare dietro le bluse, aggiungeva una sensualità involontaria a un portamento già sicuro. Non era una donna che si sforzava di apparire bella: semplicemente lo era, e ne aveva consapevolezza.
Preferiva la complessità alle etichette, l’intuizione all’interpretazione rigida. Non amava usare strumenti diagnostici preconfezionati: cuciva un abito psicologico su misura per ogni paziente. In ambulatorio o in comunità, sedeva davanti alla scrivania annotando sulla sua agenda solo poche righe, parole chiave. Per il resto, ascoltava.
La comunità era uno dei suoi luoghi di lavoro, ma non l’unico. In zona Porta Venezia, a Milano, aveva il suo studio privato, al quarto piano di un elegante palazzo d’epoca. Lì riceveva pazienti di ogni età: adolescenti, sacerdoti, donne con famiglie spezzate, professionisti dall’apparenza impeccabile ma con un vuoto profondo sotto la superficie. Ragazzini in preda all’ansia di vivere. I suoi clienti la cercavano perché si sentivano compresi, ma anche messi alla prova. Lei non si accontentava di offrire soluzioni facili: interrogava, smontava e ricostruiva con precisione la personalità che aveva davanti.
In comunità, invece, il suo ruolo era diverso: più contenitivo, più clinico, meno individuale. Ma con le ragazze più complesse, quelle che portavano fratture profonde, riusciva a creare uno spazio trasversale. Non si faceva illusioni: sapeva che, nella maggior parte dei casi, l’accesso alla verità richiedeva tempo. E che a volte nemmeno quello bastava. Ma continuava a tentare. Continuava a esserci.
Conosceva i genitori di Melissa. Li aveva incontrati anni prima, in un contesto tutt’altro che clinico, durante una vacanza in Grecia. A una cena tra amici comuni si erano scambiati i numeri di telefono. Anche Melissa era presente, ma aveva solo cinque anni e di quell’incontro non ricordava nulla. Qualche tempo dopo, fu Lorenzo Berrini a contattarla: da allora Giulia era diventata la sua psicoanalista.
Quando la situazione della figlia divenne ingestibile, fu la dottoressa Romeo a proporre la comunità terapeutica come strada possibile. Non una punizione, non un isolamento, ma uno spazio in cui potesse, forse, fermarsi e guardarsi dentro.
Quella decisione non era stata semplice. Aveva avuto dubbi ed esitazioni. Seguire più di un membro della stessa famiglia poteva sì essere illuminante, ma anche molto rischioso. Ciononostante, aveva preso in carico Melissa con un’attenzione particolare, pur mantenendo la distanza professionale necessaria. Non la coccolava, non la trattava con favoritismi, ma la osservava con più cura di quanto lasciasse intuire.
C’erano giorni in cui, al mattino, scorrendo i resoconti clinici dei colleghi psichiatri, il nome di Berrini le provocava un sentimento di sconfitta. Un misto di apprensione e urgenza. Lei non era come le altre ragazze. Non era soltanto rabbiosa, depressa o disturbata: c’era in lei qualcosa che sfuggiva, una sorta di fame, un’assenza bruciante, una timida e insieme feroce voglia di “male” Un desiderio di essere riconosciuta, ma anche di essere annullata. Quell’ambivalenza la colpiva in modo personale.
Nelle sedute lasciava che i silenzi si allungassero, che gli sguardi si perdessero, che le parole nascessero senza pressione. A volte Melissa non diceva nulla per decine di minuti, poi vomitava frasi e immagini come un fiume in piena. Spesso evitava le domande scomode, eludeva le tematiche più spinose. Ma raccontava i sogni. I suoi sogni erano un punto fermo dei loro incontri. Lei viveva tanto di giorno quanto di notte. Per Romeo, ciò che accadeva durante il sonno faceva parte di uno sdoppiamento della sua personalità: un’asimmetria disarmante tra la Melissa cosciente e quella incosciente.
Da psicoanalista era esperta nel cogliere i simboli, i dettagli che parlavano al posto delle parole. I disegni erano spesso più eloquenti delle frasi. I silenzi più densi delle urla. Sapeva quando insistere e quando lasciar andare, quando toccare un nervo scoperto e quando proteggerlo.
La comunità era una parte essenziale del suo lavoro. Non solo per i casi clinici e per la sua formazione professionale, ma anche per ciò che rappresentava: un microcosmo fragile e vitale, un luogo dove le ferite venivano a galla, dove si poteva ancora tentare, dove la parola aveva un senso e il silenzio era pieno. Melissa non lo sapeva, ma ogni volta che la dottoressa terminava una seduta, lei restava a lungo alla scrivania, a ripensare alle parole dette, alle omissioni, ai dettagli.
C’erano però delle scadenze da rispettare: aveva promesso a Lorenzo Berrini che entro sei mesi l’avrebbe fatta uscire da Desiderio. Lui non avrebbe concesso altro tempo. Con o senza risultati, avrebbe portato via la figlia, magari affidandola a un’équipe privata a casa, o cercando in tutta Europa altre strutture, altri metodi di cura.
Π
Arrivarono le quindici. Melissa attendeva Laura, seduta sul divano della saletta al primo piano. Era rimasta sola: le compagne se ne erano andate tutte, allegre e strillanti, verso l’ultima piscina dell’estate. Averle intorno le aveva procurato parecchio fastidio, mal sopportando persino Lalla. —Che ci affoghino tutte in quell’acqua putrida— pensò.
Laura la raggiunse, vide in lei lo stesso sguardo del giorno precedente, quello che l’aveva turbata, quando, prima di congedarsi dalla riunione, aveva sussurrato qualcosa alla dottoressa.
—Melissa, sei pronta? Ti accompagno…
Rispose di sì, alzandosi in piedi, anche se il ricordo di quello sguardo la agitava. Continuava a domandarsi se Laura sapesse della fuga notturna con Miriam.
Giunte davanti alla porta dello studio, l’educatrice bussò ed entrò, seguita da Melissa. Romeo era già seduta alla scrivania: sorrise accogliendole entrambe.
—Eccoci qua, le ho portato la signorina Berrini. Vi lascio al vostro incontro. —Con queste parole Laura si congedò.
Lo studio della dottoressa rispecchiava la sua personalità: ordinato, elegante, con una luce morbida filtrata dalle tende écru che sembrava avvolgere chiunque entrasse. Melissa si accomodò nella poltrona, le mani strette in grembo. Romeo le rivolse un sorriso gentile, non invadente.
—Mi hanno detto che avevi voglia di parlarmi. Ne sono contenta.
Melissa annuì. Non sapeva da dove iniziare: troppe cose da dire, e la paura che l’emozione la tradisse.
—Non sto bene—disse infine. —Da un po’. Ma ora… è come se mi sentissi avvelenata, ho molti brutti pensieri. Mi sento agitata, ma in modo diverso dal solito. Confusa. Ho bisogno di parlare.
— Io sono qui per ascoltarti e aiutarti. —Le rispose la dottoressa.
Sulla scrivania c’erano diverse cartelle aperte, contenenti la storia clinica di Melissa.
—Hai avuto un momento difficile ieri? Mi hanno detto che hai saltato la cena e sei andata a dormire presto.
—Ero stanca. —Rispose.
—Solo stanca?
Melissa esitò. —Ho fatto un sogno… e al risveglio mi sentivo a pezzi. Era da un po’ che non mi capitava di sognare così.
Romeo la invitò a proseguire con un cenno.
—Sognavo di essere diversa. Una falena. Volavo di notte, in un cimitero. Ho visto la tomba di mia madre, quella di Miriam… — Si interruppe, temendo di essersi tradita, ma continuò subito: —e infine la mia.
La dottoressa annuì. —Un sogno molto intenso. Ti ha fatto paura? —
—Sì. Volare nel buio mi sembrava naturale, ma poi mi posavo sulle tombe. Come se non avessi più un posto dove andare.
—Hai detto che oltre alla tua di tomba, c’erano quella di tua madre e di Miriam. Lei purtroppo è scappata, non si trova da alcuni giorni. Forse questo sogno parla delle tue paure di perdere le persone care… e di perdere te stessa. Potrebbe essere una chiave di lettura, non credi?
Romeo aprì una cartellina e gli mostrò alcuni fogli. —Melissa, queste sono fotocopie dei tuoi diari. Ne abbiamo già parlato altre volte, ma non hai mai voluto affrontarli davvero. Te la senti oggi? Sarebbe un grande passo.
Lei si morse le labbra, gesto che non sfuggì alla dottoressa. Si aspettava che prima o poi si arrivasse a questo. Nei suoi diari aveva riversato per anni ciò che i genitori avevano definito “irripetibile”. Incubi trascritti con precisione chirurgica, pagine fitte fino all’ultimo margine, inserendoci anche fogli improvvisati come fazzoletti o biglietti d’auguri pur di non tralasciare ogni minimo dettaglio.
Tutto diventava supporto per i suoi pensieri: “inadatti per una ragazza della sua età”, come le aveva detto sua madre il giorno in cui li aveva trovati.
—Nei tuoi diari annoti spesso frasi che rimandano alla morte. Sembri attratta da essa e scrivi che proveresti piacere a uccidere. Sono parole importanti. Cosa provavi ogni volta che le mettevi nero su bianco? In particolare… queste attenzioni sembrano rivolte a tua madre.
Melissa chiuse gli occhi. Da dentro di sé sentì emergere un magma di dolore. Le lacrime iniziarono a scenderle sulle guance. Un singhiozzo, un respiro rotto.
Poi, con voce strozzata, disse soltanto: “Sì”.
La dottoressa prese a leggere uno dei suoi sogni:
“Stanotte ho sognato di camminare nel deserto. Ero sporca di sabbia e polvere, e sotto i piedi c’era un tappeto di spine. Ogni passo era una ferita. Poi la sabbia si è trasformata in un mare, e improvvisamente sono andata a fondo. I capelli galleggiavano intorno alla testa, leggeri, e io guardavo verso l’alto. Stavo bene lì, in silenzio, immobile, con le braccia aperte. Nuda.
Poi sono arrivati tutti. Uno alla volta. Prima Francesca, la mia amica che mi aveva detto che ero una stronza quando ho baciato suo fratello. Rideva, ma la sua bocca era piena di sangue, perché io l’avevo accoltellata alla pancia. Mi ha detto: —Hai visto cosa succede a chi ama? — E subito dopo si è disciolta, disintegrata.
Poi è arrivata mia madre. Indossava un vestito da sposa. Non il suo: il mio. Bianco, gonfio, sospinto dai movimenti. Con la mano destra reggeva un vassoio con una torta sopra. Mi ha detto: —Mangia, amore, è per te. — Ma dentro la torta c’erano delle lamette. Io l’ho mangiata lo stesso, senza sentire dolore. Ma dalla mia vagina è iniziato a uscire sangue. Lei mi ha accarezzato i capelli e se n’è andata nuotando via come un pesce rosso.
Infine sono arrivata io. O meglio: un’altra me. Senza occhi. Senza pelle. Un manichino di carne viva. Mi fissava senza vedere. Ma io lo sapevo: quella sapeva tutto. Mi ha detto di ucciderla. Di uccidere mia madre. Poi mi ha preso la mano. E siamo rimaste lì, in fondo. A galleggiare.”
La dottoressa, dopo aver letto la pagina del diario, porse un fazzoletto a Melissa perché potesse asciugarsi le lacrime. Aspettò che si ricomponesse, poi le chiese se volesse un bicchiere d’acqua. Nello studio c’erano sempre delle bottiglie, caramelle e cioccolatini: piccoli gesti di conforto, un modo per far sentire gli ospiti considerati e accolti. Una caramella era come una carezza.
Dopo un sorso d’acqua, Melissa confessò di odiare sua madre, ma di non sapere o di non ricordare il perché. Raccontò di avere in testa tanti frammenti di vita passata, senza riuscire a metterli in ordine.
—Melissa, questa è la prima volta che mi restituisci una presa di coscienza così forte. Sono davvero colpita: per la prima volta stai riconoscendo a te stessa — e a me — un tuo problema.
Romeo accennò un sorriso, poi si legò i capelli con una penna, continuando a osservarla, forse per coglierne meglio le emozioni e le intenzioni. Non se la sentì di continuare con la lettura del diario: temeva di bruciare il risultato raggiunto o peggio, di causarle uno scompenso.
—Adesso se ti va, parlami di te. C’è qualcosa di specifico che ti ha turbato in questi giorni, al di là del sentirti irrequieta più del solito? Intendo a parte il sogno che mi hai raccontato prima.
—Sì, dottoressa… volevo parlarle di Miriam.
Melissa si fece coraggio e iniziò a raccontare quello che era successo due giorni prima. Sentiva che gran parte del suo malessere dipendeva da ciò che aveva provato, nel bene e nel male. Raccontò tutto nei minimi dettagli: come era venuta a conoscenza del codice per aprire la porta del reparto, la fuga nella notte, gli atti amorosi con Miriam nella parte diroccata della comunità.
Mentre era intenta nell’ascolto, Romeo si sfilò la penna dai capelli e cominciò ad annotare ciò che le sue orecchie raccoglievano. Scrisse a lungo, più del solito. Non interruppe mai la sua paziente, nemmeno quando lei esitava per trovare le parole giuste. Quando ebbe terminato il racconto, il volto di Melissa apparve disteso, come liberato, e gli occhi, prima lucidi di lacrime, si erano asciugati e addolciti. Attese un riscontro dalla dottoressa, che parve colta un po’ alla sprovvista e impiegò qualche istante prima di accorgersi che il racconto fosse terminato.
—Hai fatto bene a raccontarmi tutto. Intanto voglio rassicurarti: non ti succederà niente. Il fatto che oggi ti sia aperta così tanto, e che ti sia rivolta a me, dimostra che stai facendo grandi passi verso un equilibrio. Spero davvero che questo abbia reso più leggero il tuo animo.
Melissa bevve un sorso d’acqua e rispose di sì, che parlare le aveva fatto bene. Sentiva che l’ansia e il caos interiore si erano un po’ quietati. Il tempo intanto era volato: era trascorsa quasi un’ora e mezza dall’inizio del loro incontro. La dottoressa chiamò Laura perché potesse riaccompagnarla nel reparto e, prima che l’educatrice entrasse, si premurò di dirle: — domani pomeriggio sarò di nuovo qui in comunità, se vorrai ancora confrontarti io sarò disponibile.
La porta dello studio si richiuse lentamente alle spalle di Melissa e Laura. Il suono del chiavistello fu lieve, ma nella testa della dottoressa Romeo risuonò come uno schiocco netto. Rimase pensierosa per qualche minuto, lo sguardo perso verso la poltrona lasciata vuota dalla giovane. L’eco delle sue parole fluttuava ancora nell’aria. Aveva affrontato i suoi racconti: lo stralcio acre dei suoi diari. Confessato e narrato un’esperienza sessuale con un’altra ospite. Una pièce teatrale di una donna non ancora donna e di un’adolescente non più adolescente.
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