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L’Autunno dei Falò

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Consegna prevista Agosto 2026
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In un campeggio abusivo d’autunno, circondata dagli amici di una vita, una venticinquenne cinica e disillusa si ritrova a fare i conti con un passato che non ha mai davvero lasciato andare.
Tra critiche alla società, desideri inconfessati e ferite mai rimarginate, Milano si fa specchio di un caos interiore, dove la storia di due vecchie fiamme si intreccia a domande senza risposta.
Sulle note di una colonna sonora mentale che la accompagna passo dopo passo, attraversa nei ricordi sfumati la città e sé stessa, cercando di capire se quel passato tossico meriti davvero tutta l’attenzione che gli dedica.

Perché ho scritto questo libro?

Questo libro è il mio blues. “L’autunno dei falò” è stato un personale viaggio catartico nel mio passato. Nessun personaggio o storia è reale eppure, in qualche modo, riflette situazioni che potrebbero essersi presentate nella giovinezza di ognuno di noi e che ho sentito l’esigenza di raccontare. Accompagnato dalla mia immancabile musica citata tra i capitoli, l’autunno comunica la freddezza e la meraviglia di Milano, città a cui ho voluto dedicare tutto l’amore e l’odio che provo per lei.

ANTEPRIMA NON EDITATA

La macchina incominciò la sua salita verso il monte, il motore sforzò leggermente e passai alla seconda marcia.

Alvaro guardava fuori dal finestrino con lo sguardo perso, incantato da quel paesaggio autunnale tutto attorno a noi con chissà cosa per la mente, mentre con la testa seguiva il ritmo di Roadhouse Blues dei Doors che pervadeva l’abitacolo dalle casse della radio.

Saranno state le quattro e mezza del pomeriggio di un ottobre soleggiato. La golden hour accompagnava la nostra salita e trasformava in oro e rubini splendenti quella meravigliosa combinazione di foglie gialle e rosse che ancora resistevano al cambiamento di stagione.

Una leggera brezza fuori dalla macchina sospingeva il movimento dei rami e di rimando questi donavano una dolce pioggia di foglie qua e là che leggiadre si lasciavano trasportare dal vento. Ogni singolo elemento pareva intrecciarsi perfettamente con la musica.

Autunno.

Seppur ciascuna stagione porti con sé un bagaglio di sensazioni riconducibili ciclicamente solo a esse, ogni anno mi stupivo di come potessero risultare così diversamente le stesse, esattamente come certe canzoni che pur passando decenni su decenni paiono non invecchiare mai e rimanere perfette nel loro essere, solo forse un po’ troppo masticate dalle orecchie dell’ascoltatore.

Amavo quella stagione. Nella malinconia della trasformazione e del cambiamento tutto intorno si riempiva di magia, diventava bellissimo, come un brutto anatroccolo pronto a trasformarsi in cigno.

Dicono che quando arrivi ad un momento della tua vita in cui sai che stai per voltare in qualche modo pagina, l’autunno sia la stagione migliore che ti possa accompagnare.

Bah, chissà chi se le inventa certe cose.

A mano a mano che la macchina saliva, la canzone alla radio sfumava leggermente, e così la voce della conduttrice si perse in un sottile rumore di fondo.

La stazione radiofonica stava cominciando a fare le bizze e non prendeva più, dunque la spensi.

Silenzio.

La testa di Alvaro si era fermata e le foglie fuori dall’abitacolo parevano aver fatto lo stesso come per magia; solo il rumore del motore si faceva sentire più insistente. 

Non era un silenzio fastidioso da dover riempire forzatamente di parole, d’altronde Alvaro lo conoscevo da quasi dieci anni ed eravamo arrivati ad un tale livello di conoscenza e intesa che spesso non c’era bisogno di parlare per capirsi. Ma, purtroppo per lui, l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era di rimanere sola con i miei pensieri.

Con una mano gli scossi il braccio e gli indicai il cruscotto, facendogli capire che volevo continuare ad ascoltare qualcosa. Alvaro lo aprì e ne tirò fuori un datato porta cd, cominciando a sfogliarlo.

Non avevo un’autoradio molto recente.

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Non potevo mettere musica dal bluetooth, dal telefono o da una penna usb. Dunque mi ero trovata costretta, quando mi stufavo della radio, a riscoprire la manualità dei cd. Ciò mi aveva però piacevolmente riportato indietro nel tempo e permesso di collezionare qualche disco che altrimenti non avrei mai comprato.

Alvaro sfogliava con aria distratta, con calma, come se non avesse avuto la minima idea del contenuto di quei dischi così consumati dall’usura. Ma sapevamo entrambi quale avrebbe scelto se non avessi espresso una preferenza.

Io, così ancora immersa nelle mie riflessioni sull’autunno, volevo solo che qualcosa entrasse nelle mie orecchie.

Infilò il disco nell’autoradio, il tempo di sentire la tosse remixata di Ozzy Osbourne, una nuova leggera salita e le seguenti parole:

 “Alright now!

Won’t you listen?”

un paio di note e bum.

Il motore si spense e l’autoradio con dentro “Master Of Reality” dei Black Sabbath si fermò.

Premetti il freno di colpo mentre la macchina ritornava leggermente indietro, questa si arrestò e per un secondo rimanemmo fermi in mezzo alla strada in salita prima di una curva, di nuovo in silenzio. Un incubo.

– No, eh… – Esclamai preoccupata con le mani ancora aggrappate al volante. 

Spostai la mano sulla chiave e la girai forte come se questo avesse potuto aiutare la macchina a darsi una spinta. Il motore fece un rombo rumoroso e con una bella accelerata la macchina ripartì in salita assieme ad Ozzy Osbourne. Alvaro ed io sospirammo insieme e lui spense definitivamente l’autoradio.

– Perché la spegni? – Chiesi perplessa.

– Ogni volta che la macchina si sforza un pochino, se è acceso il condizionatore o la radio, dopo ci pianta in asso. – Rispose lui col suo solito vago, ormai appena accennato, accento spagnolo.

Silenzio.

Il nostro mezzo continuò il suo percorso incurante del piccolo incidente appena avuto, soltanto che questa volta nell’aria vi aleggiò un senso di fastidio che mi rese inquieta.

E dire che avevo giusto appena finito di pensare da quanto tempo ci conoscessimo e di quanti pochi silenzi imbarazzanti ci prendessero… ma non era un silenzio imbarazzante dopotutto, era solo che non volevo proprio rimanere sola coi miei pensieri.

La strada portò verso un paio di tornanti oscurati dagli alberi, dandomi la sensazione che magari alla fine di essi ci fosse qualcosa di diverso da notare o che cambiasse il paesaggio. Qualcosa che magari avrebbe potuto distrarre la mia mente.

Niente.

Oltre le curve il panorama era tutto uguale e la magia autunnale venne presto meno. Sbuffai due o tre volte cominciando distrattamente a fare rumori stupidi con la bocca in segno di noia, infine mi decisi a parlare.

– Raccontami qualcosa. – Dissi con tono casuale e Alvaro sospirò piano. 

– Cosa ti devo dire? –

– In che senso cosa mi devi dire? Non mi devi dire niente, solo che non voglio restare in silenzio. –

Con gli occhi continuai a seguire la strada ma sapevo che mi stava fissando.

– Non puoi dirmi semplicemente di parlare, se vuoi parlare tira fuori un argomento tu. –

Silenzio.

La strada proseguì per un paio di minuti finché non ripresi a fare suoni con la bocca ed Alvaro sbuffò rumorosamente per zittirmi. Cominciai allora a ridere, forse un po’ nervosamente, irritandolo di conseguenza.

– Smettila. Pensa a guidare che siamo già in ritardo. – Sbottò improvvisamente fingendo di aver già finito la frase per poi aggiungere tra i denti: – …Come se questo fosse una novità, per altro. –

Stizzita, mi presi un secondo per raccogliere le idee, interiormente sicura di voler lasciar correre ma inconsciamente pronta a rispondere alla provocazione. Non capivo il motivo di questo astio ingiustificato.

– Vogliamo fingere che non sia sempre colpa tua se siamo sempre in ritardo? –

Uscii infine dalla mia bocca.

Ritornammo in silenzio di nuovo, anche se solo per poco, dando giusto il tempo alla discussione di avere la sua escalation e maturare in un ennesimo bisticcio inutile, qualcosa che si sarebbe potuto benissimo evitare tenendo entrambi la bocca chiusa e sopportando il silenzio del bosco.

Alvaro era un ragazzo che qualcuno, senza conoscerlo in profondità, avrebbe potuto definire “burbero” ma che, prendendosi la briga di sciogliere quell’armatura di ghiaccio che tanto gli piaceva mostrare, aveva un cuore d’oro.

Alto, con lunghi capelli rossi e una barba piratesca incolta che gli dava un’aria minacciosa, non era certo una persona che si lasciava mettere i piedi in testa facilmente e proprio per questo molto spesso ci ritrovavamo a bisticciare per banalità.

Di recente, infatti, il problema tra noi era diventato proprio questo: le troppe discussioni inutili e il non riuscire a confrontarsi normalmente su banali problematiche, che altri non erano che delle scuse per sfogare i veri problemi nascosti l’uno all’altro.

Il nostro passato travagliato era come un enorme scheletro chiuso e incatenato a chiave dentro uno scuro armadio che ci trascinavamo dietro mal volentieri, senza avere mai il coraggio di affrontarlo per lasciarlo andare al suo destino.

E questo ci portò al non riuscire più a confrontarci sul resto delle cose importanti se non tirandole fuori a metà di una litigata e creando non pochi problemi all’interno della nostra relazione: i nostri tira e molla, le nostre altre relazioni che nel frattempo avevamo avuto con altri personaggi in andirivieni che avevano turbato il nostro essere e la nostra personale storia. Niente di tutto ciò era mai stato davvero affrontato di petto per metterci una croce sopra, per rasserenare le nostre esistenze.

Decisi dunque di ignorare le ultime sue uscite anche se nel profondo un poco mi rodeva non rispondergli, rendendo quella dannata salita sempre più fastidiosa e tanto da desiderare ardentemente di raggiungere la meta quanto prima.

Era il ventinovesimo compleanno di Giovanni e con alcuni amici avevamo deciso di celebrarlo con un campeggio molto poco autorizzato in mezzo ai boschi dell’Alpe del Viceré, nei pressi di Como.

Ognuno aveva organizzato la sua piccola parte: le tende erano state caricate, la torta era nella borsa frigo insieme ad una miriade di piccole prelibatezze e carne da arrostire, Enrico aveva portato fiumi di alcool ed Eleonora e Sara erano arrivate in anticipo per raccogliere e accatastare la legna per il fuoco. Mancavamo solo noi.

Un fiero Giovanni era già pronto ad accoglierci fuori dalla sua macchina venendoci incontro con un sorriso a trentadue denti.

– Alla buon’ora! Spero che siate pronti ragazzi, perché stasera voglio poter spaccare il mondo! –

Furono i soliti convenevoli, auguri ed abbracci, ci caricammo di tende e altri zaini e cominciammo la salita a piedi sopra foglie scricchiolanti e raggi di luce dorata, raggiungendo nel fitto della foresta una piccola radura segreta dentro al quale gli altri si erano già accampati.

Fu Enrico il primo a scorgerci, se ne stava seduto sopra una catasta di legna tracannando già una birra e scese dal suo trono battendo la mano sulla bottiglia con fare regale, facendo tintinnare un grosso anello contro il vetro. Se non l’avessi conosciuto bene avrei detto che era già ubriaco.

– Eccovi. C’è da sgomberare il terreno dalle foglie, preparare le pietre e accendere il primo fuoco. – 

Disse senza salutare col suo solito fare calmo e sfrontato.

– Cioè, neanche saluti e già impartisci ordini? Dov’è la birra? – Commentai schietta dandogli una pacca sulla spalla. Enrico mi indicò il punto in cui aveva mollato “l’abbeveratoio”, come soleva chiamare.

Alvaro gli si avvicinò con malizia e gli strinse la mano bonariamente.

– Alvaro. – Lo salutò con un cenno elegante della testa, dopodiché si voltò verso la mia direzione.

– Come vanno i provini? Posso già chiederti l’autografo? –

Mi urlò dietro, non mi girai facendogli un cenno negativo con la mano.

Non volevo rispondere alla sua solita provocazione, avevo finito l’accademia di recitazione da un paio d’anni ed essere entrata nel mondo del lavoro mi aveva creato non poche ansie. Mi sentivo a disagio quando qualcuno mi faceva quelle battute che erano diventate all’ordine del giorno.

Avevo iniziato quasi a dubitare della direzione che avevo deciso di prendere nella mia vita, eppure qualcosa mi riportava sempre e comunque verso i palcoscenici, il dramma e la commedia che sempre scorgevo già nelle persone della vita reale.

Sotto la cassa bluetooth, con una birra in mano a mo’ di microfono e distratta da una canzone di Calcutta che stava cantando a squarciagola, stava l’unica persona il cui termine “migliore amica” per me calzasse a pennello, qualunque cosa potesse significare una classificazione del genere a venticinque anni. Era l’unica sopravvissuta alle compagnie dei tempi del liceo.

Con una salopette in jeans addosso e un’insolente frangetta castana Eleonora cantava così intensamente da non accorgersi dei dintorni, dandoci le spalle.

– Ma questa sta già messa così? – 

La indicai decidendo di avvicinarmi di soppiatto alle sue spalle. Inutile dire che si accorse di me con un sussulto, dopodiché mi si gettò addosso abbracciandomi. 

– Oh, porca troia, finalmente! – 

– Non ti smentisci mai, eh? – La salutai tutta sorridente. – E Sara? – Chiesi, Eleonora abbassò lo sguardo presagendo una conversazione che non avremmo mai potuto tenere davanti a tutti e dietro di lei comparve saltellando una gracile e pimpante ragazza bionda, la sua ragazza.

– Sono qui! – Sara si presentò con un largo sorriso e mi abbracciò.

Ricambiai. Le due si erano appena trasferite insieme e stavano addirittura pensando di comprare casa, decisione per cui Eleonora era ancora davvero poco convinta nonostante stessero guardando da tempo molti annunci.

Dopodiché ricomparve Gio con la torta in mano.

– Ebbene signori, ora che ci siamo tutti è il momento di dividersi i compiti, questa bellezza intanto va nella borsa frigo. – Enrico gliela prese delicatamente di mano e andò ad adagiarla con cura sul fondo di una grossa borsa frigo alle sue spalle, appena sopra le decine di altre birre ghiacciate di scorta, diligentemente impilate in orizzontale l’una sopra l’altra. 

– Grazie Enri, Ora vai a trovare delle pietre per il fuoco.

Sara, Ele, complimenti per la catasta di legna! Direi che potete riposarvi.

Tu ed Alva, spazzate queste foglie dal terreno, per favore, che non voglio rischiare di bruciare mezzo bosco… e quanto a me, credo mi siederò sulla catasta da bravo festeggiato a raccontarvi qualche barzelletta. –

Da tutti noi si alzò un coro svogliato di “No, ti prego” mentre Enrico si defilava a rubare pietre dal parcheggio.

Giovanni amava stare al centro dell’attenzione. Generalmente era una persona molto simpatica, socievole ed estroversa ma sapevamo tutti che aveva la tendenza ad esagerare, specie nei momenti in cui si sentiva in diritto di poterlo fare. 

– Le sappiamo tutte, Gio. – Lo bloccò Eleonora fulminandolo con lo sguardo e Giovanni in tutta risposta fece una smorfia. Io cominciai a prendere a calci le foglie per spostarle il più in là possibile finché Sara non mi fermò con una mano. – Hey, genio, abbiamo portato il rastrello. –

Giovanni non si perse d’animo. – Molto bene, niente barzellette. Passerò alle citazioni allora. – Si dilettò nella perfetta scimmiottatura di una scena di The Office, sua serie preferita e che conosceva a memoria in ogni sua battuta, strappandoci inevitabilmente qualche risata nonostante ormai le conoscessimo quasi meglio di lui.

Era proprio un bel tipo, non sapevamo neanche noi dove eravamo andati a pescarlo ma da quando lo incontrammo per la prima volta fu un colpo di fulmine collettivo, riusciva ad amalgamarci tutti alla perfezione.

Emanava delle vibes alla Robin Williams, tanto che a volte ci pareva impossibile che un personaggio come lui potesse essere di umore negativo. Eppure, come il vecchio Robin, aveva anche lui le sue belle gatte da pelare.

Giovanni era anche quello messo economicamente meglio tra tutti noi, l’unico ad avere un lavoro a tempo indeterminato e l’unico che non si lamentava mai del suo status di single in carriera, quando qualcuno di noi era single.

A fargli da controparte era diventato ormai fisso il nostro Enrico, compare di conquiste ed ex compagno di università di Eleonora e, al contrario di quest’ultima, ancora impelagato con gli ultimi tre esami prima della laurea in Chimica mentre lavorava, temporaneamente da molto tempo, al McDonald. 

Se gli si chiedeva “Quando ti laurei?” entrava nel giusto panico e cambiava prontamente argomento, per cui sapevamo già tutti che in segreto aveva deciso che l’università non l’avrebbe mai finita e che stava solo aspettando di capire cosa davvero avrebbe voluto fare nella vita, come d’altronde molti di noi.

Eleonora, dal canto suo, la famigerata laurea l’aveva presa eccome e stava finendo un master in Biotecnologie, anche se le cose non le giravano affatto bene e si trascinava in questa sua scelta di lavoro di laboratorio che la frustrava e non di poco.

Di Sara, come ogni ultima aggiunta, sapevamo poco e nulla nonostante stesse insieme ad Eleonora ormai da un annetto pieno.

La ragazza era molto timida e difficile da interpretare, seppur le volte che si sbloccava riusciva ad essere spensierata e di ottima compagnia. Pareva che di tanto in tanto lavorasse come babysitter a chiamata, ma nessuno le aveva mai chiesto se stesse anche studiando o se avesse altri progetti e lei non ce lo aveva mai rivelato.

Ognuno di noi era in quella fase della vita in cui se non hai ancora deciso cosa combinare, sei nei guai seri agli occhi della società.

Per la generazione dei nostri genitori eravamo nell’età in cui sposarsi e fare figli, ma ancora nessuno di noi né la maggior parte dei nostri conoscenti osava pensare a quella prospettiva in un mondo in cui se sei donna e diventi madre ti emarginano dal mondo del lavoro e in cui lo stato, più che tutelare le neo-famiglie, mette tasse a destra e manca, rendendo impossibile quel tanto agognato incremento demografico.

Eravamo anche in età da far carriera, ma tutti ben lungi dal poterci anche solo provare a pensare, sfruttati da un mondo del lavoro crudele e sfiancante. Nessuno sapeva davvero quello che stava facendo o dove voleva arrivare, gli obiettivi erano vaghi e semi trasparenti, le prospettive inesistenti.

Eravamo dunque pronti a professarci degli eterni Peter Pan, costretti alla crescita forzata nei tempi e modi dettati da quel bastardo mondo lì fuori che, come un grande occhio del grande fratello, era pronto a giudicare, emarginare e rimetterci in riga nelle nostre file di “soggetti produttivi per la società”.

Là dove gli stipendi erano più bassi degli affitti, l’inflazione era alle stelle e le grandi aziende subito pronte a sostituirti con un altro sfortunato nel caso tu non ce la facessi più a prendere 1000 euro al mese per 8 ore di lavoro ripetitivo, stando agli aumenti del costo della vita.

Noi volevamo soltanto distrarci un pochettino da quel disastro e fallimento di epoca in cui ci eravamo ritrovati a nascere, figli di quella tanto più fortunata generazione di Baby Boomer a cui, alla nostra età, bastava schioccare le dita per trovare un buon lavoro e mettere su famiglia.

Nessuno dei nostri genitori pareva capire che la società era cambiata, o quanto meno non si dimostrava disposta ad accettarlo.

Ma noi una cosa la sapevamo bene: conoscevamo quel bosco a menadito. Era il nostro ritrovo segreto e il nostro piccolo rifugio dai problemi quotidiani, se le cose si fossero messe male ci saremmo potuti rifugiare laggiù… per una settimana o due.

Forse.

Enrico ritornò con delle pietre adatte ed insieme creammo un bel cerchio compatto al centro perfetto di quella piccola radura.

Usammo delle foglie secche come esca per il fuoco e all’alba di una rossa sera ci ritrovammo tutti belli allegri e distribuiti intorno al piccolo falò sopra cui posizionammo una bella griglia, pronti per la nostra buona cena di compleanno.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Elettra Sagittario
Nata a Milano nel 1996, mi sono diplomata all'Accademia di recitazione Mohole. Da sempre coltivo la passione per ogni forma di espressione artistica: oltre al teatro, amo dipingere e cantare. In particolare la musica è una presenza costante nella mia vita, sul palco e sotto, sia come cantante che come semplice ascoltatrice e "animale da concerto".
Scrivere è per me un'esigenza naturale, ho sempre raccontato storie perchè comunicare qualcosa è ciò che mi definisce. Oggi sono felice di poter condividere anche il mio primo romanzo, L'Autunno dei Falò, frutto di anni di riflessioni ed esperienze vissute.
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