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Dicembre 2020
Soffiò con vigore sui palmi delle mani, accostate a formare una coppa intorno alle labbra.
In pochi istanti il gradevole tepore fu spazzato via da quel gelido giovedì mattina di metà dicembre.
Lucio Marchetti seguì con lo sguardo le acque scure del torrente scomparire sotto al ponte a una sola campata, al centro della quale si era fermato. Galoppavano rinvigorite dalla nevicata della nottata precedente, trascinando verso la pianura rami secchi e sterpaglie per riaffiorare poco oltre, dove la sponda destra curvava dolcemente.
Individuò una cerchia di smunte gazze occupatissime a stuprare con beccate schizofreniche il candido manto nevoso, bramando chissà quale tesoro.
Dita nodose, spoglie, ampliandosi verso il cielo, si innalzavano dai tronchi principali dei numerosi platani in fila sulla riva di destra, impegnate a sostenere nuvoloni scuri, talmente carichi che parevano sul punto di precipitare.
Lucio strinse con forza la ringhiera metallica che fungeva da parapetto e iniziò a ciondolare con l’intero corpo.
Il ponte, un tempo carrozzabile e ora esclusivamente pedonale, a inizio Novecento coperto e costruito totalmente in legno, collegava il centro della cittadina attraversato da corsi sfavillanti di negozi, alla zona nord, reame del polo ospedaliero e dei centri commerciali.
Nonno Cecco, membro meritevole di una generazione instancabile, risoluta, che pareva saper fronteggiare qualsiasi difficoltà, aveva partecipato alla trasformazione dell’opera durante il periodo compreso tra le due guerre mondiali; ore e ore trascorse a mollo fino alla vita per realizzare i piloni di pietra e cemento. Rinvigorito a ogni pausa pranzo, come i tanti manovali compagni d’avventura, da un bottiglione di vino talmente denso e scuro da sembrare petrolio e da una fetta di pane meliga di farina di mais, tappezzata da salame della duia, conservato sotto grasso e tipico della zona.
Con quale disprezzo il nonno avrebbe giudicato gli uomini odierni, rifletté Lucio. Incapaci d’iniziativa, inebetiti, comodi. Poco più che colorati tessuti da rivestimento per divani.
Come dargli torto del resto. Lucio stesso sentiva di appartenere a pieno titolo alla categoria di quelli che nella vita non avevano combinato nulla.
Se solo fosse stato consapevole che dentro di sé, seppur miscelata con innumerevoli altre eredità, scorresse la medesima energia del nonno materno. Al pari dei suoi genitori, entrambi infaticabili lavoratori e devoti alla parola “dovere” al punto da essere scomparsi improvvisamente, a breve distanza uno dall’altro, poche settimane dopo aver conquistato la più che meritata pensione. Anche a causa di quell’erronea convinzione lui si trovava su quel ponte.
Chiuse gli occhi e restò in ascolto. Lo sgranocchio sulla pietra di qualche foglia secca sospinta da una brezza pungente accanto ai suoi piedi. Il muggito delle acque precipitate dal salto di cinque metri poco più giù lungo il corso del torrente. Il clangore della pala di un escavatore alle prese con roccia o ghiaia, ancora più distante.
Continua a leggereMemorizzò quei suoni ovattati dalla neve e riaprì le palpebre. Guardò a sinistra, in direzione dell’edificio dismesso, da fine diciannovesimo secolo sede del più importante setificio della cittadina. All’apice dell’attività, pregiati tessuti provenienti dal Giappone venivano lavorati dalle dita affusolate di donne e ragazzine, manodopera principe della manifattura.
Da quello stesso ponte, all’alba, si sarebbe potuto avvertire uno scalpiccio frenetico di zoccoli, ansiosi di raggiungere la fabbrica per l’inizio del turno lavorativo.
Il complesso attualmente era un’accozzaglia di ruderi sfruttata fino al midollo da piante rampicanti d’ogni specie e l’unico rumore proveniente da esso era lo sbattere saltuario di qualche imposta scardinata, che staccava ad ogni colpo pezzi di intonaco sbriciolato.
Lucio non scorse anima viva. Ispezionò alla sua destra l’ampio parcheggio al di là del ponte: era semideserto.
L’imminente Natale sarebbe stato diverso, inevitabilmente morigerato e la maggioranza delle persone non avrebbe dato vita alla consueta, isterica corsa all’ultimo regalo, non essendo ancora ben chiaro se sarebbe stato possibile trascorrere le festività in compagnia di amici e parenti.
Distinse solamente la sagoma dell’arcinoto parcheggiatore abusivo, pressoché disoccupato.
Benissimo, pensò Lucio. Nessuno avrebbe visto ciò che stava per fare.
L’unica cosa, in realtà, che gli restava da fare.
Casualmente indossava vestiti di varie tonalità di grigio che garantivano un ulteriore mimetismo con l’ambiente circostante.
Sollevò il piede destro fino ad appoggiare la suola della scarpa sul corrimano della ringhiera metallica. Guardò in giro ancora un paio di volte. Il vuoto. Fece leva contemporaneamente su braccia e gambe. Strusciando l’addome sporgente da cinquantenne rammollito lungo il parapetto, scivolò giù dall’altra parte.
Le acque si scostarono al suo ingresso, poi lo avvolsero vorticando intorno al suo corpo e, infine, lo trascinarono verso valle.
Il gelo gli mozzò immediatamente il fiato. L’innato spirito di sopravvivenza reagì facendogli spalancare la bocca.
Percepì il fluire di un liquido viscido dentro di sé, in gola e più giù verso i polmoni.
Odore di fango e pesce rancido.
Non oppose resistenza. Impattò con dolore contro qualcosa di molto duro e avvertì uno schianto secco a livello dell’osso sacro.
Poi più nulla. Il buio. Condito da un barlume di ciò che pareva soddisfazione.
2
La panchina di sasso era ricoperta da una coltre di neve alta una decina di centimetri.
Per raggiungerla bisognava allontanarsi dal percorso sterrato di sassolini rossastri che si snodava tortuoso all’interno del parco, prima di infilarsi in uno stretto passaggio celato da fronde di ippocastani.
Era il luogo ideale per un appuntamento romantico, nonostante il rumore incessante di un escavatore in funzione, a distanza di una trentina di metri, ne intaccasse parzialmente l’atmosfera.
Mattia sbucò fuori dal sentiero in leggero anticipo rispetto all’orario concordato.
Osservò per qualche istante l’operaio alla guida del mezzo cingolato. Con la benna meccanica tentava di rimuovere dal letto del torrente un cumulo di grossi tronchi impilati in quella posizione da chissà quanto tempo, che impedivano, di fatto, il regolare fluire delle acque. Pertanto, quell’intervento si era reso ancor più necessario in seguito alla recente nevicata.
«Merda, proprio questa mattina» commentò spazientito il ragazzo, che diede le spalle al corso d’acqua e restò in attesa a lato della panchina.
Non era stato difficile bucare la scuola. Da quando le lezioni si tenevano a distanza era sufficiente accampare la scusa della scarsa qualità della connessione alla rete e il gioco era fatto.
Tra l’altro, e per pura coincidenza, Internet quella mattina viaggiava realmente a singhiozzo, risultato scontato vista la proverbiale tirchieria che aveva suggerito al nuovo compagno di sua madre, boomer tanto saccente quanto incapace, di acquistare il pacchetto base dal peggior gestore sul mercato.
Oggettivamente quell’anno scolastico era da considerarsi buttato. Se ne rendeva perfettamente conto, nonostante i suoi diciassette anni. Ma che colpa ne aveva lui se la pandemia aveva scombinato tutto?
Era difficile restare concentrati e seguire le spiegazioni dei professori da casa. Troppe distrazioni a portata di mano. E per uno come lui, perspicace e attento, ma con poca voglia di aprire i libri una volta abbandonata l’aula, era ancor più penalizzante.
Anche il contesto non aiutava. Non si poteva fare praticamente nulla. I bar erano chiusi, così come le palestre e le sale giochi. Nemmeno a casa propria si era liberi di invitare amici nell’ottica di evitare contatti con persone esterne al nucleo familiare, che avrebbero potuto aumentare la circolazione del virus.
Una rottura di palle, in definitiva.
Però per Marika valeva la pena correre il rischio.
Per lei era tutto più semplice. In quel periodo avrebbe dovuto frequentare il tirocinio pratico previsto dalla scuola professionale per diventare estetista. Tuttavia, tutti i saloni di bellezza, le beauty farm e i centri estetici dovevano restare chiusi almeno fino al termine delle successive festività natalizie. Di conseguenza, praticantato temporaneamente sospeso e parecchio tempo libero a disposizione.
Marika… Non si poteva certo dire che rispecchiasse il suo ideale di bellezza. Aveva ottenuto appuntamenti da ragazze oggettivamente più carine. Eppure, era dotata di quella marcia in più sufficiente a stuzzicargli tutti i sensi.
La folta chioma di capelli rossi lunghi fino a metà schiena. Il viso acqua e sapone tempestato di lentiggini. Timida, evidentemente, eppure così sgamata: sapeva toccare i tasti giusti.
Poi quel fisico. Robusto ma tonico, forgiato da anni di ginnastica artistica.
Più di ogni altra cosa, un paio di tette, percepite nell’unica occasione in cui lei aveva lasciato che gliele sfiorasse custodite da una felpa pesante, che aveva intuito scolpite nel marmo.
Mattia iniziò a sudare sotto al piumino giallo fluorescente.
Eccitato e accaldato, lo sfilò e lo pose dispiegato sulla panchina.
Poi vi si accomodò sopra con il sedere al riparo dalla neve.
Sfoderò lo smartphone e controllò i suoi capelli, utilizzando la fotocamera: perfettamente dritti, con un accenno di cresta nel mezzo, come piacevano a lui.
«Ehi, ciao. Sei qui da tanto?» lo sorprese Marika mentre scostava l’ultimo ramo del sentiero, imbianchendosi un braccio.
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