Lucio strinse con forza la ringhiera metallica che fungeva da parapetto e iniziò a ciondolare con l’intero corpo.
Il ponte, un tempo carrozzabile ed ora esclusivamente pedonale, a inizio novecento coperto e costruito totalmente in legno, collegava il centro della cittadina attraversato da corsi sfavillanti di negozi, alla zona nord, reame del polo ospedaliero e dei centri commerciali.
Nonno Cecco aveva partecipato alla trasformazione dell’opera durante il periodo compreso tra le due guerre mondiali: ore ed ore trascorse a mollo fino alla vita per realizzare i piloni di pietra e cemento.
Rinvigorito ad ogni pausa pranzo, come i tanti manovali compagni d’avventura, da un bottiglione di vino talmente denso e scuro da sembrare petrolio e da una fetta di pane meliga di farina di mais tappezzata da salame della “duja”, conservato sotto grasso e tipico della zona.
Membro meritevole di una generazione instancabile, risoluta, che pareva saper fronteggiare qualsiasi difficoltà.
Con quale disprezzo il nonno avrebbe giudicato gli uomini odierni, rifletté Lucio.
Incapaci d’iniziativa, inebetiti, comodi.
Poco più che colorati tessuti da rivestimento per divani.
Come dargli torto del resto. Lucio stesso sentiva di appartenere a pieno titolo alla categoria di quelli che nella vita non avevano combinato nulla.
Se solo fosse stato consapevole che dentro di sé, seppur miscelata con innumerevoli altre eredità, scorresse la medesima energia del nonno materno. Al pari dei suoi genitori, entrambi infaticabili lavoratori e devoti alla parola dovere al punto da essere scomparsi improvvisamente, a breve distanza uno dall’altro, poche settimane dopo aver conquistato la più che meritata pensione.
Anche a causa di quell’erronea convinzione si trovava su quel ponte. Chiuse gli occhi e restò in ascolto.
Lo sgranocchio sulla pietra di qualche foglia secca sospinta da una brezza pungente accanto ai suoi piedi. Il muggito delle acque precipitate dal salto di cinque metri poco più giù lungo il corso del torrente. Il clangore della pala di un escavatore alle prese con roccia o ghiaia, ancora più distante.
Memorizzò quei suoni ovattati dalla neve e riaprì le palpebre.
Guardò a sinistra, in direzione dell’edificio dismesso, da fine diciannovesimo secolo sede del più importante setificio della cittadina. All’apice dell’attività, pregiati tessuti provenienti dal Giappone venivano lavorati dalle dita affusolate di donne e ragazzine, manodopera principe della manifattura.
Da quello stesso ponte, all’alba, si sarebbe potuto avvertire uno scalpiccio frenetico di zoccoli, ansiosi di raggiungere la fabbrica per l’inizio del turno lavorativo. Il complesso attualmente era un’accozzaglia di ruderi sfruttata fino al midollo da piante rampicanti d’ogni specie e l’unico rumore proveniente da esso era lo sbattere saltuario di qualche imposta scardinata che staccava ad ogni colpo pezzi di intonaco sbriciolato.
Lucio non scorse anima viva.
Ispezionò alla sua destra l’ampio parcheggio al di là del ponte: era semideserto.
L’imminente Natale sarebbe stato diverso, inevitabilmente morigerato così che la maggioranza delle persone non dava vita alla consueta, isterica corsa all’ultimo regalo, non essendo ancora ben chiaro se sarebbe stato possibile trascorrere le festività in compagnia di amici e parenti.
Distinse solamente la sagoma dell’arcinoto parcheggiatore abusivo, pressoché disoccupato.
Benissimo, pensò Lucio.
Nessuno avrebbe visto ciò che stava per fare.
L’unica cosa in realtà che gli restava da fare.
Casualmente indossava vestiti di varie tonalità di grigio che garantivano un ulteriore mimetismo con l’ambiente circostante.
Sollevò il piede destro fino ad appoggiare la suola della scarpa sul corrimano della ringhiera metallica.
Guardò in giro ancora un paio di volte. Il vuoto.
Fece leva contemporaneamente su braccia e gambe.
Strusciando l’addome sporgente da cinquantenne rammollito lungo il parapetto, scivolò giù dall’altra parte.
Le acque si scostarono al suo ingresso, poi lo avvolsero vorticando intorno al suo corpo e infine lo trascinarono verso valle.
Il gelo gli mozzò immediatamente il fiato.
L’innato spirito di sopravvivenza reagì spalancando la bocca.
Percepì il fluire di un liquido viscido dentro di sé, in gola e più giù verso i polmoni.
Odore di fango e pesce rancido.
Non oppose resistenza.
Impattò con dolore contro qualcosa di molto duro e avvertì uno schianto secco a livello dell’osso sacro.
Poi più nulla.
Il buio. Condito da un barlume di ciò che pareva soddisfazione.
Un chilometro ed un paio di anse più a Sud, lungo il torrente, sulla sponda sinistra colonizzata dai palazzi del centro cittadino, si apriva una piazza oblunga che sul lato Est sfociava in uno stretto vicolo acciottolato. Vista dall’alto assumeva l’aspetto invitante di una flûte da spumante.
In tempi più spensierati sarebbe stata brulicante di gente proveniente da ogni borgo limitrofo alla scalpitante ricerca di un buon affare, nel giorno in cui aveva luogo il mercato cittadino all’aperto.
Anche se, utilizzando le parole degli abitanti più autoctoni, le numerose bancarelle vendevano ormai solo “robaccia da cinesi”.
Di certo il prestigio arrecato al mercato dal bestiame in esposizione al Foro Boario, attualmente convertito in ampio parcheggio, era sfumato attraverso i decenni, tuttavia alcuni banchi dal sapore vintage offrivano prodotti di buona qualità.
Fiore all’occhiello era senza dubbio l’area destinata agli ambulanti del settore enogastronomico che aveva sede fin dai tempi remoti proprio in quella piazza.
I provvedimenti stringenti necessari a fronteggiare la pandemia avevano risparmiato salumi e formaggi, tonni e capponi, spezie, frutta secca e verdura fresca, regolarmente in bella mostra come ogni giovedì mattina, poiché, a ragione, considerati beni di irrinunciabile necessità.
Dall’ampia vetrata al terzo piano, Cinzia Valsesia osservava noncurante l’ordinata colonna di uomini e donne bardati di mascherine d’ogni tipo, in attesa che venisse pronunciato il proprio numero dal titolare della bancarella più gettonata dell’intera piazza.
Si trattava di un uomo bassetto, dalla carnagione olivastra, sui cinquant’anni, che faceva la spola ogni settimana dall’estremo meridione per offrire alla clientela burrate, friarielli, soppressate e un’infinità di altri prodotti freschissimi.
Quanto le sarebbe piaciuto scendere in piazza ad acquistare una mozzarella di bufala da mezzo chilo.
«Non capisco questa tua ostinazione nel ripetere con assiduità gli stessi errori» la redarguì una voce maschile. Piatta e tagliente.
Il fidanzato di Cinzia stava ultimando il rituale d’iniziazione di ogni giornata lavorativa.
Da dove si trovava non poteva vederlo. Ciò nonostante ne immaginava i movimenti curati. Per sistemarsi i capelli allo specchio, per infilarsi l’orologio al polso, per allacciarsi le scarpe. Il profumo di dopobarba, abbondante dopo la quotidiana rasatura, saturava l’aria dell’appartamento.
«È il momento più inadatto per cercare lavoro. Ancor più per una novellina come te, laureata da poco, senza esperienza alcuna, né tantomeno credenziali da presentare. Pensavo fosse un concetto ormai assodato» proseguì lui.
Se l’era sentito ripetere più volte nell’ultimo mese al punto tale da auto convincersi quasi completamente che la Laurea in Scienza della Nutrizione, conquistata con orgoglio il settembre precedente, non le sarebbe servita a nulla.
Non rispose e continuò a tenere lo sguardo fisso e rivolto all’esterno.
Un timido sole tentava in ogni modo di aprirsi un varco tra la patina di nuvole che il crescente calore della giornata andava via via diradando.
Si strinse ancor di più nel morbido tepore dell’accappatoio per ricacciare verso i piedi nudi un brivido gelido che aveva avvertito all’incirca a metà schiena.
«Io ti voglio proteggere, amore» lo sentì annunciare alla sua sinistra, vicino all’ingresso. Un tintinnio di chiavi le annunciò che presto sarebbe rimasta sola.
«Ora che finalmente hai abbandonato anche quella specie di scuola di pasticceria, non hai un solo motivo valido per uscire. Anche perché, senza offesa, i tuoi dolci non è che fossero così speciali».
Chiudendosi poi la porta blindata alle spalle, concluse: «Potessi io restare a casa a godermi questo splendido appartamento. A stasera».
Ad inizio settembre, fin dal loro primo incontro, Cinzia era rimasta folgorata da quell’uomo possente, colto, sicuro di sé.
Si era sentita immediatamente al riparo tra le sue braccia, confortata dalla sua meticolosità e rassicurata dalle risposte puntuali con le quali lui le risolveva ogni quesito.
Alla proposta di trasferirsi da lui aveva reagito saltandogli al collo. Un passo naturale, fluida conseguenza di un periodo di frequentazione breve eppure così meraviglioso.
Non si era confrontata con nessuno, né con le amiche più intime, né tantomeno con la madre: non voleva correre il rischio che qualcuno le facesse sorgere qualche dubbio su quella mossa azzardata.
Aveva presentato la disdetta al padrone di casa del monolocale dove risedeva da sola da sei mesi, perdendo tra le altre cose anche la caparra dell’affitto e nel giro di una settimana si era ritrovata nello splendido trilocale appena ristrutturato. La palazzina d’epoca ne comprendeva altri due, identici, uno al piano terra e l’altro al secondo, ancora invenduti e da terminare con le ultime finiture. Negli ambienti regnava dunque un silenzio totale, che a volte diventava molesto.
Qualcosa nell’uomo era mutato radicalmente intorno alla metà del mese di novembre.
Più o meno in concomitanza con l’istituzione da parte del governo del contenimento per scenari differenziati, nel doppio tentativo di arrestare la risalita di contagi e consentire una minima attività lavorativa seppur con parecchie limitazioni.
Il loro comune era collocato nello scenario quattro, definito anche come “zona rossa”, il più restrittivo; infatti erano vietati spostamenti anche all’interno del comune di appartenenza se non per comprovate esigenze lavorative, di necessità o salute.
Cinzia stava sorseggiando la tisana allo zenzero con la quale terminava abitualmente la cena, in piedi, dando le spalle al divano e ripetendo mentalmente i passaggi per la realizzazione di una crema al cocco di sua invenzione.
Adorava realizzare e decorare dolci. Aveva davvero talento.
Molti conoscenti gliene commissionavano per feste e piccoli ricevimenti, lasciandole carta bianca, smaniosi di ammirare le sue creazioni come vere e proprie opere d’arte.
Immersa nei propri pensieri, non l’aveva sentito rincasare.
Una mano le aveva afferrato l’esile vita, l’aveva ruotata e costretta a inclinarsi ad angolo retto con il seno premuto contro lo schienale del divano.
L’altra mano le aveva strappato il perizoma infilandosi senza fronzoli tra la morbida seta del pigiama ad abito.
Il liquido bollente era tracimato dalla tazza lambendole una coscia fortunatamente senza ustionarla.
L’aveva presa così. Senza che avesse il tempo di rendersene conto. Non che le dispiacesse in generale. Impazziva infatti per ogni forma di fantasia sessuale e adorava che il suo lui mostrasse capacità d’iniziativa, anche con forza.
In quell’occasione, tuttavia, le aveva fatto male.
Aveva avvertito un bruciore raggelante risalirle dal basso fin verso lo stomaco.
Lui le si era ancorato al seno serrandone un capezzolo come se gliel’avesse voluto staccare.
Cinzia l’aveva lasciato fare, consapevole che per il suo corpo minuto bloccare quella forza abominevole sarebbe stato impossibile.
L’aveva pregato di rallentare, con un sussurro, ottenendo in risposta una spinta ancora più vigorosa.
Una sofferenza intensa ma per fortuna di breve durata.
Dopo aver terminato con una sorta di grugnito, l’aveva abbandonata senza dire nulla e si era chiuso in bagno.
Lei era cascata inerme sul divano con l’intera muscolatura indolenzita e tremante.
Non si era mai comportato in quel modo prima di allora.
Aveva tentato di chiarire subito dopo, ma l’aveva trovato steso sul letto e già profondamente addormentato.
Nelle settimane seguenti le aveva farcito la testa con quelle idee disfattiste sulla ricerca del lavoro e sull’hobby della pasticceria. La sminuiva in continuazione a volte con pensieri sottili, altre bruscamente.
Con il pretesto di proteggerla da chissà che, l’aveva di fatto convinta a rinchiudersi in casa e Cinzia gliel’aveva permesso, inizialmente guidata dalla totale fiducia che lui riusciva a trasmetterle, in seguito sempre più con passiva rassegnazione.
L’aveva condotta a considerarsi sbagliata e per di più in colpa per il fatto di essere sbagliata.
Contraddirlo apertamente e ribellarsi non si erano rivelate idee geniali come testimoniava l’ematoma che ora esaminava riflesso nel vetro: una palla da tennis bluastra, tra la frangia di capelli corvini e l’occhio destro nocciola, che l’ammonì inequivocabilmente.
No, molto meglio assecondarlo. Anche perché per certi aspetti, probabilmente aveva ragione lui.
Così pensò allontanandosi dall’ampia finestra.
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