Chi poteva averlo seguito? Jonnie, il figlio del droghiere, che era solito impicciarsi negli affari degli altri e in altrettanti guai? Oppure era semplicemente una volpe alla ricerca di cibo per i propri cuccioli? (Ma le volpi cacciano di notte?)
Il dubbio lo impensierì più di quanto avrebbe dovuto, vista la particolare circostanza.
Al sorgere di un dubbio ancor più terribile, Mike si impietrì, sbiancando di botto. Uno spettro nel bel mezzo d’un bosco.
E se fosse, invece, mio padre? si domandò, le labbra scosse da un tremito.
Sì, il padre. Padre che magari l’aveva cercato nella sua stanza, per chiedergli di sistemare uno stupido malfunzionamento di un’altrettanto stupida TV, perché non poteva mica perdersi la replica di quella pacchianata del suo programma preferito, portato avanti da un tossico, un buttafuori mancato e un boss della mafia italoamericana; tre veri casi umani, dai suggestivi nomi di: “Chumlee”, “La Volpe” e “Il Vecchio”. E magari, non avendolo trovato nel letto, si era messo a cercarlo e, dopo averlo notato per caso dalla finestra incamminarsi verso il bosco, si era messo sulle sue tracce, fino a scovarlo?
Il ragionamento faceva acqua da tutte le parti, con troppi elementi tanto inverosimili da essere ridicoli. Ma ciò non evitò al ragazzo ulteriori turbe e scervellamenti.
Anche l’impossibile, se insinua il più piccolo dubbio, diventa una minaccia reale. Il rischio era troppo grande.
Si incupì in volto.
Sicuramente mi prenderà a schiaffi, per un simile affronto! Ma non sono più un ragazzino, ho diciassette anni ormai. Non sto facendo niente di male! tentò di consolarsi.
Non avrebbe dovuto temere nulla? Di certo il padre avrebbe capito le sue ragioni, anche se con difficoltà. Il problema vero era che, in quel frangente, Mike sarebbe stato costretto a dirgli tutta la verità… E avrebbe preferito lanciarsi di testa dallo Stratosphere Las Vegas e spiaccicarsi al suolo facendo un tutt’uno con l’asfalto, piuttosto che vuotare il sacco.
Il pensiero di essere stato scoperto, proprio da lui, lo spaventò più del sibilo della cinta sulle scapole doloranti, che gli esplose nei timpani, facendolo sobbalzare.
Uscito da quello stato di trance, ancora con il braccio alzato verso la siepe, riprese a sentire le falangi punte dal fogliame. Fece uno sforzo immenso per accartocciare nel migliore dei modi i piccoli frammenti di volontà sparsi nell’animo; fabbricandone una delicata corazza di finto coraggio. Il dubbio lo stava distruggendo. Indurì lo sguardo, fece un lungo sospiro.
«Pa-pà…?» Fu solo un sussurro. La voce gli era uscita quasi senza che se ne rendesse conto, e Mike se ne pentì in un istante. Il suo volto si bloccò in un’espressione di vera paura.
È preferibile distruggersi nel dubbio, o subire la cruda verità?
Sì, sono io, Mike! Stupido idiota d’un figlio!
Strinse gli occhi, turbato da dolorose visioni. Già si immaginava la cinta del padre sibilare nell’aria.
FFFFF-TCH… FFFFF-TCH… FFFFF-TCH!
Non sarebbe riuscito a guardarlo. Già si immaginava il suo volto contratto di rabbia, con le labbra perennemente spaccate, avvolte da una rete di rughe marcate sulla pelle ingrigita; come un velo sudicio che copriva totalmente il volto. Le labbra gonfie, schiuse lievemente, a mostrare denti digrignati. I selvaggi occhi porcini che, capaci di brillare al buio come quelli dei gatti, saettavano lampi di luce. Pareva potesse iniziare a ruggire da un momento all’altro come una bestia. Come ciò che era.
Con il corpo scosso dal tremore e la pelle d’oca, Mike non trovava la forza di guardare. Oltre il suo respiro ansimante, udiva solo i denti che sbattevano fra loro in schiocchi secchi. Si limitava ad attendere. Una sua parola, un’imprecazione.
O la cinta.
Perse il conto dei secondi, dei minuti. Il tempo si deformò, sciogliendosi come in una reale rappresentazione della Persistenza della Memoria. Distorcendosi, si dilatò a tal punto da sparire dalla sua concezione di realtà. Una non-coscienza senza più udito, senza più vista. Persino la mente rallentò il passo a pensieri di senso compiuto, distorcendosi in maniera innaturale.
Nuove parole sostituivano il ricordo delle precedenti, annullandone la forma e il significato. Nella sua mente si formò un calderone confuso di suoni senza senso, che placidi, annoiati, si affievolirono sempre di più.
Gli sembrò di aver perso per sempre i sensi e la capacità di pensare. L’unica cosa che poteva percepire era un denso velo di oscurità permanente, in una cappa di silenzio assillante, senza più stimoli esterni, senza impressioni, opinioni, pensieri.
Era lui, Mike, un nome che gli parve sconosciuto, voleva ridere, ma non provava più nulla; era un essere, una consapevolezza che stava svanendo, un motore senza carburante di realtà a muoverlo, immerso in un mare di nulla cosmico che lo stava facendo sprofondare sempre di più.
Ma qualcosa stava cambiando, lo comprese prima di sentirlo nella sua apatia. D’un tratto si vide, ma non sapeva più cosa fosse vero ormai, se stesse vivendo un sogno lucido o un’esperienza extracorporea. Ma era Mike Io. Sono. Mike. In quella visione onirico-metafisica era certo solo di quello, poteva pensare solo a quello, anche se non era più in grado di pensare.
Vedendosi in terza persona, comprese d’essere un puntino nello spazio siderale, una minuscola particella di polvere in un’area, un brodo primordiale senza inizio né fine. Ed era lì, in apparenza immobile, ma si muoveva a centinaia di chilometri al secondo, seguendo invisibili correnti di vuoto che increspavano quell’eterna pozza di liquido senza colore alcuno.
Tentò di ritornare alla realtà precedente, qualsiasi essa fosse. Si concentrò a lungo, e comprese che, se sul cervello non aveva più controllo, ridotto com’era a una galoppata a briglia sciolta, poteva ancora comandare il suo corpo. Non poteva vederlo; poteva, però, sentirlo.
Le dita che si agitavano freneticamente, la pelle d’oca per il vento notturno, un insetto che volteggiava troppo vicino, ronzando…
Decise che lì si trovava la soluzione. Sul corpo aveva ancora una parvenza di controllo e coscienza. Si obbligò a chiudere gli occhi a quella scena.
Il petto si gonfiava e svuotava, lento, ritmico. Mike si concentrò sul proprio respiro. Inspirava ed espirava, come una catena eterna, senza pause, meccanica.
A metà dell’atto, qualcosa ruppe il non-suono che ottenebrava l’udito. Un suono impercettibile che crebbe d’intensità, assieme alla consapevolezza di Mike di stare udendo davvero qualcosa. Un apatico zufolio prese piede in quel vuoto, colmandolo con la sua forza, miscelandosi al fruscio di foglie agitate, spezzato da ululati e stridii. Un barlume di speranza parve illuminare quell’assordante fanfara silente. Una piccola perla di felicità si fece largo nel suo umore.
«Il bosco!»
Si stupì di sentire nuovamente la propria voce, chiara e insindacabile, dopo quell’infinito mutismo obbligato. Ci sto riuscendo! Appena gli si presentò questa nuova consapevolezza, ci fu un rumore sordo tanto forte da fargli dolere le orecchie; la schiena era stata percossa da un colpo brutale, che irradiò tutto il corpo di un dolore atroce, persino nelle ossa. Ancora sbigottito dal colpo inatteso, Mike si curvò all’indietro di getto, con il viso contratto e denti tanto stretti da sentire dolore, per tastarsi incerto la zona lombare, che ancora pulsava vivida. Un inutile metodo per anestetizzare le mostruose fitte che l’assillavano.
Uno schiocco lo fece trasalire. Questa volta non sentì un colpo nelle ossa, ma una forza che lo attirava alle sue spalle. Si costrinse a sporgersi in avanti, cercando di resistere a una forza terribile. Provò a muovere dei passi, lenti e goffi, come un astronauta, combattendo le stilettate alla schiena. Con grande delusione si accorse dell’inutilità dei suoi tentativi: i suoi piedi sul terriccio (Vedo il terreno!) iniziarono a lasciare un lieve solco. In ogni istante la forza aumentava, finché un ultimo scossone lo colpì con vigore tale da fargli sentire le ossa scricchiolare, sollevandolo da terra e trascinandolo con sé. Frustate di vento lo colpivano sul viso, bruciandogli gli occhi, ora aperti. Poteva vedere un telo di oscurità, sfumato in milioni di rette grigie che saettavano tutt’intorno, a velocità spaventose. Continuava a ruotare su se stesso; con lo stomaco che si contorceva e che già mandava in gola l’acre sapore del rigurgito. Tossì. Aveva perso ogni orientamento, non poteva più sapere dove fosse, né tantomeno dove si trovassero il sopra o il sotto. La testa prese a vorticare seguendo il flusso che lo risucchiava sempre più a fondo, a velocità incalcolabili. Provò a parlare, a gridare, sgolandosi, fino a strapparsi le corde vocali. Nella sua disperazione, era l’unico atto che gli restituiva la parvenza di un misero controllo.
In quel nero psichedelico, urtò con veemenza contro una superficie solida: l’impatto gli svuotò i polmoni e gli incise la schiena e le spalle con migliaia di aghi di dolore. Nel panico più totale corse alla ricerca disperata d’ossigeno, in un sospiro grottesco.
Poi aprì gli occhi.
La prima cosa che vide fu un muro di foglie e la sua mano che creava una piccola apertura in quei mattoni d’edera. Mentre respirava a stento, ancora confuso, la mente iniziò a metabolizzare, ricordandosi del labirinto, della paranoia di uno stalker e del suo unico e vero obiettivo. Tutti elementi, frammenti che formavano il quadro della sua supposta realtà.
Si rese conto che nessun uomo si celava nelle pareti di verde pigmento, pronto a braccarlo come un predatore a caccia.
Allibito e con il fiato rotto, rimase immobile, uno, forse due minuti, in un silenzio tombale, come tombale era il silenzio che solo la notte fonda può donare. Quel silenzio era alternato solo a una flebile brezza, non eccessivamente fredda, che smuoveva le fronde degli alberi; e in quel momento tutto il bosco sembrava ululare, in un improvviso fracasso infernale.
Poi tornò il silenzio. Sul suo viso tagliente e sottile, con le primizie virili di barba, si stagliò un sorriso che agli occhi degli altri avrebbe potuto apparire come una derisione, ma, in cuor suo, Mike sapeva d’essersi evitato una vera tragedia e anche molto, molto dolore.
Rinsavito dallo sbigottimento, decise di riprendere il passo, questa volta maggiormente rilassato, solo per imprecare nuovamente dopo aver ricontrollato l’ora sul cellulare: le donne non vanno mai fatte aspettare!
Si destreggiò abilmente fra la vegetazione dall’annerito verde, che variava da semplici arbusti fino a cespugli e vari piccoli alberi da frutto, tutti di proprietà di alcuni abitanti ignoti della cittadina di Chester Woods e di zone limitrofe. Proprietari che, pensò, potrebbero anche non esistere affatto.
Ormai l’andamento era cambiato, proprio nel momento in cui era entrato nel nucleo del bosco, che lo obbligava a orientarsi, ora, grazie a una torcia, acquistata tempo addietro all’Hunt-Guy Nook proprio per simili circostanze. Ma lui non era a caccia di volpi o di cervi. L’unica cosa che gli interessava era cacciare una pantera, la più focosa e sensuale che avesse mai visto.
Le gambe intirizzite per la stanchezza cominciarono a dolere, ribellandosi a un ordine ormai troppo arduo. Ma il tratto non indifferente già percorso lasciava spazio a un solo traguardo, ormai imminente: Nora.
Si obbligò a un’andatura celere, addentrandosi sempre più a fondo in quella variegata vegetazione, evitando tronchi di pini e di lattiginose betulle, e sorpassando cespugli carichi di piccoli frutti rosati, simili a caramelle, chiamati thimbleberries, o di mirtilli d’un opaco blu notte, lucido e omogeneo.
Aiutandosi con il cono luminoso che scaturiva dalla torcia, cercò di fare mente locale, tentando di individuare il fantomatico “Albero dell’Amore”, unico punto di riferimento in quella ressa vegetale. Tale albero, dal romantico appellativo, che Mike aveva ideato assieme a Nora, era mimetizzato tra una miriade di altri alberi praticamente uguali in tutto e per tutto. Egualmente silenziosi, egualmente tinti del vago colore della notte.
angolinomagico
Sei racconti lunghi che iniziano con scene di vita quotidiana, madre e figlia al centro commerciale, tre ragazzi che partono per un viaggio, un uomo che deve alzarsi dal letto e andare a lavoro,… ma che si trasformano in veri e propri incubi. Racconti inquietanti che, per le scene narrate, sconsiglio ai più sensibili.
“Il presagio” mi ha messo un sacco di ansia, io odio i centri commerciali, troppe persone e troppe cose tutte insieme, e mentre leggevo mi sono messa nei panni della protagonista e mi sono sentita oppressa e schiacciata da quel fiume di persone (per non parlare poi del risvolto finale 😵).
Anche “Nido di vespe” mi è piaciuto molto, ansiogeno, un po’ splatter e molto inquietante, con un ottimo finale.
I racconti non sono né tropo brevi né troppo lunghi e questo permette al lettore di immergersi nella storia.
La scrittura è scorrevole, anche se a volte ho trovato la voce narrante troppo giudicante e moralista.
Nel complesso è un libro che mi è piaciuto e che consiglio di leggere la sera se volete provare dei brividini di inquietudine.