Apparecchio che era il soggetto principale delle lunghe attese che i pazienti del neuropsichiatra dovevano sorbirsi, e che —pensò A. — doveva anche essere molto usata, considerando i molesti segni di unto sul vetro. Appiccicato sul quel velo impolverato e torbido faceva capolino un biglietto scritto a penna:
A16 — Caffelatte
B21 — Mocaccino
BAB — Aggiunta Cacao
B31 Kinder Bueno
NON DISPONIBILI
B46 Kinder Paradiso
Un velo di tristezza apparve sul viso di A. Nel posto l’unica merendina non disponibile era proprio quella che le aveva fatto sgranare gli occhi di desiderio, alla quale però avrebbe dovuto rinunciare. Con il bisogno di grassi e carboidrati non placato, era cominciata l’attesa in quello studio neurologico, luogo assolutamente spoglio di brio, composto in larga parte da silenzi imbarazzati, sguardi di sottecchi con alcuni picchi d’emozioni, per via dei borbottii della vecchietta agghindata nel classico vestiario fuori tempo, piccata dalla notizia letta su una rivista. Le classiche letture da cesso, piene di trashume, gossip e pubblicità, ammucchiate in una collinetta di carta sprecata sulle tavole in legno, sistemate nel modo più ossessivo-compulsivo possibile. Solo dopo venti minuti un evento aveva scosso gli animi dei presenti: il passo audace e deciso della segretaria, una “ultracinquantenne” in tubino e tacchi, era riecheggiato nel corridoio, percorso con decisione, mentre stringeva fra le mani una cartellina. Fermatasi davanti alla porta di uno dei medici, aveva bussato con solennità, per poi entrare. Nemmeno trenta secondi dopo era già fuori, impassibile e con la stessa austerità che la caratterizzava. Senza documenti, stavolta. Represse un colpo di tosse con le mani libere, tramutato in un flebile mugolio felino. Di quello spettacolo A. non si era persa un secondo, sfacciatamente volta verso la segretaria, alla disperata ricerca di distrazioni. Non ne era certa, ma ipotizzò che tutti gli altri pazienti avessero seguito il suo esempio. Quell’evento fu l’unico guizzo emotivo di un’ora di nulla cosmico. A., ormai intontita dalla lunga attesa, cercò di placare il disagio e l’ansia, riprovando a usare lo smartphone, sperando che internet funzionasse. Aveva ben in mente cosa fare, azioni ridotte a due semplici parole: Instagram e Youtube.
Per la maggior parte si imbatté in foto di donne ammiccanti in primo piano, ma non sul viso, bensì sulle tette, mostrate sfacciatamente sotto scollature da capogiro. Post conditi, a mo’ di scusa, da aforismi o versi di poesie che con le tette non centravano nulla. “Che…’’ pensò, passando subito oltre. Scorrendo con la mano destra, nella disperata ricerca di qualcosa di interessante, la scomodità della sedia —senza braccioli— cominciava a farsi sentire, aggiungendo altra tensione alla già poco promettente situazione. Con l’altra mano picchiettò dieci volte l’indice sul bordo della sedia.
Continuando a scorrere la Home di Instagram, decise di cambiare posizione e spostare il cellulare nell’altra mano. Questo sembrò dare un cambiamento. Ora l’applicazione era infestata da foto di gattini d’ ogni stazza. Poi cibo — che per alcuni sono anche sinonimi —pensò A., trattenendo un sorrisetto acido. Un carosello di varie prelibatezze, di ogni nazione le si parò davanti agli occhi: spaghetti alla carbonara, all’amatriciana, hamburger unti e grondanti salse, passando ai nasi goreng e tamagoyaki, per palati più raffinati, fino a quei ridicoli piatti vegani — chiamati comunque con nomi di cibi che i vegani non dovrebbero voler mangiare—. Ogni volta che l’indice sinistro toccava cinque volte il bordo della sedia, l’altra mano, in un meccanismo involontario, scorreva la home. Alla decima foto dell’ennesimo piatto, si arrese. Ancora non capiva perché tutti fotografassero il cibo prima di mangiarlo. “A chi cacchio interessa cosa mangi o dove’’. Incrociando le dita, passò a Youtube. Munita di cuffie, messe solennemente nelle orecchie, come preambolo di un’operazione di spionaggio, andò sulla pagina Tendenze. Ma il pensiero rimuginava ancora sul cibo. “Come se fossi migliore se mangi da… da…’’ Si fermò un attimo. “Come se fossi migliore se mangi in un ristorante costoso…” A. Si sentì sollevata. —”Ah, Youtube, certo—”.
Quel povero social network, è il più bistrattato di tutti. “Un network dove puoi condividere ciò che vuoi, che siano i propri talenti, o semplicemente le proprie passioni. Favoloso, no? “Broadcast Yourself”, recitava il motto Trasmetti te stesso, trasmetti ciò che sei… allora perché lo riempi di merda come Scherzo Epico finito male (e finto, aggiungerei) o Tizio vs Food? E poi c’è gente che si lamenta che i paesi industrializzati se ne fottono di chi sta peggio e non ha cibo, nel Terzo Mondo, — che nome particolare Terzo Mondo, quasi come fosse un altro pianeta… e ci credo, se c’è gente che divora quintali di cibo per avere visualizzazioni. Che poi, che—
A. deglutì per riprendere fiato.
“Che poi, fa anche schifo vedere un tizio che si strafoga…’’
Lasciò perdere le Tendenze e digitò SoftNotes nel motore di ricerca, la manna dal cielo per chiunque volesse brani rilassanti, al quale era fieramente iscritta. Si preparò psicologicamente mentre si accoccolava sullo schienale della poltrona della sala d’aspetto, adagiando il respiro in una meditazione fasulla, nella vaga speranza di sfogare un po’ di tensione. Dopo un’assurda pubblicità di abbigliamento sportivo che parlava di un atleta che non si stancava mai, iniziarono le rilassanti note del brano. Respirò a fondo.
Ecco ciò di cui aveva bisogno. Relax.
Ispirò ed espirò numerose volte, e profondamente. Riaprì gli occhi sconvolta, fissando il ragazzo di fronte o la vecchina in fondo alla sala, con un imbarazzo palese. Nessuno si era accorto di lei. “Tanto meglio’’. L’unica cosa che doveva fare era rilassarsi. La tensione era salita vistosamente nell’ultima mezz’ora. “Che ore saranno?’’
Guardò l’orologio. “Caspita, sono qui da un’ora e mezza…’’ Ma la musica la distrasse.
Facendosi trasportare dalle note del brano, più simile ad una ninna nanna, la mente iniziò a vagare in libertà. “Cosa mangerò stasera…? Dovrei decidere, oppure posso rifugiarmi nel mio Jolly, chiamato McDonald’s (anche noto come Junk Food). Ma sì, mi fermerò sulla strada verso casa e mangerò qualcosa lì.”
Iniziò a percorrere una lista mentale di tutti i prodotti McDonald’s che conosceva. “CBO, pollo, bacon e cipolle… McWrap…. BigMac…’’ La lista dei prodotti Mac e dei loro presunti ingredienti fu interrotta dalla foga del ragazzo di fronte a lei mentre correva verso il corridoio tutto inebetito.
“Ottimo, dopo ci sono io e poi la donna anziana là in fondo…’’
Si tolse le cuffie, riponendole nella borsetta, e spostò lo sguardo verso il tavolino. Adocchiò una rivista di gossip con una enorme foto di Angelina Jolie. La prese e se la ripose sulle gambe, iniziando a leggere l’inserto.
Foto compromettenti per la Jolie. Bacetti al ristorante, chi sarà il suo spasimante? Forse una nuova fiamma?
“Noia’’
Procedette a sfogliare le pagine.
Nuova dieta dell’acqua. Sono dimagrita 16 chili in una settimana.
“Certo, stai per morire…’’
Uno squillo del cellulare attirò la sua attenzione. Automaticamente portò la mano alla borsetta. Con stupore si accorse che non era il suo, ma della vecchietta in fondo.
“Caspita, la vecchietta avrà ricevuto tipo quindici telefonate da quando sono qui. Sarà un’imprenditrice!? Ma non è che è una famosa…?”
Iniziò a fissarla attentamente. Nel parlare al telefono, la vecchietta mosse la testa, e un imbarazzante incrocio di sguardi provocò ad A. un formicolio alla nuca. Colta in fallo, sentendosi colpevole come un assassino, si fiondò con nonchalance a riprendere una di quelle noiose riviste, imprecando fra sé, e sperando di non essere stata notata. Le servirono alcuni secondi per rendersi conto di aver preso una rivista di moda, che la incuriosì abbastanza da sfogliarla, ma non da evitarle veloci sguardi alla sua sinistra, alla misteriosa donna che parlava al telefono con un aplomb da professionista e un marcato accento british. “È sicuramente una vecchia diva del cinema… ma perché è qui? Non mi sembra abbia accompagnato qualcuno. D’altronde fama e successo non esenta da problematiche, anzi!”. Una splendida foto mostrava una pubblicità di un profumo Prada, interpretata da una modella dalla pelle linda, senza imperfezioni, pallida e liscia da sembrare porcellana. Il viso, era cinto da una pomposa chioma bionda che le ricadeva in chiome ondulate sulle spalle, fino a scendere al seno, nudità coperta dal profumo pubblicizzato.
“Oh, ma che peccato’’, un sorriso le morì fra le labbra. Voltò pagina rapidamente, il viso contratto.
Intervista shock di… Non riuscì a leggere il nome, scarabocchiato da grandi quantità di inchiostro rosso. A. Continuò a leggere, bramosa di distrazioni. Il mio uomo ideale? Un selvaggio
Sbuffò rassegnata, prima di lanciare a mo’ di giavellotto sul tavolino la rivista, in un fruscìo.
La sua attenzione fu attirata dal distributore automatico all’ingresso. “Potrei prendermi qualcosa… magari dell’acqua’’. Picchiettò alcune volte le dita sulla sedia, poi si alzò facendo leva sulle braccia già studiando con mille elucubrazioni sulla migliore scelta possibile fra le disponibili.
M&M’s, Mars, KitKat…
Si rattristì nuovamente a leggere la dicitura NON DISPONIBILE, sopra Kinder Paradiso.
Dopo una breve rassegna delle possibili combinazioni, contò il prezzo preciso e optò per KitKat al Cioccolato bianco e una bottiglietta d’acqua frizzante.
Con la flemma tipica dei bradipi, ciondolò al suo posto, ora più sollevata dalla noia, visto il gustoso bottino. Non aspettò un secondo dallo scartare il KitKat e addentarlo golosa, assaporando ogni minimo ingrediente fra le papille gustative eccitate. Nella masticazione notò che l’anziana stava parlando ancora al cellulare. A. riuscì solo a carpire stralci di conversazione, afferrando solo di una fantomatica “cena cruciale” che si sarebbe dovuta svolgere di lì a poco. “Sono quasi propensa a domandarglielo…” ridacchiò A. , —ormai mi sembra di conoscerla da una vita—
Subito le papille gustative goderono, dapprima della frescura dello snack; poi, masticazione in corso, il cioccolato del wafer cominciò a sciogliersi, l’intera bocca fu imperniata dal deciso aroma di cioccolato, cementando la mucosa di un persistente zuccherino. Per quanto il sapore fosse splendido, quella lamina dolciastra, densa come vernice, ravvivò l’aridità della bocca, obbligandola a cercare rimedio per la bocca impastata.
“Non bevo ormai da più di due ore…’’, pensò mentre cercava di staccare a colpi di lingua i pezzetti incollati alle guance. Ma, nonostante il disagio, la fame ebbe la meglio e il pasto alla buona, fu solo accelerato, non interrotto. Il primo wafer, una volta ingerito, fu seguito da un altro, infine dal terzo, e, in un batter d’occhio lo snack era stato consumato. Con fare teatrale allungò una mano alla bottiglietta, placando così l’immensa sete che l’attanagliava, e riuscendo a deglutire un boccone troppo grande grazie alla frescura delle bollicine, lenitive per l’esofago assetato.
Finito lo spuntino, non certo sazia, ma soddisfatta, si lasciò andare ad un sospiro di piacere, —scontenta solo di non potersi concedere una rilassante pennichella—. Subito si strinse nelle spalle, ricomponendosi, controllando, di sottecchi, che l’anziana non si era accorta della sua gaffe, ancora intenta com’era a parlare al cellulare con il marito, nipote o chissà chi altro. Il piccolo break le aveva restituito il senso di benessere, sfocato nella tediosa attesa, per la sua prima volta in uno studio neurologico, iniziata con l’ansia reverenziale tipica di un esame universitario. In un certo senso, —pensò A—, lei era in attesa di un esame. Un esame dove il programma altro non era che la sua vita: non aveva ricevuto nessun programma, non conosceva le domande comuni e non era nemmeno certa di quanto avesse studiato effettivamente, o quanto bene. Si rese conto che in quel frangente, la sua vita sarebbe diventata oggetto di domande —generiche o specifiche, sarebbe stata una scelta del medico-professore —.
“La vita è il tipo di insegnante più difficile. Prima ti fa l’esame e poi ti spiega la lezione.”
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