Alice: la scoperta
Era quasi mezzanotte e nessuna di noi riusciva a dormire. Era la notte prima degli esami. Alice era accanto a me a fumare e raccontare storie. Era piena di immaginazione, colta, informata.
La guardavo nella penombra, il suo profilo aveva qualcosa di lievemente inquietante. Il naso aquilino e le labbra carnose, al buio, la rendevano una bambola diabolica. La sua risata, un po’ sguaiata, era contagiosa e fottutamente irresistibile.
Eravamo tutte innamorate del suo essere, nello stesso momento, estrosa e assennata. Ci rapivano le sue conversazioni sulla vita, sugli uomini, sul sesso. Era una vecchia cantadora, nel corpo di un’adolescente. Una persona al limite del ridicolo, di cui non si poteva fare a meno, una volta inciampati nel suo ego smisurato.
Sapevo che la sua sete di vita l’aveva spinta a sperimentare praticamente tutto ciò che, a noi ragazze di provincia, era proibito. Le canne, le droghe pesanti, l’alcol, le fughe da scuola, il sesso di gruppo. Nessuno ci vietava sul serio di fare queste esperienze, in realtà i nostri genitori non avrebbero mai avuto il coraggio di parlarne apertamente. Ma, a livello inconscio, eravamo programmate per fuggire dalle situazioni peccaminose, pericolose, estremamente intriganti. La cultura del vecchio patriarcato aveva legittimato i maschi a osare e aveva tarpato le ali a noi ragazze, che altrimenti saremmo state considerate delle “poco di buono”.
Farfalla.
Muovi le ali soave.
Vorresti agitarle forsennata, senza tregua,
seguendo solo il battito, solo la vita.
Devi essere così, piccola.
Come ti hanno immaginata.
Devi essere così, docile.
Il bimbo ti guarda e gioca con la tua bellezza.
Farfalla.
Tua è la grazia dell’ineffabile, tua è la forza
impavida della natura.
Diventi fata, diventi ombra, diventi soffio.
Farfalla.
Vuoi essere vento, pioggia, tempesta.
Dalle pieghe dei tuoi voli, vuoi abissi, risalite
e struggimenti.
Nascondi, mia piccola, il tuo magnifico delirio.
Cedi il passo ai bimbi, che di te si fanno grandi.
Vivi, che domani crescono.
Eravamo in quattro, eravamo tutte diverse l’una dall’altra. Ma lei era speciale, lei era di più.
A scuola i professori, che normalmente propendevano per gli studenti placidi e studiosi, erano attratti da lei. Le sue trovate e la sua intelligenza vivace e disarmante li stimolava, li incuriosiva e a volte li metteva in crisi. Anche il preside, di tanto in tanto, la convocava. Partiva con l’intento di darle una lezione memorabile, ma lei riusciva a divincolarsi dalla morsa e, con maestria, arrivava addirittura a ribaltare la situazione e a fargli promettere, croce sul cuore, di ristrutturare la palestra.
Lei era così, una forza della natura. Quello che mi colpiva, più di tutte le magie che riusciva a fare, era il suo carisma, che non suscitava alcuna invidia. Il suo essere spesso al centro dell’attenzione avrebbe potuto indurre le persone a prenderla in antipatia. Ma lei era amica di tutti, senza essere condiscendente. Riusciva a creare un legame empatico anche con i muri. Era bella, senza esserne del tutto consapevole e questo le regalava un fascino magnetico.
Aveva tutto quello che un adolescente poteva desiderare: fama, disinvoltura, ragazzi carini che le giravano intorno. Non c’era festa che non prevedesse la sua presenza, non c’era gruppo che non la decretasse leader. In prima superiore aveva già un ascendente sugli studenti di quinta. Si consultavano con lei, le chiedevano di partecipare alle assemblee e alle occupazioni. Alice era un dono e io intuivo che starle accanto mi avrebbe consentito di fare esperienze altrimenti lontanissime dalle mie possibilità.
Decise di accendersi l’ultima Marlboro e mi chiese se volessi fare un tiro. Accettai, nonostante la mia bocca avesse l’odore di un posacenere. La lingua era felpata per i dolci ingollati durante il pomeriggio, trascorso tra espressioni matematiche e ripasso di tutto il programma di quinta. Ma tra me e lei c’era un’intimità senza limiti.
Alice mi chiese di avvicinarmi e subito non capii quali fossero le sue intenzioni. Mi chiese di appoggiare le labbra alle sue e di fidarmi. Lo feci. Mi soffiò il fumo dolcemente nella bocca schiusa in un piccolo, timido bacio. Lo sentii entrare piano e il suo sapore amaro mi punse i sensi. Poi mi sorprese la lingua calda, che piano si fece strada tra i miei denti e l’apparecchio. Era determinata Alice e anche un po’ stronza. Sapeva di mettermi in imbarazzo e le piaceva.
Stetti al suo gioco e lentamente iniziai a simulare un bacio appassionato, con tanto di mugugni e risatine maliziose. Lei si fermò e mi intimò di essere seria.
«Non mi dire che non hai mai baciato una ragazza? Anna, sei una bacchettona piccoloborghese. Sai che, nel resto del mondo, il sesso è una questione di opportunità, non di genere. Qui sappiamo solo aprire le gambe e farci fare… devi prendere sul serio l’emancipazione femminile, se non vuoi finire sposata con un “medioman”, ingravidata e tradita, magari con la tua migliore amica!» fece l’occhiolino.
«Vieni qui.» Mi prese la testa tra le mani e portò la mia bocca verso il suo seno.
«Lasciati andare, devi iniziare dai preliminari se vuoi godere.»
Iniziai timidamente ad assaporare quel momento di follia. Immersi i miei sensi in quell’esperienza audace e surreale. Le sue mani cercavano il mio sesso e la sua lingua infuocata si infilava dappertutto. Non so bene quanto tempo passò. Eravamo in un vortice di piacere, avvolte dagli odori e dai sapori di una vita che quella notte, per la prima volta, assumevano sentori nuovi e golosi.
Presto sentii qualcosa mai provato prima, che mi fece gemere. Boom! La diga aperta, incontenibile, mi lasciò stravolta. Ero accalorata e sentivo piccole scosse passare dal ventre alla testa, scorrendo lungo ogni centimetro del mio corpo.
Mi lasciai cadere sul letto umido e appoggiai la testa sul cuscino, un po’ inclinata, come la mia anima giovane e piena di paure.
Non avevo mai provato un orgasmo così forte prima. Solo molti anni dopo riuscii a ritrovare una tale ipnotica esperienza sensoriale con un uomo. Finimmo così. Ancora vestite. Tutto era accaduto senza spogliarci. Ci eravamo sfiorate così profondamente che alla fine ero sicura di non avere nulla addosso. Invece i miei Levi’s 501 erano solo slacciati e la mia maglietta sapeva di sesso e di muschio. Lo avevamo fatto davvero?
La mattina seguente ho creduto fosse stato un sogno, avevamo dormito così placidamente che mi svegliai piena di energia. Non commentammo mai l’accaduto e tutto tornò alla normalità in un istante, prima degli esami.
Io e Alice sapevamo che era stato un gioco e che nessuna avrebbe mai detto una parola a riguardo. Ma, di tanto in tanto, mi incantavo a guardarla e frammenti di follia mi pizzicavano le guance e mi facevano arrossire.
Alice mi ha regalato la gioia di scoprirmi, facendomi conoscere una parte inedita di me, una Anna lontanissima da quella scontata. Lo aveva fatto con l’incoscienza che hanno solo gli adolescenti, quella sorta di strafottente innocenza. Ho capito che il mio corpo, se compreso, avrebbe potuto regalarmi grandi soddisfazioni e che avrei dovuto ricercare quella sintonia in ogni rapporto. Ero certa che la leggera sfrontatezza di quella notte mi avrebbe resa beatamente piena.
Dopo la fine degli esami, a metà luglio, ci riunimmo coi compagni di classe per andare al mare. Avevamo motorini sgangherati, birre e caschi legati al braccio come inutili suppellettili. Alice era salita sulla moto di Andrea che nonostante il suo flop agli orali era tutt’altro che triste. Dava di gas e urlava frasi senza senso e tutti noi, come pecoroni, lo imitavamo e lo incitavamo a fare il matto.
Passammo la giornata tra tuffi, birre e un’infinita quantità di canne e sigarette. Eravamo giovani, eravamo liberi dalla scuola e pensavamo che il mondo fosse ai nostri piedi.
Trascorsi il tempo a cercare di avvicinare Alice, dopotutto avevamo sperimentato qualcosa di unico, diverso da quello che aveva condiviso con le altre. Ma era troppo presa dai suoi monologhi sulle chiappe della prof di latino e dalle strusciatine con Andrea per accorgersi di me. Non so bene cosa provassi, è trascorso troppo tempo da allora. Un po’ ero gelosa e un po’ non mi importava. Pensavo alla vacanza che di lì a qualche giorno avrei fatto con Ernesto, il mio fidanzato dell’epoca. Avevo aspettato quel momento dall’inizio dell’anno, avevamo pianificato ogni dettaglio del nostro giro in motocicletta in Croazia. Sarebbe stata una grande avventura e il primo viaggio da sola con un coetaneo. Avrei festeggiato la fine di un’epoca e avrei avuto un ricordo indelebile, qualcosa da raccontare un giorno ai miei figli.
Erano le sette, forse le otto di sera e il gruppo, ormai sfatto dalla stanchezza e dall’alcol, si avviava sulla strada del ritorno a casa.
Ricordo le curve a gomito con le orecchie a terra, le mani per aria, cantando canzoni e suonando i clacson, l’ebbrezza del tramonto, le risate. Non potevamo immaginare cosa sarebbe accaduto di lì a poco. Eravamo il ritratto della gioia più pura, senza dubbi né ombre. Sentivamo il cielo terso sopra di noi e la strada scorreva veloce e priva di ostacoli perché fatta di sogni, speranze, emozioni, vita. Alla nostra età tutto andava al massimo, il mondo era semplice, era bianco o nero.
In una frazione di secondo, la nostra gioia si dissolse come nei peggiori film dell’orrore, come nessuna di noi avrebbe mai potuto immaginare. Sentii un botto, voltai la testa e, per non perdere l’equilibrio, strinsi forte le braccia intorno all’amica che guidava il motorino. Non dimenticherò mai la scena che mi si parò davanti. Tutti i nostri sospiri d’amore, le nostre confidenze, le nostre risate si spensero alla vista di Andrea e Alice per terra, riversi sui loro destini. La nostra giovinezza si infranse sul muretto dove si schiantarono. Dove oggi c’è ancora un fiore e una frase sbiadita che recita non vi dimenticheremo mai.
Siamo caduti nel punto più basso della nostra esistenza. Il destino ci ha schiacciati contro le conseguenze dei nostri gesti sfidanti, della nostra onnipotenza. Ci sentivamo tutti in colpa per non aver rispettato neanche una, delle raccomandazioni dei nostri genitori ma soprattutto perché noi eravamo vivi e loro no.
Osservavo la scena e non potevo smettere di pensare che avrei potuto essere al suo posto. Cosa avrebbero fatto i miei genitori? Avrei rovinato la vita a tutti? Cosa gli avrebbero detto i soccorritori?
Ma soprattutto cosa diranno alla mamma di Alice?
Provavo un grande senso di smarrimento, di ingiustizia ma allo stesso tempo una parte di me, piccola ed egoista, era quasi sollevata. Ero alleggerita all’idea di non essere io lì a terra. Faticavo ad ammettere a me stessa di essermi liberata dal peso di quella notte folle che moriva con lei, che sarebbe rimasta per sempre giovane e bella, per sempre la Alice amata da tutti. Allora non potevo immaginare quanto quelle sensazioni sarebbero rimaste vive e memorabili e quanto fossero preziose. Pensavo che avrei potuto custodire tutto in un angolo remoto della mia memoria, addirittura disfarmi di una follia tanto ardita e indecente e riappropriarmi del mio senso del pudore, senza temere il confronto con la volontà di osare tipica di Alice. Mi vergognavo dei miei pensieri, di fronte ad una tragedia simile e provavo a scacciarli a fatica.
Continua a leggere«Non si poteva fare più niente.»
«Non hanno sofferto.»
«Sono morti sul colpo.»
«Avranno al massimo diciotto anni, poveri figli.»
Le frasi che carpivo, nell’agitazione generale, mi arrivavano ovattate, avevo un fischio nella testa che disturbava la trasmissione. Le parole salivano piatte e implacabili dalla folla di gente, accalcata attorno ai medici del 118.
Con il passare dei giorni realizzavo ciò che era accaduto e mettevo a fuoco l’irreversibilità di quell’evento tragico. Rivedevo continuamente i fotogrammi della nostra vita insieme. Cinque anni sono l’universo per un adolescente. Le serate al bowling, le risate, i tornei a scala quaranta, le collette per la miscela del Piaggio Sì per andare a ballare fuori città, le interrogazioni e, infine, la nostra notte di follia, che con il tempo è diventata una cartolina sbiadita al sole dei ricordi. La rabbia e il dolore pian piano hanno ceduto il posto alla malinconia. Il vuoto era più profondo di quanto avessi potuto immaginare.
Game over. Niente Alice. Niente viaggio. Niente è stato mai più come prima. Alcune persone ti restano dentro, per sempre.
Massimo: la passione
Eravamo l’uno di fronte all’altra.
«Come è andata l’estate, Anna?» mi chiese Massimo.
Davvero non hai altro da dire? pensai. Da quasi un mese non ci vedevamo. Avrei voluto che condividesse con me l’ebbrezza, che mi parlasse senza filtri. Sono trasparente in fatto di emozioni e in cuor mio ho sperato che la mia ansia di rivederci fosse anche la sua.
Indossava la polo che adorava, quella che valorizzava i pettorali e nascondeva la pancetta. Ho sentito la scia del suo profumo dal parcheggio, potevo solo immaginare quanto avesse abbondato con Vetiver quella mattina. Vedevo un luccichio nei suoi occhi, incastonati nell’abbronzatura dorata, che lo rendeva irresistibile. Eravamo calamite che si attraevano, senza scampo. Ogni volta che eravamo vicini sentivo la necessità di sfiorargli la pelle con un qualunque pretesto.
Avrei voluto dirgli di smetterla di fingere. Prendimi e portami dove vuoi.
Ma restai impassibile, i miei occhi si perdevano dietro le nubi dei pensieri e delle fantasie, vedevo quelli di Massimo che mi fissavano, curiosi e penetranti, come sempre.
Dovevo velocemente riprendere il controllo. Avevo immaginato quel momento ogni giorno del mio interminabile periodo di ferie.
Dopo un timido inizio di vacanza, i primi di agosto, appena arrivata con Lisa alla casa al mare, squillò il cellulare alle sette del mattino. La voce bassa e roca di mia zia sussurrò parole che mi arrivavano confuse. Rimisi in fila i pensieri mentre preparavo il caffè. Dopo tre mesi di malattia suo figlio era morto. Che fare? Non volevo sottrarmi all’ultimo saluto, ma ero così stanca e avevo voglia di andare al mare. Per me lei era una seconda madre, la donna che mi aveva cresciuta insieme alla mia, a cui dovevo molto di quello che ero riuscita a combinare nella vita.
Ripartimmo dopo qualche ora per rientrare in città e partecipare al funerale. Avevo dovuto portare Lisa con me. Era stata un angelo. A volte mia figlia mi sorprende. Quando si tratta di momenti seri ha un controllo di sé che la rende adulta. Un attimo dopo torna la bimba di otto anni che è, vivace, vulcanica, curiosa e a volte impertinente. Bella come il sole, con i capelli di grano e gli occhi verdi e profondi. A volte sembra un dipinto, le osservo il profilo e provo a immaginare come sarà da grande. Lei si gira e mi stana mentre la fisso: «Mamma, sei inquietante, la smetti di guardarmi così?!». Credo che al suo posto direi la stessa cosa. La verità è che la amo troppo. Ma ci sto lavorando.
Appena tornate al mare, riprendemmo lentamente il ritmo delle vacanze. Ma “i guai non vengono mai da soli”, recita un detto antico.
Pochi giorni dopo, la rovinosa caduta di mia madre. Il panico iniziale e la verifica dei danni avevano presto ceduto il posto all’operazione, il gesso, le cure e infine i controlli. L’ospedale è un luogo che normalmente non mi mette ansia, anzi mi incuriosisce, quasi mi rasserena. In quella circostanza invece mi fu insopportabile.
I medici e gli infermieri erano quasi tutti in ferie e il personale presente scortese, colpa della noia o forse del caldo.
La struttura del sant’Annibale era talmente fatiscente da farmi pensare che se mia madre non fosse morta sotto i ferri ci avrebbe rimesso le penne per un’infezione. A volte mi chiedo come siamo arrivati a questo punto. Un Paese civile come il nostro dovrebbe avere cura delle persone fragili.
Dopo l’operazione rimase circa un mese in sedia a rotelle. Ma ci eravamo presto rese conto che potevamo ambire al massimo a una passeggiata sotto casa. Tra buche, marciapiedi divelti e l’assenza di discese per persone disabili, ogni volta che provavamo ad andare oltre il cortile di casa erano maledizioni e dietrofront. Le mie ferie erano state tutt’altro che un periodo di relax e svago. Pensavo a Massimo, tutto il tempo.
Quand’ero serena riuscivo a passare ore, quasi giorni, senza sentire la sua mancanza e avere il desiderio di vederlo. Ma quando ero giù di tono, mi prendeva il “morbo di Massimo”. Entravo in una dimensione quasi onirica, solo mia, tra sogno e realtà. Se mi capitava di vedere un costume da uomo che mi piaceva, immaginavo come sarebbe stato indosso a lui e indugiavo davanti alle vetrine, con la faccia imbambolata. Se assaggiavo un piatto gustoso o sentivo alla radio una canzone struggente, i miei pensieri venivano inondati da immagini di noi due insieme, più o meno decenti e mi assaliva la frenesia di mandargli un messaggio o, peggio ancora, di chiamarlo. Dovevo buttarmi su una coppa di gelato alla vaniglia per correre ai ripari e non fare danni.
A volte, quando Lisa si addormentava, non vedo l’ora di tuffare la testa sul cuscino e sognare le sue mani, il suo sorriso, le sue labbra carnose e il suo sapore, che immaginavo decisamente virile.
Lui condensava in sé il mio desiderio d’amore e le mie pulsioni intime e indicibili. Era una nuvola di emozioni, in cui avevo voglia di perdermi. Anche se non era successo nulla tra di noi, non ancora.
La vacanza mi aveva devastata.
Quando ho avuto Lisa, pensavo che mio marito avrebbe fatto la sua parte, concedendomi qualche momento di tregua. Ma il suo lavoro e la sua quotidianità hanno avuto la meglio. Quando ho divorziato da Alberto mi sono sentita abbandonata e mi ha travolto l’insostenibile solitudine. Lisa aveva solo un anno e io ero a pezzi. Ero l’ombra di me stessa. Avevo tante responsabilità, ero stanca e sentivo addosso lo strisciante senso di inadeguatezza, che molte neomamme provano.
Lisa è arrivata dopo quattro anni di fidanzamento. Alberto aveva tanti dubbi e aveva fatto una scelta importante, lasciando la sua vita per stare con me. Era stata una decisione sofferta, che ci aveva uniti, ma una parte di lui restava a fare i conti con il passato. Quando è nata Lisa all’Ospedale Isola Tiberina guardavo il Tevere scorrere sotto i nostri piedi, con quel fagottino tra le braccia e pensavo che la mia vita avesse finalmente preso a fluire. Ero diventata la favola che avevo sognato per anni. Avevo tutto. Lei era il tassello mancante di un puzzle incompiuto. Pensavo che avrebbe cementato il nostro amore. Ma ci aspettava un destino tutt’altro che somigliante a quello dei miei sogni. Voler realizzare il mio desiderio di diventare madre a tutti i costi, anche se Alberto non era sulla mia stessa lunghezza d’onda, ha portato all’effetto boomerang.
Non si curava di noi, anzi preferiva buttarsi a capofitto nel lavoro e una sera di tristezza e alcol si è lasciato andare alle avance di una giovane docente, che aveva appena preso servizio nell’istituto che dirigeva. L’ho saputo da lui. Un uomo onesto, in fondo.
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Carmelo Panatteri
Molto interessante
Massimiliano Polito (proprietario verificato)
È difficile leggere il testo di un autore di cui si ha conoscenza diretta; il patto di credulità, che lettore e scrittore sottoscrivono, si assottiglia. La parola scritta rivela la persona dietro lo scrittore, e la fantasia del lettore mescola realtà e finzione. Giulia/Anna è un gioco di specchi asimmetrici, Anna non è Giulia, sono l’una l’eco dell’altra. Anna è una ucronia; una diversa realizzazione del tempo, ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, e Giulia si diverte a tessere la trama nella quale mescola sé stessa e i riflessi delle vite altrui. “Dalla parte di lei”, prendo in prestito il titolo di un capolavoro del 900 di Alba de Céspedes, per sintetizzare Anna e le figure femminili potenti che sbiadiscono i maschi, impauriti dall’imperio dei sentimenti. Li masticano male. Anna concede alla disillusione lo spazio fisiologico strettamente necessario a rimarginare la ferita: “per renderla feritoia” da cui trapela la lama di luce che illumina l’attimo. Oggetto prezioso concentrato intorno a un punto di accumulazione; appartiene al tempo ma è immune dalla cronologia. Anna e Lisa, ma anche Giulia e Anna piccola, ciascuna nella propria porzione di mondo, stanno imparando a riconoscerli, per raccoglierli e farne ricordi, ed evitare che sfuggano nell’indifferenza dei giorni che passano.