Quanto ho desiderato essere come lei. Aveva la sua cameretta, ammobiliata come quelle delle riviste, tutta sulle tinte del bianco e del rosa pallido, con il letto a baldacchino e un comodino tutto suo. La cosa che mi sembrava più affascinante, all’epoca, era il completo controllo che aveva dei suoi giochi e, più in generale, del suo spazio. Dal canto mio dovevo sempre dividere tutto con i miei fratelli ed essendo la più piccola e l’unica donna, avevo sempre la parte peggiore e ricevevo gli avanzi, dai primi due.
Le cure dei genitori di Rosaria avevano un sapore antico. La viziavano, con moderazione. Non le facevano mancare cerchietti, mollette, Barbie e i preziosissimi oggetti di cancelleria di Poochie. Il tutto senza tracimare l’oculatezza delle famiglie piccolo borghesi. Lei era composta e si lasciava coccolare, senza chiedere nulla. Non aveva avuto bisogno di sgomitare e questo la rendeva serena e appagata da ciò che le si offriva. Rosaria era figlia della vecchiaia. Una frase che oggi non ha nessun senso, visto che diventare genitori over quaranta è un’esperienza più che normalizzata. I suoi apparivano anziani, rispetto ai miei genitori e a ripensarci, erano davvero diversi da tutti gli altri, nei modi e nell’aspetto. Li definirei d’altri tempi. Forse erano solo poco conformati al sistema e alle mode.
Ricordo, ad esempio, la pettinatura di sua madre. Aveva una specie di nido di rondine in testa: i capelli nero corvino, tinti, radi e acconciati come zucchero filato. Erano gonfi e pieni di lacca, modello playmobil. Immaginavo che la sera li potesse staccare e riporre sul comodino. Quando mi ascoltava e annuiva animatamente, non si muoveva neanche un capello. Le raccontavo cosa avevamo fatto in classe e non potevo fare a meno di fissarli, essendo lei minuta e decisamente piccola di statura, riuscivo ad osservare la sua acconciatura dall’alto.
Il suo papà, in compenso, era un omone enorme. Parlava poco, parlava con gli occhi, che erano tutti per Rosaria. Fuori dalla scuola la aspettava mansueto, per portarle lo zaino, i loro gesti erano perfettamente coordinati, non avevano bisogno di dirsi nulla. Si incamminava, restando ad un metro di distanza da noi. Era la sua guardia del corpo, attento ad ogni pericolo, ci sorvegliava amorevolmente, senza mai intromettersi nei nostri dialoghi. Parlavamo dei compagni di classe, delle vacanze e dell’ultimo gioco da tavola, che sognavamo come regalo di promozione. Rosaria era buona. Mi faceva copiare i compiti, pur di guadagnare minuti preziosi per giocare. Si anticipava tutte le materie che poteva. Non riuscivo a capire come diavolo facesse, stavamo quasi sempre insieme, dove lo trovava il tempo! Aveva i quaderni ordinati, anche se sembravano scritti in braille, calcava così tanto, che ogni pagina si gonfiava facendo una specie di onda. La ammiravo, perché nulla la turbava, almeno così sembrava. Io ero già piena di manie e di piccole grandi angosce, come essere scartata per la parte da protagonista alla recita di Natale o essere presa in giro alla festa di carnevale, per il vestito da arlecchino, cucito da mia nonna.
Passavamo i pomeriggi a giocare a palla sotto al cortile di casa sua. La pelota era il nostro preferito e sullo sport devo ammettere, che era lei ad ammirare le mie performance. Un equilibrio perfetto: lei la mente e io il braccio! Era piacevole passare il tempo insieme, ma finiva sempre troppo presto. Quando arrivava mia madre con la Uno grigia, a prelevarmi frettolosamente, mi sentivo triste. Non vedevo l’ora di rivederla il giorno dopo, per riprendere da dove ci eravamo lasciate. Tornando a casa, immaginavo quanta dolcezza la aspettasse all’imbrunire. La cena placida nella cucina modesta e accogliente e il lettino rosa ad aspettarla. A fare da sfondo, c’erano quei suoi giochi perfettamente ordinati sulla libreria. A pensarci bene c’era qualcosa che non mi tornava, un elemento distonico, che all’epoca non riuscivo a decifrare. Aveva tutte le Barbie nelle scatole, sistemate con precisione, in base al livello di importanza: Barbie gran Galà aveva il posto d’onore, al centro della mensola. Non le toccavamo mai, per il rischio di rovinarle. Ricordo che notai che i mobili in salotto, avevano ancora la pellicola di imballaggio, uno strato sottile di plastica sulle sedute, che quando ci capitavi sopra scivolavi e quando ti alzavi, il tuo di dietro, produceva rumori strani. Ogni volta che ci entravamo in sordina, si sentiva odore di chiuso e avevo la sensazione di essere finita in un mondo imbalsamato, che mi faceva venire un piccolo brivido lungo la schiena. Tutto era rigorosamente al riparo dal tempo e dall’usura della vita. A pensarci bene, a casa di Rosaria, mi sentivo impacchettata e protetta. Ma erano solo intuizioni, all’epoca non mi facevo troppe domande.
Casa mia in compenso era un delirio, eravamo tre figli e c’era sempre qualche ospite di passaggio o qualche parente lontano, che si fermava qualche giorno, ovviamente “appoggiato” in camera mia e di mio fratello. Non esistevano spazi inaccessibili, come non esisteva privacy né proprietà privata! Casa mia era autentica, vissuta, ma all’epoca erano categorie che non suscitavano grande ammirazione in me. Ai tempi mi attraeva l’ordine maniacale e la suddivisione netta degli spazi di casa sua, mi sembravano rassicuranti. Un universo fuori dal tempo.
Alla mia tenera età, non potevo immaginare che, dietro tutta quella forma, si annidasse un impalpabile disagio, un abisso di mancate relazioni sociali e occasioni di crescita, che, con il passare delle stagioni, avrebbero reso Rosaria insicura e bisognosa della mia faccia tosta. La scorza che mi ero dovuta costruire, riparandomi dalle burrasche della mia famiglia, con il tempo, si è rivelata una benedizione, a dispetto di quello che pensavo e pativo.
Quando, il primo giorno della prima media, ci ritrovammo all’ingresso del nuovo istituto, lei mi cercava. La vedevo da lontano, era con i suoi. Io facevo finta di non notarla. Ero presa da ciò che stava per succedere, ero curiosa, ero eccitata e non vedevo l’ora di entrare nella nuova dimensione di “ragazza”. Ci avevo messo giorni a decidere cosa indossare, prima di sapere che dovevamo portare il grembiule nero. Credo sia stata la condanna peggiore che potessero infliggermi. Il mio corpo, durante l’estate, era cambiato e desideravo mostrarlo. Non sapevo di preciso il motivo, ma avevo voglia di esplodere, di trovare nuovi amici, di partecipare alle attività da grandi, che immaginavo basandomi sui fotoromanzi di Cioè e le serie TV da teen Agers, come Beverly Hills 90210.
Lei aveva ancora la pettinatura puerile e l’atteggiamento da cucciolo indifeso. Le piccole trecce le incorniciavano il viso, ancora fanciullesco, dove la pubertà faceva capolino, con i classici brufoli e le pelurie non ancora gestite.
Scelsi di stare in banco con un’altra ragazza, di cui non ricordo il nome, che dall’aspetto sembrava lanciatissima nella nuova fase! Volevo fare il salto di qualità e cercavo il mio Caronte.
Rosaria ci rimase male. Il primo pomeriggio che andai a studiare da lei, la madre mi parlò a quattro occhi. Diventai rossa quando sottolineò, con il suo fare mesto, che il mio comportamento aveva ferito sua figlia e che una vera amica non si abbandona. Li per lì mi fece male e mi impappinai in una risposta evasiva. Scendendo le scale di fretta, promisi a me stessa che non sarei più entrata in quella casa. Una parte di me, in fondo, le dava ragione, mi ero comportata da stronza, ma la mia pulsione alla sopravvivenza, nel mondo ostile degli adolescenti, mi fece perseverare. Anzi, ammetto con difficoltà, che mi unii al coro dei bulletti e delle bullette che l’avevano presa di mira e che non passava giorno, che le appiccicassero addosso nuovi nomignoli e le facessero il verso, apostrofandola in modi che non oso ricordare. Lei cresceva robusta e io mi sfinavo. Lei vestiva in maniera sciatta e fuori moda e io imitavo i miti americani, facendo sborsare ai miei, cifre assurde per un paio di Dr. Martens. Le nostre strade si erano divaricate e inevitabilmente passammo dall’amicizia, all’indifferenza e da quella alla repulsione.
Mi ricordo un episodio assai triste, in cui Rosaria aveva mal gestito il cambio dell’assorbente durante la giornata calda e afosa, indossava la tuta da ginnastica sintetica, che ci facevano comprare a mo’ di divisa, per le ore di educazione fisica ed emanava un odore nauseabondo. Una volta individuata in lei, la fonte del cattivo odore, iniziò il coro, sulla base della canzone di Alessandro Canino “Brutta”, che per l’occasione si era trasformata in “Puzza”. Aiutai alcune compagne a riscrivere il testo ad hoc e dall’ultimo banco, ridendo, iniziammo ad intonare il ritornello a voce alta, per prenderla in giro. Era l’ora di musica.
È una cosa che ancora oggi mi fa inorridire. Quanto si può fare male ad una persona giovane, colpendola nella sua fragilità? Quanta indifferenza da parte dei professori, comparse inutili in uno spettacolo al limite di quello che oggi definiremmo: bullismo.
Lei, dopo il primo periodo passato ad incassare insulti e atteggiamenti sprezzanti, si trasformò. Il dolore aveva preso forma e l’aveva spinta a diventare la caricatura di se stessa. Iniziò a indossare minigonne inguinali, a truccarsi come una bambola di ceramica, ad atteggiarsi in un modo che la faceva sembrare una donna vissuta. Si buttava a frequentare militari e accompagnarsi a ragazze smodate e sboccate. Ben poco era rimasto della Rosaria che avevo conosciuto. D’altronde neanche io ero più la Anna che le teneva la mano.
Nonostante questo, un giorno che il Prof. di educazione fisica mi aveva convocato con un pretesto, nella sua stanzetta in palestra, lei mi accompagnò. Era arcinoto che lui avesse una predilezione speciale per me, che subivo con fastidio. Mentre il resto della classe mi paraculava, Rosaria sapeva che questa cosa, non identificata, mi faceva tremare. Non fui io a chiederglielo. Lei capì che doveva proteggermi. Quando mi avvisarono di scendere, lei chiese di andare in bagno e mi aspettò alla fine del corridoio. Stemmo in silenzio, io ero sollevata, sapevo di non meritare il suo sostegno, ma lo accettai a testa bassa. La cosa si chiuse con poco, lui capì che quel momento di intimità non era cosa gradita, vedendoci arrivare in coppia. Le ero grata, ma al mio solito, non seppi trovare le parole per dirglielo.
Sempre in silenzio rientrammo in classe e tutto tornò come prima. Era un frammento della nostra sorellanza, che oggi conservo come un cammeo.
Ora penso con benevolenza a quelle due ragazzine, che avevano solo molta paura. Io di non essere accettata dai miei coetanei e lei di essere abbandonata dalla sua migliore amica. Ma mi fa ancora male ricordare lo sguardo triste e rassegnato di Rosaria del primo giorno e dei tre anni successivi. Mi si appiccica addosso come il caldo umido delle estati torride.
Quando mi prende la nostalgia, durante le feste trascorse al Paese, passo sotto al suo portone. Accosto la macchina e spero di scorgerla affacciata al balcone. Un giorno mi sono fermata con Lisa e ho chiesto al tizio della salumeria storica del suo quartiere, se abitasse ancora lì Rosaria Primicerio.
Mi ha raccontato che ha due bambine e che vive ancora nella casa che era dei genitori, che non ci sono più. L’ho ringraziato e quando mi ha chiesto chi fossi, ho risposto frettolosamente: “Una vecchia amica” e che sarei passata a salutarla.
Non ho ancora avuto il coraggio di farlo.
Il tempo non cancella.
Massimiliano Polito (proprietario verificato)
È difficile leggere il testo di un autore di cui si ha conoscenza diretta; il patto di credulità, che lettore e scrittore sottoscrivono, si assottiglia. La parola scritta rivela la persona dietro lo scrittore, e la fantasia del lettore mescola realtà e finzione. Giulia/Anna è un gioco di specchi asimmetrici, Anna non è Giulia, sono l’una l’eco dell’altra. Anna è una ucronia; una diversa realizzazione del tempo, ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, e Giulia si diverte a tessere la trama nella quale mescola sé stessa e i riflessi delle vite altrui. “Dalla parte di lei”, prendo in prestito il titolo di un capolavoro del 900 di Alba de Céspedes, per sintetizzare Anna e le figure femminili potenti che sbiadiscono i maschi, impauriti dall’imperio dei sentimenti. Li masticano male. Anna concede alla disillusione lo spazio fisiologico strettamente necessario a rimarginare la ferita: “per renderla feritoia” da cui trapela la lama di luce che illumina l’attimo. Oggetto prezioso concentrato intorno a un punto di accumulazione; appartiene al tempo ma è immune dalla cronologia. Anna e Lisa, ma anche Giulia e Anna piccola, ciascuna nella propria porzione di mondo, stanno imparando a riconoscerli, per raccoglierli e farne ricordi, ed evitare che sfuggano nell’indifferenza dei giorni che passano.