CAPITOLO 1.
DIFETTATO
«Corri, Pepe, vieni qui!»
Mi sveglio di soprassalto, impiegando qualche istante per mettere a fuoco ciò che ho attorno. Dove mi trovo? Il sole è già calato dietro alle montagne e ne illumina il profilo, questo significa che devo essermi assopito di nuovo all’ombra del platano per un bel po’. Mi guardo attorno, tendendo l’orecchio verso quella voce familiare. Avrà proprio chiamato me?
Al parco, specialmente verso sera (considerato il momento di punta delle passeggiate), a chiamarci Pepe siamo di solito in quattro: in fondo è un nome semplice da ricordare, facile da pronunciare, abbastanza comune seppur non troppo banale. Il mio amico Copernico, un sapientone, mi ha spiegato che deriva dall’ebraico Joseph e che le varianti più comuni sono Giuseppe, Giuseppino, Beppe e Pippo. Sono tutti deliziosi, ma continuo a pensare che Pepe sia quello che più si addica a un giovane Jack Russell Terrier.
Ebbene sì.
Sono un cane.
Un cane con il pedigree tra l’altro, anche se non ho mai capito bene cosa significhi. So solo che, in una situazione ordinaria, un animale con tale blasone può far guadagnare fior di bigliettoni al proprio umano.
Ma questo, ovviamente, non è il mio caso.
Quando si tratta del sottoscritto, nulla può definirsi ordinario. Nemmeno il fatto di chiamarsi Pepe.
Questo non è stato sempre il mio nome, ma per potervi spiegare il perché dobbiamo fare un salto indietro, molto indietro, fino al giorno in cui il padrone mi chiamò per la prima volta.
«Difettato» disse, separandomi dal resto della cucciolata.
Il giorno in cui nacqui, tutti si accorsero subito che tra i dodici cuccioli della giovane Leila, uno era diverso dagli altri. In un allevamento di cani di razza le imperfezioni non sono tollerate, perciò fui messo da parte all’istante, in attesa di sapere quale sarebbe stato il mio destino. Venni visitato da una serie di luminari esperti di Jack Russell Terrier, perché tutti speravano fossi una “variante”, una specie di rarità che potesse fruttare qualche soldo in più. Il responso fu uno solo: non destinato alla vendita. Ora, in una situazione consueta sarei stato donato a un canile o magari regalato a qualcuno. Purtroppo, per il mio padrone, un Jack Russell difettato era un Jack Russell in meno da vendere. Così il mio “nome” venne scritto su un grande cartello, appeso alla mia cuccia e, per i successivi otto mesi, fui semplicemente ignorato.
Nella mia ingenuità, non riuscivo a capire bene perché tutti gli altri cuccioli venissero adottati e io no. Anche i più piccoli, quelli che mamma aveva partorito dopo di me, venivano elogiati e accarezzati, nutriti d’amore.
Io no.
A dieci mesi, ancora non conoscevo la sensazione di una mano umana che ti accarezza il pelo. Mangiavo gli scarti dei miei fratelli, non avevo mai visto nulla al di fuori dell’allevamento. Eppure, nonostante tutto questo, mi sentivo il cane più felice del mondo.
L’amore, per me, era lei.
La mia dolce mammina.
Essendo l’unico cane invenduto e cresciuto con mamma, avevo guadagnato un posto speciale nel suo cuore. Col passare del tempo, mi ero specializzato nell’accudire gli altri cuccioli e, con l’istinto del fratello maggiore, avevo insegnato loro a mangiare dalla ciotola e a fare pipì sui fogli di giornale.
Lei mi guardava, orgogliosa e amorevole, e io mi scioglievo ogni volta che mi elogiava per essere il figlio perfetto.
Anche se perfetto lo ero solo ai suoi occhi.
Tutto filò liscio per un po’. Fino a quando un giorno mamma, leccandomi il pelo per la toilette mattutina, mi prese da parte.
«Cucciolo mio,» mi sussurrò in un orecchio «devi andartene da qui. Quando domani mattina arriverà il padrone, dovrai fingere di stare male. Verrà il dottore e quando aprirà la porta del capannone per caricarti su quella strana scatola rombante per curarti, tu dovrai scappare e correre, correre più veloce che puoi.»
«Ma perché, mamma?» Mi alzai sulle zampe e mi allontanai per fissarla negli occhi. «Non vuoi più che io rimanga qui con te? Ci saranno degli umani anche per me, no? E se anche non arrivassero, non importa! Posso rimanere con te per sempre. Sarò bravo, te lo giuro…»
Mamma guardò nel vuoto per qualche istante.
«No, tesoro mio, non arriveranno padroni per te. Non è colpa tua. Sei nato così.»
«Che cosa significa?» dissi. Non riuscivo a capire.
«Sei nato con la coda mozza. Non è lunga e affusolata come quella dei tuoi fratelli. Per il padrone sei un cane che non si può vendere, sei difettato.»
«Sì, mammina. È il mio nome, lo so bene» dissi ingenuamente.
«No, cucciolo mio, tu non capisci! Non è un nome. È una parola brutta, che si dice quando una cosa non è perfetta. Quando è sbagliata. E a me piange il cuore sentirti chiamare ogni volta in questo modo!»
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
«Ma, mamma… Io non sono una cosa! Io sono come i miei fratelli. Abbaio. Riesco a prendere il cibo al volo. Ho anche imparato a ululare… AUUUUUU!»
«Stai zitto, idiota!» tuonò una voce dal fondo della stanza. Era il padrone. «Già sei qui da un anno, mi fai perdere tempo e denaro per mantenerti, ora ti metti pure a dare noia? Parassita!»
Mi accucciai nell’angolino opposto a dove si trovava la mamma. Parassita? Le pulci sono dei parassiti. Lo sono le zecche, che avide ti succhiano il sangue. All’improvviso, ebbi paura: il padrone non mi aveva mai urlato contro. Mi accorsi che mi aveva, fino ad allora, semplicemente ignorato.
Ignorato! Come si fa con le cose che non interessano, che annoiano, che non piacciono. Ora le parole di mamma mi sembravano chiare. Non una carezza, non un complimento in un intero anno di vita.
Ero una cosa.
Avevo sempre pensato di essere un cane, ora invece non avevo più questa certezza. Ero un semplice oggetto, per di più diverso e per questo nessuno mi voleva.
Quatto quatto, camminai lentamente verso la mamma. Affondai il muso contro il suo pelo corto e ispido, che mai mi era sembrato così soffice e rassicurante.
«Cosa ne sarà di me, mamma?»
Lei mi leccò dolcemente.
«Devi scappare. Se resterai qui e nessuno ti acquisterà al più presto, temo che farai una brutta fine. Ormai sei grande, sai cavartela da solo. Ma ascolta questo consiglio: il mondo, là fuori, è pieno di pericoli che noi nemmeno possiamo immaginare. Io stessa vivo qui dentro da quando ero poco più di una cucciola e non posso indicarti la strada giusta da seguire, ma… Ogni volta che qualcosa ti farà paura, scappa! Corri più veloce che puoi e non ti voltare.»
Mi accoccolai ancora di più a lei. Sentii il suo odore riempirmi le narici. Quando ero piccolo, adoravo dormire vicino al suo naso, con l’aria tiepida del suo fiato che mi inumidiva il pelo. Tra una cucciolata e l’altra, avevo potuto averla tutta per me; nemmeno in quei momenti mi aveva mai fatto notare o pesare il mio difetto.
Mi guardai la coda. Iniziai a odiarla. Era dannatamente corta, con un ciuffo di peli all’estremità che la faceva sembrare una buffa scopa. Mi voltai verso la mia mamma; la vidi addormentarsi e le diedi una leccatina sul muso pensando, con tristezza, che probabilmente sarebbe stata l’ultima.
CAPITOLO 2.
CODA-DI-LEONE
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Il calore del sole penetrò attraverso le finestre del capannone. Attorno a me c’era gran movimento. Uno dei miei nuovi fratelli mi stava mordicchiando le orecchie, qualcuno saliva sulla mia schiena e guaiva.
Rimasi immobile. Il mio respiro si percepiva appena. Poi, dopo qualche minuto, sentii mamma leccarmi una, due, tre volte. Cominciò ad abbaiare fortissimo.
Così sveglierà il padrone, pensai. Poi capii: mamma stava facendo il mio gioco, rischiando la sua razione di cibo per la mia vita e la mia libertà.
Feci un piccolo gesto di complicità con le orecchie, poi rimasi nuovamente immobile.
Dopo pochi minuti arrivò il padrone.
«Leila, cosa ti prende?! Dannazione, non è ancora ora di mangiare!»
Mamma continuava ad abbaiare, abbaiare…
Sentii un suo guaito di dolore. Il padrone doveva averle dato un ceffone per zittirla. Lo faceva sempre, per questo lei ci aveva insegnato a latrare il meno possibile; morivo dalla voglia di morderlo con tutta la mia forza. Sentii la sua zampa umana sollevarmi da terra per la collottola.
Mi scosse.
Mi diede dei colpi sulla testa.
Non reagii per il bene della mia mamma.
«È vivo» disse.
Tirai un sospiro di sollievo, ripetendo a me stesso di rimanere immobile. Avevo studiato un piano infallibile per tutta la notte: ora dovevo solo aspettare che arrivasse il dottore per visitarmi e il gioco era fatto.
Ondeggiavo a ogni passo del mio padrone e sentivo il rumore delle sue scarpe sul pavimento. Cercavo di immaginarmi il percorso che stavamo facendo per arrivare alla sala delle visite e contavo le porte che si chiudevano alle nostre spalle, una per una. Le mie zampe penzolavano senza energia e il collo mi faceva male. A un tratto si fece tutto più buio. Sentii freddo, poi udii un tonfo. Intorno a me c’era un terribile odore.
Aspettai qualche secondo, poi aprii gli occhi.
«Ma… dove sono?» Mi sfuggì un mugolio di paura.
Ripensai alle parole di mamma e stetti in silenzio per qualche istante con le orecchie dritte. In lontananza, udivo ancora i passi del mio padrone. All’improvviso, un altro tonfo, questa volta familiare: aveva chiuso la porta di casa.
Ora, l’unico rumore che potevo sentire era il battito impazzito del mio cuore.
Ero salvo.
«Questo significa che sono fuori» sussurrai. «Starà chiamando il dottore. Ma dove mi ha messo? Dove mi trovo?»
D’improvviso, mi accorsi che l’odore della mia mamma non mi riempiva più le narici.
Attorno a me c’era una puzza terrificante; sentivo qualcosa di viscido sotto le mie zampe, ma non riuscivo a capire di cosa si trattasse perché intorno a me era buio pesto. L’unica luce che potevo scorgere filtrava da una piccolissima fessura.
Feci un passo.
Annusai meglio, per capire dove mi trovassi. Dietro di me si mosse qualcosa.
«Chi va là? Chi sei?» urlai con il cuore a mille all’ora per la paura.
«No, bello mio, chi sei tu! Come osi entrare in casa mia senza permesso?!» rispose una voce alquanto seccata.
«Io sono…» mi interruppi. Ci fu solo un nome che mi venne in mente. «Io sono Difettato, e tu?» dissi sottovoce.
«Difettato? Ma che razza di nome è mai questo?»
La voce si faceva sempre più vicina. Poi, due lumicini mi comparvero davanti agli occhi, insieme a due lunghi dentoni.
Era un topo.
«È il nome che mi ha dato il mio padrone» risposi, ancora tremante per la paura.
«Per tutti i ratti!» esclamò il topo. «Ma tu sei uno dei cuccioli dell’allevamento! Che diavolo ci fai qui?! Caspiterina, sei un po’ grassottello per essere un cucciolo, non credi?!»
«Ma io non sono un cucciolo! Ho già più di un anno!» esclamai scocciato.
«E dimmi, come ci sei finito nel bidone della spazzatura?»
Mi si gelò il sangue. Spazzatura?
«No, signor Topo, deve esserci un errore. Io sto aspettando il dottore. Devo far finta di star male per poter scappare. Me lo ha detto la mia mamma!»
«Ah, caro mio! Se starai ancora un paio d’ore qua dentro, dal dottore ci dovrai andare per forza! Quindi fammi capire… Ti saresti finto malato per fuggire dall’allevamento?»
«Sissignore. Nessuno mi compra a causa della mia coda. Vedi?» Mostrai al signor Topo la mia vergogna. Ma la sua reazione fu diversa da quello che mi sarei aspettato.
«E allora? Cos’ha la tua coda che non va? Io la trovo molto originale. Sembra…»
«Sì, lo so!» lo interruppi. «Sembra una vecchia scopa!»
Una lacrima mi scese lungo il muso. Perché non ero nato come i miei fratelli? Perché non potevo avere una famiglia anch’io ed essere felice?
Il signor Topo capì. Vide la tristezza nei miei occhi e cercò di consolarmi.
«No, affatto!» disse. «A me ricorda piuttosto la coda di un leone… Potrebbe essere la tua fortuna, mio caro! Sembri il re della savana in persona!»
Mi si riempì il cuore di gioia.
«Potrei dirlo al mio padrone. Magari se mi vendesse come leone e non come cane, qualcuno mi comprerebbe!» Mi agitai, nel pieno della felicità.
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