Il giorno in cui nacqui, si accorsero subito tutti che tra gli otto cuccioli della giovane Leila, uno era diverso dagli altri. In un allevamento di cani di razza le imperfezioni non sono tollerate, perciò fui messo da parte all’istante, in attesa di sapere quale sarebbe stato il mio destino. Venni visitato da una serie di luminari esperti di Jack Russell Terrier, perché tutti speravano fossi una “variante”, una specie di rarità che potesse fruttare qualche soldo in più. Il responso fu uno solo: non destinato alla vendita. Ora, in una situazione consueta sarei stato donato ad un canile, regalato, spedito nell’angolo più remoto della Terra… Ma per il mio padrone, un Jack Russell difettato dato in dono era un Jack Russell sano in meno da vendere. Così il mio “nome” venne scritto su un grande cartello, appeso alla mia cuccia e, per i successivi otto mesi, fui semplicemente ignorato.
Nella mia ingenuità, non riuscivo a capire bene perché tutti gli altri cuccioli venissero adottati ed io no. Anche i più piccoli, quelli che mamma aveva partorito dopo di me, tutti venivano elogiati, accarezzati, nutriti d’amore.
Io no.
A dieci mesi, ancora non conoscevo la sensazione di una mano umana che ti accarezza il pelo. Mangiavo gli scarti dei miei fratelli, non avevo mai visto l’esterno del capannone. Eppure, nonostante tutto questo, mi sentivo il cane più felice del mondo.
L’amore, per me, era lei.
La mia dolce mammina.
Essendo l’unico cane invenduto e cresciuto con mamma, avevo guadagnato un posto speciale nel suo cuore. Col passare del tempo, mi ero specializzato nell’accudire gli altri cuccioli e, con l’istinto del fratello maggiore, avevo insegnato loro a camminare, a mangiare dalla ciotola, a fare pipì sui fogli di giornale.
Lei mi guardava, orgogliosa ed amorevole, ed io mi scioglievo ogni volta che mi elogiava su quanto fossi il figlio perfetto.
Anche se perfetto lo ero solo ai suoi occhi (…)
CAPITOLO 7 (ESTRATTO)
DUE-RUOTE
Lucia strinse un laccio attorno alla mia pancia, poi lo fissò con cura attorno a due aste metalliche; con delicatezza, prese le zampe posteriori, ancora fasciate, e le adagiò su una specie di piedistallo con due cerchi metallici. Tom controllò che fosse tutto a posto, che i lacci non stringessero troppo e che le ruote girassero senza problemi. Si asciugò il sudore dalla fronte, poi esclamò: – Ecco fatto, Biscotto! Ora sei motorizzato!
Guardai con curiosità lo strano trabiccolo che mi avevano legato addosso. Abbassai le orecchie. Avessi avuto la coda, l’avrei portata tra le zampe per la paura.
Lucia mi fece una carezza.
– Non preoccuparti cucciolo, è solo una soluzione temporanea. Guarirai, ma ci vorrà del tempo e noi abbiamo bisogno che le zampine davanti tornino forti e robuste come prima!
L’idea di avere quella ferraglia addosso non mi piaceva, ma Lucia aveva ragione. Ero sdraiato da settimane ormai, forse anche più di un mese. Faticavo a reggermi, nonostante avessi ripreso un po’ del peso perduto. Era come se i miei muscoli non rispondessero più ai comandi.
– Coraggio – mi disse con dolcezza – prova a camminare!
Non riuscivo a muovere neanche un passo.
– Forse ha bisogno di un aiuto – disse Tom.
– No. Lascia che si convinca da solo. Probabilmente deve solo farsi un po’ di forza. Non cammina da molto tempo, gli serve un po’ di fiducia in se stesso…
– … o un incentivo! – disse Tom, strizzando l’occhio.
Così dicendo, aprì la porta della clinica, facendomi cenno di uscire. Eccola là, verde e fresca: l’erba! Da quanto tempo non la vedevo! Sentivo il vento muovere le foglie degli alberi; l’aria portava con sé il profumo dei fiori da poco sbocciati.
– È già primavera! – pensai. In lontananza, vidi due farfalle inseguirsi in volo, per poi posarsi su una margherita. Copernico adorava le farfalle. Ogni volta che ne vedeva una, si accovacciava tra l’erba e si allenava nel fare gli agguati. Era davvero bravo, riusciva a rimanere immobile per un tempo lunghissimo ed a cogliere le sue prede di sorpresa. Come sarebbe stato fiero di me, se fossi riuscito a tornare a camminare!
Feci un passo avanti, incerto, barcollante.
– Tom, sei un genio! – esclamò Lucia.
Al primo passo ne seguirono altri, piccoli e insicuri, ma ad ogni centimetro conquistato respiravo sempre di più l’odore della libertà.
– Sto io con lui – disse Lucia – tu continua pure il lavoro qui.
– Agli ordini!
Chiusi gli occhi, la luce del sole mi accecava. Non ero più abituato ai suoi raggi, al suo tepore. Mi riempii le narici degli odori che, un tempo, erano così familiari. Piano piano, sentivo che le mie zampe mi sorreggevano con più forza.
Riuscii a fare una piccola passeggiata nel giardino della clinica. Lucia riceveva mille complimenti dagli altri studenti, per come era riuscita a salvarmi e a rimettermi in piedi in tempo record. Ero felice per lei. Le dovevo la vita.
– Ehi, Due-Ruote! – chiamò una voce dal fondo del cortile. Era Toni, il ragazzo del canile.
– Dai, non lo prendere in giro! – lo sgridò Lucia, trattenendo a stento un sorriso – è un miracolo che si sia rimesso così in fretta!
Toni mi allungò un biscotto ed io lo rifiutai, offeso per quel nome schernitore.
– Dai, stavo scherzando! Hai un mezzo formidabile sotto le zampe, farebbe invidia a Valentino Rossi!
I due scoppiarono in una sonora risata, ma io non capii il perché.
– Quanto pensi che ci vorrà per il suo recupero? – chiese poi lui, tornando serio.
– Non saprei. Tutto dipende dalla sua forza di volontà. Potrebbero volerci settimane, così come mesi. Non posso, ad oggi, dirti con esattezza quanto tempo servirà.
– E come farai se dovesse scadere il periodo di permanenza?
Allungai un orecchio per sentire meglio. Periodo di permanenza?
– Di solito, per i casi più gravi, è di quattro mesi. Questo significa che nel giro di poche settimane dovrà venire trasferito da voi, in canile. Ho già pensato all’ipotesi di chiedere una proroga, ma di animali bisognosi di cure ne arrivano in continuazione. Non mi permetteranno mai di farlo restare più a lungo, se con il carrellino è autosufficiente.
Capii la situazione e, come se d’improvviso avessi ultimato le forze, le zampe anteriori cedettero, facendomi finire con il muso a terra.
– Due-Ruote! – Esclamò Toni correndo in mio soccorso.
Non so se fu la stanchezza, la paura di venire abbandonato o la delusione nel sentirmi di nuovo considerato un oggetto da spostare a piacimento… Ma quel giorno, dopo essere uscito sulle mie zampe, tornai in clinica tra le braccia forti di Toni (…)
CAPITOLO 10 (ESTRATTO)
PEPE
L’alba colorò il cielo delle sue mille sfumature, sopra il tetto del numero 15 di Via del Rifugio. Rifugio Felicità: quante volte mi ero ripetuto quella parola nella mente, percependone il calore, la sensazione di pace, l’amore che sprigionava. Per me felicità voleva dire famiglia. L’alba colorò il cielo per la centesima volta quella mattina, il che significava cento giorni trascorsi al rifugio osservando con invidia la felicità, certo, ma non la mia… Quella dei cani che venivano adottati, uno dopo l’altro, e che lasciavano le gabbie per andare a vivere con i loro nuovi padroni.
– Da domani non saprò più quanti giorni sono passati – dissi a me stesso sottovoce – perché Copernico mi ha insegnato solo i primi cento numeri umani. Non ho imparato quelli che vengono dopo…
– Che ti importa! – disse Orbo, il mio vicino di gabbia nonché Alano con un occhio solo – potrai contare fino alla fine dei tuoi giorni, gli storpi come noi non hanno una data di scadenza. Entrano qui per non uscirne più. È questa per noi la felicità: un pasto caldo, una chiacchierata tra le sbarre con i coinquilini, una sgambettata veloce in cortile ogni giorno. In fondo, se ci pensi, c’è chi sta peggio di noi…
Sapevo quanto fosse vero, ma nonostante ciò continuavo a credere e sperare in un domani migliore. Ero convinto che Felicità non significasse doversi accontentare.
Il rumore del lucchetto che si apriva mi distolse dai miei pensieri.
– Orbo, Zoppo, Pulcione, su andiamo! È ora della passeggiata!
Il momento più bello della giornata. A dir la verità, l’unico. Avevo perso l’appetito, il sonno, la vitalità nell’ultimo periodo… ma l’amore per la libertà, quello non avrei mai potuto perderlo. Nonostante fosse passato molto tempo, continuavo a necessitare del carrellino: mezz’ora al giorno di passeggiata era troppo poco per permettere alle mie zampe di recuperare le forze. Inoltre, senza la ferraglia, mi trascinavo dietro ai miei compagni di cella e la volontaria doveva sempre rallentare il gruppo per aspettarmi. Nell’ultimo periodo, tutti avevano perso le speranze circa un mio recupero ed il carrellino non me lo avevano tolto più. Sinceramente non mi importava granché. A quale scopo faticare tanto, per poi passare comunque il resto della mia vita chiuso in gabbia?
– Domani è sabato, Zoppo! – mi gracchiò Pulcione nell’orecchio destro, grattandosi e buttandomi orde di peli sul muso – è giornata di adozioni! Cosa dici, sarà il mio turno?
Pulcione era, in tutta sincerità, il cane più brutto che io avessi mai visto. Era allergico alle pulci, perciò passava le giornate a grattarsi e rigrattarsi… il manto era a chiazze, ma non perché fosse maculato: gli mancavano veri e propri ciuffi di pelo ovunque. Aveva un orecchio dritto ed uno piegato, un occhio che guardava a destra ed uno a sinistra, era magro, sdentato e tutt’altro che profumato. Ma, nonostante tutto, era adorabile ed un gran simpaticone.
– Non saprei amico – dissi stando al gioco – secondo me potrebbe essere il turno di entrambi. Un’adozione di coppia per la ferraglia rombante e il collezionista di pulci!
Pulcione rise con il suo latrato inconfondibile, rauco e
sommesso. – Ah ah ah! – ridacchiò – rombante lo sei di certo, soprattutto quando mangi le crocchette agli spinaci! Potrebbe diventare un nuovo mezzo di trasporto, la ferraglia canina a gas!
Arrossii abbassando il muso, ma non mi offesi: conoscevo bene ormai lo spirito di Pulcione e sapevo quanto il suo divertimento preferito fosse prendere in giro chiunque gli capitasse a tiro, ma con il solo scopo di fare una risata in compagnia. Inoltre, ero ben al corrente della verità: le crocchette agli spinaci mi davano seriamente qualche problemino intestinale!
Giungemmo nello sgambatoio, un luogo recintato dove potevamo correre a perdifiato per circa mezz’ora. I miei compari si catapultarono sul prato, rotolandosi e mangiando erba a volontà, mentre io cercai l’ombra di una pianta e mi acquattai tranquillo e pensieroso.
-Dai Zoppo, non fare il melodrammatico. Vieni a farti una corsetta, fa bene alle ossa! – mi rammentò Orbo.
– No grazie – risposi – la passeggiata mi ha stancato molto. Preferisco riposare un po’.
Orbo decise di non perdere altro tempo prezioso dietro ai miei capricci e corse a recuperare la pallina lanciata dall’umana addetta alle passeggiate, Eloisa.
Fu allora che la vidi per la prima volta.
In lontananza, spinta da un umano con i capelli color del sole, una bambina su un carrellino stava venendo verso di noi. Era un marchingegno molto diverso dal mio, perché gli umani camminano solitamente su due zampe. E per qualche motivo a me sconosciuto, quelle della bambina avevano smesso di funzionare.
Esattamente come le mie (…)
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