Prologo
Lasciati andare.
Affidati alla Vita, lei già sa.
È pronta a farti cadere tra le sue braccia, sta solo aspettando che tu accolga la sua sfida: lanciarti nel vuoto, senza guardare, percependo il buio, lasciandoti cadere, senza opporre resistenza.
Le resistenze sono frutto di costruzioni mentali, di concetti, di paure e limiti. Per paura di precipitare, guardiamo il burrone, senza sapere se dall’altra parte ci sia un mare ad aspettarci. Certo, l’impatto potrebbe essere forte, ma così è la vita! Uno schiaffo preso di petto, una corrente che trascina, onde che travolgono. Ma se ti lasci cullare, galleggiando, senza nuotare controcorrente, tutto sarà più facile.
Lascia fare. Lascia che sia. Osserva il mondo, guarda il cielo, perditi. Fai che esso sia il punto d’arrivo della tua caduta libera al contrario: anch’esso si specchia nel mare, che gli ricorda ogni giorno che l’immensità e la profondità non sono mai abbastanza, anche lui ha le sue tempeste, ma poi torna a splendere il sole. E quel raggio è lì per te, per sanarti, per amarti, per ricordarti che è il calore a tenerci vivi.
Quel raggio di luce è la meta. Attraversalo, fa’ che ti inondi di gioia, pace, bellezza, gratitudine. Abbandonati alle sue cure, abbandonati al flusso. E quando senti che è arrivata l’ora, radicati. Metti le tue radici. Diventa albero. Non un albero qualunque, ma parte dell’Albero della Vita.
Non ti fermare. Continua a crescere, per avere una visuale più ampia dall’alto, e a espanderti nelle viscere della Terra, per scavare nelle profondità più nascoste.
Così in alto, così in basso. Terra e Cielo. Sii il ponte che li collega.
Per farlo puoi sempre servirti di me. Ma lasciami dire una cosa: non prendere queste parole come una verità assoluta. Questo non è un insegnamento da seguire, né una dottrina da accettare. È solo un racconto, un intreccio di concetti, immagini e simboli che scorrono come un flusso. Non sei qui per credere, ma per esplorare, per sentire e, forse, per interpretare tutto a modo tuo.
Prendi ciò che risuona, lascia andare il resto. E se qualcosa ti sembra troppo astratto o complesso, va bene così. Forse il senso non sta nel capirlo subito, ma nel lasciarlo sedimentare.
Questo è un viaggio, il tuo viaggio. Io sono qui solo per accompagnarti, per raccontarti una storia. Non per darti risposte ma per aprire porte.
Forse non ti sei accorto di quelle volte in cui mi sono manifestata: se solo avessi ascoltato meglio, in quel soffio leggero, in quel riflesso luccicante, in quell’ape ronzante o nelle fiamme di quel fuoco, mi avresti sentita o addirittura vista. La mia forma si plasma a piacimento, sono donna e sono uomo, sono pianta e animale, sono nell’aria, sono acqua e terra.
Lo so, posso essere fastidiosa e scomoda, molto meglio ignorarmi, ma quando le lancette riprendono il loro ticchettio non puoi fingere a lungo, non puoi spegnerla: la sveglia suona così forte che coprire le orecchie con il cuscino non basta più. E così irrompo nella tua vita.
Sono l’informazione senza fine, un otto sdraiato, un cielo di eventi ripetuti, lezioni apprese e appese, ancora da imparare, un magazzino pieno e vuoto al tempo stesso. Sono quel karma risolto e irrisolto, che ancora abbonda. Sono coscienza nel mare dell’incoscienza.
La mia è anche la tua voce, che echeggia nei sogni migliori e ti guida in quelli più impervi. Nel momento esatto in cui hai scelto ogni cosa, hai deciso se e dove incontrami.
Sono Alaya, archivio infinito. In me risiedono i tuoi ricordi e quelli del mondo, ogni frammento di luce e ombra che hai incontrato e incontrerai. Sono il tuo viaggio e la tua meta, il sentiero che tracci e il destino che temi.
Ogni tua scelta è un seme nel mio immenso giardino. Alcuni germoglieranno nella luce, altri nell’ombra, ma tutti torneranno a te, in un ciclo eterno di raccolta e semina. Non temere il vuoto, poiché nel cadere non perdi ma ritrovi. Lanciati e scoprirai che l’oblio è solo un’illusione: sotto di te, c’è la vita.
Ora scegli, creatura della Terra e del Cielo, scegli se seguire la mia voce o opporre resistenza.
Qualunque sia la tua strada, io sarò lì a osservare, ad aspettare, perché in fondo siamo UNO: tu, me, e tutto ciò che è.
Continua a leggere
Parte prima
Sospesa
“Questa vita è l’eco di un’altra”
Non ricordavo di aver vissuto davvero, eppure ogni cosa sembrava essere già accaduta.
Fluttuavo, senza peso, immersa in un silenzio liquido, quando, voltandomi, vidi che le mura antiche a ridosso del mare, che fungevano da scogliera, stavano scomparendo dietro di me, inghiottite dal tonfo nelle acque torbide e gelide al chiarore di luna.
Era come se anche una parte di me stesse svanendo insieme a quelle mura, lasciando il passato alle spalle.
Il fragore del crollo si disperdeva nel mare e io restavo lì a cercare risposte che sfuggivano, una dopo l’altra. Le avrei trovate. O almeno, così credevo.
Colpa di quella guerra che portò via tutto: la mia casa, la mia Parigi e i suoi vicoli. L’odore delle baguette e i croissant appena sfornati alla boulangerie erano solo un ricordo che sembrava ormai troppo lontano. E il mio stomaco ne presentava il conto.
In collina era tutto diverso, lo era dappertutto oramai. L’azzurro del cielo era l’unico colore rimasto.
Il freddo avanzava, ma il viavai della gente sarebbe stato capace di rendere apprezzabile perfino quel gelo, specialmente nei giorni di dicembre quando il Natale donava un’aria magica.
Ma quel casale spoglio, fatto di pietra, sarebbe stato la tomba in cui presto sarei morta. La vita, ahimè, è capace di farti grandi doni per poi riprenderseli e privarti di tutto senza avvertirti.
Quella notte la sua voce, una volta dolce rifugio, mi trafisse come un grido. «Mél, sveglia! Bijou… è arrivato il momento, dobbiamo andare!»
Era sempre stato calmo anche nei momenti peggiori, Andrè, mio marito, l’uomo più nobile che avessi mai incontrato. Aveva sempre lottato per le giuste cause, difendere la patria e gli ideali era la sua ragione di vita e fu, probabilmente, la sua ragione di morte.
La guerra, però, lo aveva ridotto a pezzi ancora prima di iniziare, quando non ebbe la possibilità di scegliere tra noi e il mondo.
All’epoca, a ventun anni, si era troppo giovani per affrontare una vita “normale”, ma abbastanza maturi per accogliere una nuova vita e così ci sposammo mentre eravamo in attesa del nostro piccolo Mathis. Il calendario segnava la fine del 1913.
Quello tra me e Andrè fu un amore di altri tempi ma le nostre menti erano proiettate in avanti. Credo che se la vita non ci avesse presentato il conto troppo presto, avremmo potuto vedere molto, viaggiare, magari. Eravamo felici, innamorati e folli.
Ci conoscemmo una sera a Parigi in un cafè-chantant lungo la Senna. Correva l’anno 1911.
Andrè era in compagnia dei suoi commilitoni dell’esercito e io mi stavo esibendo, ballando in vesti discinte sul palco.
Il cabaret in quel periodo era sia un modo per esprimermi sia un mezzo di sostentamento. Non ricordo di preciso se lo avessi scelto, ma per me rappresentava un modo dignitoso di vivere facendo spettacolo. Venivo pagata bene e, d’altronde, non avendo un padre e una madre, ero sola al mondo e dovevo arrangiarmi.
Lui era silenzioso e attento, rispetto agli altri che erano lì per passare una serata di divertimento come tante tra colleghi. L’alcol li rendeva così facili da adescare… Se il proibizionismo fosse arrivato qui un po’ prima, li avrebbe salvati.
Ma Andrè non batteva ciglio, voleva assistere allo spettacolo. Niente fischi, niente risate. Mi fissava come se non avesse mai visto nulla di simile al mondo.
Terminata la mia esibizione, raggiunsi il padrone del locale al bancone del bar. Quell’uomo era un viscido di prima categoria ma mi pagava con puntualità. Io, comunque, cercavo sempre di limitare il tempo in sua compagnia per evitare le sue avances, ma quella sera aveva alzato il gomito pure lui. «Bonsoir, Mélissa, questa sera sei uno schianto. La tua paga sarebbe più alta se solo tu fossi un po’ più disponibile… Anzi, ti dirò, quel gruppetto giù in fondo sembra proprio non si sia divertito çe soir, quindi la paga te la scordi, a meno che…» La sua richiesta, seppur implicita era chiara, e disgustosa.
Andrè in quel momento si trovava dietro di noi. Si sedette su uno degli alti sgabelli davanti al bancone. «La signora è stata impeccabile stasera, come tutte le altre. I miei amici si sono divertiti molto, le do la mia parola di ufficiale. Ora è pregato di lasciarla in pace.» Lasciò sul bancone dei soldi, non so quanti fossero, ma erano a sufficienza per dar tempo al proprietario di trovare una sostituta.
«Signore, nessuno ha detto che io voglia andare via. I clienti pagano profumatamente per i miei spettacoli e io ho bisogno di questi soldi» ribattei stizzita.
«Signora, o dovrei dire signorina, le ricordo che sta parlando con un Ufficiale dell’esercito. Mi dica, quanto è regolare la sua presenza qui? Prima che finisca nei guai, mi segua.»
Non so cosa pensai in quel momento ma lo seguii senza fiatare.
Ero tanto infastidita dalla sua intromissione quanto grata che mi avesse sottratta dalle grinfie di quel balordo, anche se probabilmente ero rimasta senza lavoro e mi rimanevano ancora pochi risparmi.
«Saprà trovare di meglio, signorina?»
«Mi chiami Mélissa, signore.»
«E lei può chiamarmi Andrè. Non volevo spaventarla prima non era una minaccia la mia. Credo che lei sia abbastanza giovane e sicuramente in grado di trovare di meglio. È una ballerina eccezionale, lo sarebbe anche con i vestiti indosso. Mi permetta di dirle che è bellissima e che vale molto di più di quel trattamento.»
Fu così che iniziò il corteggiamento di quell’uomo meraviglioso.
I suoi occhi erano talmente profondi che ci si poteva affogare dentro ma allo stesso tempo brillavano di una luce travolgente. La carnagione era scura come i capelli, ricci. Il sorriso era sincero, bello e le spalle, ampie, erano un porto sicuro in cui trovare conforto e riparo.
Andrè mi salvò più di una volta. Mi procurò un impiego presso una compagnia teatrale in modo da permettermi di continuare a esercitare l’arte che amavo ma in un luogo in cui ero più tutelata. La paga, però, era molto più bassa di quella che percepivo al locale e, pertanto, dovetti lasciare il mio appartamento e senza alcun ripensamento nel giro di poco mi trovai sotto lo stesso tetto con lui, proprio lì a Notre Dame.
Fu il nostro nido d’amore per tre intensi anni, ma i tempi erano quelli che erano e l’aria che tirava non lasciava presagire nulla di buono.
La seconda volta che mi salvò, mi portò proprio qui, su una collina isolata nel nord est della Svizzera. Mi disse che era territorio neutrale e che potevamo nasconderci lì mentre la Grande guerra imperversava. Anni prima, infatti, aveva ereditato un casale molto antico dal bisnonno che divenne il nostro rifugio. Stava salvando me e nostro figlio.
Il giorno che ci portò qui non lo scorderò mai. Prima di lasciarci, mi rassicurò dicendo che sarebbe tornato da noi, ma fu la bugia più grande che mi disse in tutti quegli anni di amore. Ne passarono pesantemente altri due in attesa di sue notizie.
Era un aviatore e volava in alto, in ogni senso. Ogni mattina, dopo il suo addio, guardavo il sole farsi strada nel cielo, cercando di indovinare il momento in cui lo avrei riabbracciato. La mia finestra, crepata e stretta, incorniciava un vuoto che non si riempiva mai.
Quando non avvertii più gli aerei militari sfrecciare sopra la mia testa, credetti che la guerra fosse finita. Ma lui non tornò.
Anche Mathis mi aveva lasciata alcuni mesi prima. La legna si consumava troppo in fretta, costringendoci sempre più spesso a stringerci per superare le notti gelide e il silenzio. Ma non bastò. Quando anche lui se ne andò per sempre, il tempo si spezzò e io rimasi sospesa tra il cielo plumbeo e la terra gelida, che mi divorava lentamente, portando con sé il mio dolore.
Sentivo che il cuore non avrebbe retto a un’altra notte. Avevo tanto sonno. Mi rannicchiai vicino quella poca legna rimasta per farmi calore. Tremavo, tremavo tanto. Poi il silenzio e il buio.
«Mél, mia stella, mio amore. Non ho smesso mai un giorno di pensarti. Io sono qui, sono con te e Mathis ora è con me. Ti prego, almeno tu lotta per noi. Ora che tutto è finito, riprendi in mano la tua vita e non mollare.»
«Presto, fate presto!»
Non capivo da dove provenivano quelle voci confuse e ovattate, né di chi fossero. Mi sentivo come in una gabbia, impossibilitata a muovermi. Continuavo ad avvertire il freddo, non riuscivo a mettere a fuoco, a distinguere le voci risonanti.
Quella di Andrè, invece, era limpida, continuava a dirmi di non mollare e di vivere.
Poi c’era una voce femminile, materna, che mi coccolava. «Io sono te» diceva. Mi infondeva serenità e, nel profondo, sapevo che non mi avrebbe abbandonata.
Il grammofono suonava un charleston e nel salotto anni Trenta tre cani mi tenevano compagnia.
Quella diavoleria tecnologica era capace di riprodurre una melodia mediante le vibrazioni trasformate in segnali elettrici, tutto per mezzo di una punta di chissà quale diamante di poco conto.
Un ticchettio. Un pendolo a cucù rintoccò l’ora e la porta finestra si aprì.
Intorno a me, tanto verde. L’aria, sapeva di pulito, la Svizzera non era lontana. Dove mi trovavo? Dove abbia trovato le forze restava un mistero ma ero lì, in cammino.
Il clima era molto più mite, il paesaggio collinare piacevole, ma nulla da invidiare al posto che mi aveva ospitata per molto tempo…
Mi sentivo pesante e stanca. Nei dintorni non c’era nulla se non sentieri.
Il paesaggio sembrava distorto e pure il mio corpo era diverso.
In lontananza, sulla destra, una struttura si ergeva, enorme. Ricordava un campanile, una grande chiesa. Guardando più distante un’altra struttura dava l’aria di arrampicarsi su un monte.
Un déjà-vu, ma certo!
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.