Capitolo 2
Mi accascio a terra e l’inquilino del terzo piano fa lo stesso. Sono passati tredici minuti da quando siamo rimasti chiusi in ascensore. La luce al neon inizia a pizzicarmi gli occhi e il ronzio proveniente dalla tromba delle scale mi ovatta i pensieri. Geremia, così si è presentato, chiude la telefonata e dice: «In un’ora dovremmo essere fuori, stanno arrivando».
Mi ripeto mentalmente: Farai in tempo, quando Geremia domanda se ho fretta. Ho il dubbio di aver parlato, anziché pensato.
«Devo prendere un treno per giù» dico.
«Ci riuscirai» mi incoraggia.
Non so da dove nasca questa convinzione, penso, poi rispondo soltanto: «Sì».
«Viaggio di piacere?» chiede.
Mi rassegno al fatto che dovremo parlare per soffocare i rumori bianchi attorno a noi e rispondo: «No, un funerale».
Geremia si gratta la guancia barbuta e pronuncia: «Mi dispiace». Poi, con un tono di voce più basso di quello usato fino a quel momento, aggiunge che è toccato anche a lui, qualche giorno prima.
Appoggio la nuca alla parete metallica dell’ascensore e specifico: «Mia nonna». Come se la morte di una persona anziana, che ormai la vita l’ha goduta tutta, sia una valida ragione per soffrire meno.
Lui annuisce, corruga la fronte e assottiglia gli occhi tanto da non permettermi di capire se siano aperti o meno, poi ribatte: «Era un uomo singolare, molto più grande di me».
Lo guardo a dire: Hai capito cosa ti ho detto, mia nonna è morta. Presumo di essere poco espressiva perché prosegue.
«Amava camminare. Si era abituato al fatto che io camminassi con lui, ma era impensabile stare al suo passo. Non aveva una meta, perché la meta era il camminare stesso, sosteneva. Facevo fatica a capire cosa intendesse, ma continuavo a camminare. Dopo alcune ore diceva che poteva bastare, a quel punto bastava anche per me. “Proviamo a camminare per andare da qualche parte” gli avevo detto una volta. Mi aveva risposto che per quello esistevano le automobili. Le automobili erano un mezzo di trasporto fisico, camminare un mezzo di trasporto emotivo. Avevo annuito, quasi fosse un’ovvietà.»
Immagino il treno partire e arrivare a destinazione senza di me. “Sei fatta così male” direbbe mamma. “Me l’aspettavo” direbbe zia Anna. Nonna non potrebbe dire nulla.
Geremia aspetta un riscontro da parte mia. Vorrei tapparmi le orecchie, invece rispondo: «Che tipo». Lui annuisce, gli occhi ancora socchiusi e riprende a parlare.
«Si considerava una persona semplice. “Per me è sufficiente avere questo” diceva. Nel dirlo si toccava la tempia con il dito indice. Intendeva il cervello. Ne avevo dedotto che lui lo avesse. Ho iniziato a chiedermi se anche io lo avessi. Lui non ne ha mai fatto menzione. Una volta, sul lago, ha preso un sasso e l’ha lanciato, prima di affondare ha fatto cinque salti sulla superficie, sfiorandola appena. Ho provato a fare lo stesso. Il sasso è andato a fondo. “Non capisco,” ho detto “era piatto”. Lui ha alzato gli occhi al cielo. Voleva dire: “Quante cose ancora non conosci”.»
Non basta che un sasso sia piatto per far sì che accarezzi l’acqua, spiega l’amico nel racconto di Geremia.
Mi tocco di riflesso la tempia con il dito indice. Aggiungo il medio e sento il sangue pulsare, provo a contare i battiti come quando a scuola, nell’ora di educazione fisica, il professor Moresi diceva: “Ora state in silenzio, prendetevi il polso e ditemi quante volte vi batte il cuore in un minuto”.
Non ci riesco, penso, il flusso di parole di Geremia fa più rumore del flusso sanguigno.
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