Il treno annuncia l’arrivo al capolinea. La voce metallica sveglia di soprassalto lo spilungone di fronte a me. Beato lui, penso mentre si ridesta da un sonno profondo, di almeno cinque ore. Si stropiccia gli occhi e mi chiede Siamo arrivati. Dico sì, con un ritardo di un’ora. Annuisce stordito, poi mi domanda se ha russato. Volto la testa a destra e sinistra a dire No, ma la risposta più onesta sarebbe Sì, fino a un attimo fa.
Mi alzo infreddolita. Le persone sul vagone, una ventina conto rapida, si accalcano verso l’uscita. Vittoria e il padre si dileguano in fretta. Sentire il nome della bimba con il nasino a patata, durante la notte, mi ha suscitato un moto di delusione. Avevo l’impulso di alzarmi e dire Olivia sarebbe stato più adatto.
Nonostante sia presto l’aria è calda e il contrasto con quella del treno mi provoca un brivido lungo tutto il corpo. Mi dirigo verso l’uscita della stazione e controllo se Qualcuno mi ha scritto, se mi aspetta fuori. Nessuna chiamata, nessun messaggio. Chiamo mia madre, il telefono squilla a vuoto, riaggancio.
In strada regna il caos, un ingorgo di autobus, macchine e motorini. Il suono di un singolo clacson dà il via a quello che sembra essere un concerto organizzato.
Mi domando cosa dovrei provare a essere qui dopo tanto tempo. Dovrei sprizzare gioia, nonostante l’occasione che mi ha portato a casa, ipotizzo.
Mia madre mi chiama. Mamma sono qui, rispondo ed evito i convenevoli.
–Vai a farti un giro, nessuno può venire a prenderti adesso – mi dà il benvenuto.
– Nessuno chi – chiedo.
– Nessuno. Dobbiamo organizzare le ultime cose per oggi, mancano i fiori – non si giustifica, ma si lamenta – Ti chiamo più tardi.
Qualcuno e Nessuno sono entusiasti del mio ritorno. Guardo a destra, sinistra e di fronte a me. Approfitto dell’ingorgo per zigzagare tra l’accozzaglia di mezzi di trasporto e infilarmi in una delle vie che portano al centro. Cammino per dieci minuti, ringrazio che vi siano poche persone, perlopiù silenziose. Non mi guardano, mentre io osservo ogni passante e prego di non incontrare visi conosciuti.
La mia attenzione cade su un gruppetto di adolescenti. Le ragazze sono sedute su una panchina, i ragazzi stanno in piedi. Tengono tutti tra le mani un quaderno, tranne uno che sfoglia un libro e dice Parlatemi di Eugenio Montale. Gli occhiali da vista lo fanno sembrare più intelligente degli altri. Quando sono di fronte a loro rallento il passo, vorrei prendere posto all’interrogazione e disperarmi per un compito in classe. Mentre li supero e li lascio alle spalle deduco dal loro silenzio che andrà male. Poi recito a memoria Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale. Mi rendo conto che sono passati anni dall’ultima volta che l’ho letta e nel ripetere l’ultimo verso non visualizzo il volto a cui dire Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
Scelgo il tavolino per tre quarti esposto al sole e per un quarto no. Mi siedo all’ombra. Caccio via le briciole, avanzo di un’altra colazione, e mi pulisco le mani sui pantaloni. Una ragazza con l’apparecchio ai denti e l’anello al naso mi chiede Cosa posso portarle. Rimango per un istante in silenzio, come se non ordinassi sempre caffè macchiato e cornetto alla crema. Glieli comunico, la ragazza annuisce e si allontana. La guardo entrare nel bar e andare dietro il bancone.
La immagino a fine turno, sudata e con le caviglie gonfie, tornare a casa, dove l’aspetta il fidanzato. Altrettanto esausto e gonfio e sudato. Sono giovani e anziché studiare hanno preferito convivere e lavorare. L’affitto però è sostanzioso, le bollette sono aumentate e le rate della macchina non si pagano da sole. Lei lo saluta con un Ciao Amore, va in bagno, lava le mani strofinando bene tra un dito e l’altro, il tempo di cantare Tanti Auguri a te per tre volte di fila. Poi torna da lui, si accascia sulla sedia della cucina e gli racconta la giornata. Parla anche di me. È venuta una donna, ha preso un caffè macchiato e un cornetto alla crema, le sue parole. Lui annuisce mentre scalda nel microonde gli avanzi del giorno prima. Cenano in silenzio, ma si tengono la mano.
La ragazza sta per farsi una doccia, momento in cui piangerà perché sfinita, nervosa e con poche mance in tasca, quando si materializza di fronte a me. Mi porge la tazzina con alcuni schizzi di caffè e il cornetto. Poi aggiunge un piccolo bicchiere di acqua frizzante e mi fa l’occhiolino, ringrazio. Le lascerò qualche spicciolo in più, penso, basta che lavandosi, stasera, pianga un po’ meno.
Ho le labbra sporche di crema e mentre cerco di pulirmi come posso una donna seduta nel tavolino di fianco al mio mi porge un fazzoletto. Lo afferro con la punta delle dita, per non insozzare la salvatrice, poi mi giustifico con Io non ne ho, e rimedio al danno in silenzio.
Prima di quel gesto pensavo di essere sola. Mi volto di nuovo a destra, in sua direzione, per osservarla, ma la donna mi guarda con la bocca socchiusa. Mi sembra di vedere delle parole, in stampatello, sulla punta della sua lingua.
– Succede anche a me – dice.
– Una condanna fin dall’infanzia – ironizzo.
– Io sono Ada – prosegue.
Si aspetta che io dica il mio nome ma rispondo solo con un assenso del capo. Prendo la tazzina e bevo un sorso di caffè, fisso l’edicola che ho di fronte.
Sento Ada protesa verso di me, il ventre leggermente gonfio, le braccia abbronzate a coprirlo. L’ho osservata per un attimo, ma si è impressa nella testa. Le zampe di gallina attorno agli occhi, le sopracciglia spelacchiate, la fronte alta e i riccioli secchi.
Aspetto il momento in cui si darà la spinta per parlare, quando la sento dire Anche io ho preso quello che hai preso tu. Non sono sicura che si riferisca alla colazione, così le chiedo Il cornetto alla crema. Lei dice Sì, ma ci tiene a specificare che ha bevuto anche un cappuccino e una spremuta di arance. Non so cosa dire e opto per un Buona. Mando giù l’ultimo goccio di caffè quando Ada dichiara Anni fa, da ragazza, non l’avrei mai fatto. A costo di apparire scimunita domando per la seconda volta Il cornetto alla crema.
– Quando conti le calorie di ogni singolo alimento che ingerisci, l’idea di bere qualcosa che non sia acqua non ti sfiora nemmeno – risponde – A dire il vero sono caduta così in basso da rinunciare anche a quella. Se andavo al mare non bevevo. La pancia si sarebbe potuta gonfiare e non sarei riuscita a sopportarlo – aggiunge.
Il volto di Ada prende le sembianze di mia cugina Celeste.
– Mi svegliavo all’alba per i morsi della fame. Cercavo di sopprimerli con un caffè, poi andavo a camminare fino all’ora di pranzo. Mamma mi chiedeva che avessi fatto, io le dicevo Ero a casa di Carolina. Poi mi mettevo il costume. Osservavo allo specchio il mio corpo, sotto tutte le angolazioni. Mi assicuravo che clavicole e costole fossero in rilievo. Che le cosce non si toccassero. Mi voltavo e contavo le vertebre. Incurvavo la schiena per vederle meglio. Uscivo dal bagno insoddisfatta. Mamma diceva Cosa ti preparo per pranzo. Io rispondevo Mangio qualcosa fuori. Prendevo il telo e andavo sugli scogli. Sugli scogli non stavo comoda, le ossa toccavano la roccia. A quel punto la testa iniziava a girare, così mettevo in bocca una gomma da masticare e pensavo a tutto quello che avrei voluto mangiare. Lo stomaco sembrava placarsi. La sera mi facevo un’insalata scondita con del petto di pollo, ne lasciavo metà. Mi giustificavo con A merenda ho preso il gelato. Quando andavo a dormire mi sdraiavo nel letto e passavo la mano prima sullo sterno, poi sulla pancia. Adoravo sentirla scavata e vuota. Dopo toccava alle ossa del bacino, dovevano essere sporgenti. Dovevo poterle afferrare e sentire sotto le mani. Finita la funzione chiudevo gli occhi e pregavo di addormentarmi –
Mi domando come sostenere la conversazione, sbatto le ciglia per togliere i tratti di Celeste dal suo viso. Lei legge nei miei occhi Prosegui, perché riprende a parlare.
– Mia madre non voleva accorgersi di niente. Voleva che sua figlia fosse bella, sana e felice. Così mi vedeva bella, sana e felice. Finita l’estate è entrata in camera mia e ha sussurrato Dobbiamo parlare –
Ci sono passata anche io, diceva sua madre nel racconto di Ada. Diceva A vent’anni avevo smesso di mangiare. Pensavo che esternare in quel modo ciò che provavo dentro fosse la soluzione. Digiunavo a dire Guardatemi, ho bisogno di aiuto. Ero una ragazza insicura, di quelle che si sentono nel posto sbagliato e sono convinte che un posto giusto non ci sia perché a essere sbagliate sono loro. I dottori mi avevano detto Se continui così morirai. Per la prima volta avevo pensato di fare qualcosa di utile. Avevo sorriso anziché piangere. Mio padre mi aveva guardato con gli occhi di chi è stanco più che disperato. Avevo cercato di consolarlo con Non ti preoccupare, a me va bene così. Mi aveva dato uno schiaffo ed era uscito dallo studio medico. Io non avevo reagito perché non sentivo niente. Ero solo felice di poter morire, aveva raccontato ad Ada, la madre.
Accendo una sigaretta e pronuncio solo Mi dispiace. Le mani della mia interlocutrice sono chiuse in pugni stretti, le nocche sbiancate tagliano le falangi.
– Dopo quelle parole ho pianto. Erano quattrocentosettantotto giorni che non lo facevo. Sono andata da lei e ho detto Mi voglio fare aiutare – racconta Ada –Psicologo e nutrizionista mi hanno affiancato per mesi. In casa erano spariti gli specchi, ma riuscivo a vedermi riflessa nelle finestre e nelle vetrine, nelle auto. Quando i pantaloni hanno iniziato a starmi meno larghi ho smesso di mangiare di nuovo. Per quattro giorni non ho toccato cibo. Mi hanno ricoverato –
Mando fuori il catrame appena aspirato e immagino la vita di Ada. Penso che una sconosciuta a cui fare confidenze sia ciò che le resta. Così la accontento e domando cosa fosse successo in seguito.
– Ero sola in casa, ho aperto la dispensa e ho mangiato. Il giorno dopo è successo di nuovo. E così il successivo. Il vuoto che provavo da anni ora lo riempivo con il cibo. Non volevo che mia madre se ne accorgesse, così andavo al supermercato e compravo biscotti, patatine, cioccolato, pizza e gelato. Alla cassiera dicevo Stasera faccio una festa. Lei annuiva e passava i prodotti sullo scanner. Facevo la strada di casa nella speranza di non incontrare nessuno di conosciuto. Poi mi chiudevo in camera e iniziavo a mangiare senza sosta. Fino a che lo stomaco si riempiva così tanto da farmi male, il cuore iniziava a battere troppo forte e io iniziavo a sudare freddo. Nascondevo gli involucri nell’armadio e mi sdraiavo nel letto, rannicchiata, ad aspettare che il dolore passasse. Mi promettevo che sarebbe stata l’ultima volta. Programmavo una dieta ferrea. Resistevo un giorno, a volte due. Poi bastava un pezzetto di pane in più a pranzo a farmi dire Ormai oggi è andata così, tanto vale che ti fai del male e mangi il possibile, da domani torni in riga. Sono andata avanti in questo modo per quindici mesi. Ogni giorno ero sempre più grassa. Il mattino dopo un’abbuffata il corpo mi doleva, il viso era gonfio e io non riuscivo a guardarmi. Ero, per la seconda volta, il riflesso delle mie azioni –
Ada si zittisce, scioglie i pugni e si appoggia allo schienale della sedia. Mi chiede scusa. Spengo la sigaretta nel posacenere, prendo tempo. Poi dico Ti scuso. Guardo di nuovo l’edicola e mi rimprovero per aver accettato il perdono di un’estranea, per averla liberata da peccati che non ha compiuto, per averle concesso di continuare a vivere dopo quella confessione. Lei pronuncia un debole Grazie, ma le scuse non sono dirette a me.
Estraggo dalla borsa il portafogli e metto da parte due euro in più per la ragazza con l’apparecchio. Fisso le monete e le sostituisco con una banconota da dieci. Non lo faccio per loro, ma per me, voglio essere nel racconto di quella giornata, penso.
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