A mentire? Non ce la faceva più a mentire, ad andare avanti, a fare un sacco di cose. Ammutolito, avevo ascoltato la confessione. Una semplice confessione.
Qualche sospiro, niente pianti né grida né scene forti. Non era il caso, si vive in un mondo opportuno ed educato, bisogna essere opportuni ed educati.
L’avevo guardata riempire il trolley, e come un bambino imbronciato mi ero impalato a fissare un film mentre usciva di casa, fingendo indifferenza mentre mi salutava sollevata.
Cecilia, un caro saluto.
E gli amici che sapevano, che immaginavano e che non mi avevano detto niente perché pensavano lo sapessi anch’io e perché ci sono situazioni di cui è meglio non parlare. Un caro ringraziamento anche a loro.
«Però anche tu stai a guardare il culo a tutte… pensavi che loro sono immuni? Però una cosa, una cosa va detta… a lei piacciono proprio quelli, quelli tipo te. L’hai visto lui? Tuo fratello, sputato. Che poi, tanti soldi… ma deve essere un coglione.»
Gli amici che credono che sia facile, che non te ne freghi nulla e che, anzi, ti sia liberato da un impegno inutile.
Gli amici, che dal pulpito mi davano ragione, dicevano che ero fortunato. Poi scolavano il bicchiere e mi salutavano, via veloci verso casa ad abbracciare i bambini.
Anche il mio socio, lui le risposte le aveva tutte in tasca.
«Dai retta a me, ché tanto avevi già investito. Pensa ad Ambra… che te ne frega di Cecilia? Vai, scopatele tutte e basta relazioni. Dai retta a me.»
La vedevo in tutti gli angoli del mio appartamento, col suo sorriso e la pelle morbida e bianca. Troppo bella, forse era quello il problema. Il mio problema. Eppure mi aveva cercato lei quella volta, mi aveva abbordato lei.
A me piaceva Cecilia, mi piaceva stare con lei.
Avevo rimuginato per mesi sui ricordi, su tutte le cose che avevamo fatto insieme. Sui suoi pianti sommessi dopo aver perso il fratello, sulle sue carezze mentre mi ascoltava piangere dopo la morte di papà.
Che strano il destino, il destino che matura come la frutta al sole. Che marcisce come la frutta al sole.
La nostra storia, maturata e marcita.
Dopo qualche mese di facce lunghe e di sorrisi storpi, il mio socio mi aveva obbligato a prendermi una vacanza. Diceva che dovevo cambiare aria, che dovevo fare qualcosa di diverso.
Ci pensai, ci ragionai per ore fissando immagini ammiccanti su Internet: non mi interessava nulla del fatto che stesse per cominciare il periodo delle piogge, volevo andare in Sud America, nella natura selvaggia. Amazzonia, Terra del fuoco, Patagonia.
«Dai retta a me, vai in Thailandia… vai lì che ti diverti.»
A me piaceva il Rio delle Amazzoni, avevo letto i libri di esplorazione di Jacques Cousteau.
«Dai retta a me, un single in Thailandia… dai retta a me che sei un re.»
Alla fine ero andato in Thailandia, perché il mio socio ci sapeva fare con i viaggi e le prenotazioni, anche se in Thailandia non c’era mai andato.
Ci sapeva fare anche come venditore, nella nostra agenzia era lui il cavallo di razza. Da me venivano i proprietari, da lui gli acquirenti. Io gestivo gli immobili, la burocrazia, e lui vendeva e vendeva.
L’avevo pagato io il mio viaggio, e lui me l’aveva venduto. Era un buon amico, un buon socio: lo avevo visto sollevato e felice nel vedermi partire. Mi aveva accompagnato all’aeroporto, la faccia sorridente e fiduciosa.
Aerei e cambi, attese, e alla fine ero arrivato. Un paradiso, avevano detto, ma il tempo era grigio e il mare un po’ mosso.
In ogni caso, con il jet-lag mi ero fatto una dormita di dodici ore, e poi via pronto a godermi il mare cristallino e i massaggi in spiaggia all’ombra degli alberi. Il tempo di capirmi, di decidere quali escursioni fare, ed era successo.
Quella mattina, quando era cominciata, ero in spiaggia a godermi il sole.
Steso sulla sdraio in legno dell’albergo, con asciugamano bianco fornito dal personale mimetizzato tra i gabbiotti e gli alberi, fissavo il mare appiattito.
Lo guardavo e mi guardavo le gambe, la pancia. Bianco e candido, un po’ invecchiato rispetto all’estate appena trascorsa. Possibile? Possibile che Cecilia si fosse portata via anche un po’ della mia giovinezza?
Il rotolino di pancia non era così grosso, ma c’era. Niente addominali e niente ventre piatto. Niente muscoli né vene vascolarizzate. Lui le aveva, le avevo viste sulla sua pagina, su quei maledetti social.
Lì, in un posto paradisiaco, anche se col cielo a tratti coperto, presi in mano il telefono per sbirciare la pagina di quel bastardo truffatore e ladro di donne. Poi da lui passai a Cecilia, che risoluta non aveva ancora postato nulla di diverso dalle serate che stava facendo in giro per il mondo con il rampollo. Talmente risoluta che le faceva schifo quell’ormeggio in barca a vela a mangiare pesce crudo con lui accanto, a lume di candela. Bicchieri colmi e mare sullo sfondo.
In quel lacerante indagare non mi ero accorto del mondo che mi circondava, dell’Epifania o del Capodanno o del Natale che stavano piombando sulla Terra. Quindi, formalmente, il momento più importante della storia dell’umanità me lo ero perso.
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