Stavo attraversando un periodaccio, uno dei tanti periodi infausti della mia vita. Quarantacinque anni appena compiuti, un regalo me lo dovevo pur concedere.
Cecilia non aveva avuto nemmeno la decenza di aspettare il mio compleanno per mollarmi, per confessare senza che le avessi chiesto alcuna confessione.
Può capitare che la tua compagna se ne vada con un altro, chi dice di no? E infatti Cecilia se n’era andata con questo tizio pieno di soldi, pieno di macchine e di orologi, di vestiti. Pieno di abbronzatura e di addominali. Pieno di tutto ciò che avevo sempre voluto e avevo ottenuto in misera e ignobile parte.
Ero come quel tizio con cui se n’era andata, ero la sua brutta copia povera. Eppure, per qualche motivo continuavo a sentirmi migliore di lui.
Ero più intelligente, mi dicevo di essere più intelligente.
Intanto Cecilia si era infilata sotto le sue coperte, sicuramente di lino pulite e fresche, e lui si era infilato tra le sue cosce. Quelle le conoscevo.
All’alba dei quarantacinque, dopo tre anni di relazione idilliaca, Cecilia a cena mi aveva detto che non ce la faceva più.
«Non ce la faccio più.»
A mentire? Non ce la faceva più a mentire, ad andare avanti, a fare un sacco di cose. Ammutolito, avevo ascoltato la confessione. Una semplice confessione.
Qualche sospiro, niente pianti né grida né scene forti. Non era il caso, si vive in un mondo opportuno ed educato, bisogna essere opportuni ed educati.
L’avevo guardata riempire il trolley, e come un bambino imbronciato mi ero impalato a fissare un film mentre usciva di casa, fingendo indifferenza mentre mi salutava sollevata.
Cecilia, un caro saluto.
E gli amici che sapevano, che immaginavano e che non mi avevano detto niente perché pensavano sapessi e perché ci sono situazioni di cui è meglio non parlare. Un caro ringraziamento anche a loro.
«Però anche tu stai a guardare il culo a tutte… pensavi che loro sono immuni? Però una cosa, una cosa va detta… a lei piacciono proprio quelli, quelli tipo te. L’hai visto lui? Tuo fratello, sputato. Che poi, tanti soldi… ma deve essere un coglione.»
Gli amici che credono che sia facile, che non te ne freghi nulla e che anzi, ti sia liberato da un impegno inutile.
Gli amici che dal pulpito mi davano ragione, dicevano che ero fortunato. Poi scolavano il bicchiere e mi salutavano, via veloci verso casa ad abbracciare i bambini.
Anche il mio socio, lui le risposte le aveva tutte in tasca.
«Dai retta a me, che tanto avevi già investito. Pensa ad Ambra… che te ne frega di Cecilia? Vai, scopatele tutte… e basta relazioni. Dai retta a me…»
La vedevo in tutti gli angoli del mio appartamento, col suo sorriso e la pelle morbida e bianca.
Troppo bella, forse era quello il problema. Il mio problema. Eppure mi aveva cercato lei quella volta, mi aveva abbordato lei.
A me piaceva Cecilia, mi piaceva stare con lei.
Avevo rimuginato per mesi sui ricordi, su tutte le cose che avevamo fatto insieme. Sui suoi pianti sommessi dopo aver perso il fratello, sulle sue carezze mentre mi aveva ascoltato piangere dopo la morte di papà.
Che strano il destino, il destino che matura come la frutta al sole. Che marcisce come la frutta al sole.
La nostra storia, maturata e marcita.
Dopo qualche mese di facce lunghe, di sorrisi storpi, il mio socio mi aveva obbligato a prendermi una vacanza. Diceva che dovevo cambiare aria, che dovevo fare qualcosa di diverso.
Ci pensai, ci ragionai per ore fissando immagini ammiccanti su internet: non mi interessava nulla del fatto che stesse per cominciare il periodo delle piogge, volevo andare in Sud America, nella natura selvaggia. Amazzonia, Terra del fuoco, Patagonia.
«Dai retta a me, vai in Thailandia… vai lì che ti diverti…»
A me piaceva il Rio delle Amazzoni, avevo letto i libri di esplorazione di Jaques Costeau.
«Dai retta a me, un single in Thailandia… dai retta a me che sei un re.»
Alla fine ero andato in Thailandia, perché il mio socio ci sapeva fare con i viaggi e le prenotazioni, anche se in Thailandia non c’era mai andato.
Ci sapeva fare anche come venditore, nella nostra agenzia era lui il cavallo di razza. Da me venivano i proprietari, da lui gli acquirenti. Io gestivo gli immobili, la burocrazia, e lui vendeva e vendeva.
L’avevo pagato io il mio viaggio, e lui me l’aveva venduto. Era un buon amico, un buon socio: lo avevo visto sollevato e felice nel vedermi partire. Mi aveva accompagnato all’aeroporto, la faccia sorridente e fiduciosa.
Aerei e cambi, attese, e alla fine ero arrivato. Un paradiso, avevano detto, ma il tempo era grigio e il mare un po’ mosso.
In ogni caso, con il jet-lag mi ero fatto una dormita di dodici ore, e poi via pronto a godermi il mare cristallino e i massaggi in spiaggia all’ombra degli alberi. Il tempo di capirmi, di decidere quali escursioni fare, ed era successo.
Quella mattina, quando era cominciata, ero in spiaggia a godermi il sole.
Steso sullo sdraio in legno dell’albergo, con asciugamano bianco fornito dal personale mimetizzato tra i gabbiotti e gli alberi, fissavo il mare appiattito.
Lo guardavo e mi guardavo le gambe, la pancia. Bianco e candido, un po’ invecchiato rispetto all’estate appena trascorsa.
Possibile?
Possibile che Cecilia si fosse portata via anche un po’ della mia giovinezza?
Il rotolino di pancia non era così grosso, ma c’era. Niente addominali e niente ventre piatto. Niente muscoli né vene vascolarizzate. Lui le aveva, le avevo viste sulla sua pagina, su quei maledetti social.
Lì, in un posto paradisiaco, anche se col cielo a tratti coperto, presi in mano il telefono per sbirciare la pagina di quel bastardo truffatore e ladro di donne. Poi da lui passai a Cecilia, che risoluta non aveva ancora postato nulla di diverso dalle serate che stava facendo in giro per il mondo con il rampollo.
Talmente risoluta che le faceva schifo quell’ormeggio in barca a vela a mangiare pesce crudo con lui accanto, a lume di candela. Bicchieri colmi e mare sullo sfondo.
In quel lacerante indagare non mi ero accorto del mondo che mi circondava, dell’Epifania o del Capodanno o del Natale che stava piombando sulla Terra.
Quindi, formalmente, il momento più importante della storia dell’umanità me lo ero perso.
Stavo cercando il ragazzo che mi aveva portato l’asciugamano, potevo cominciare a bere, visto che era tutto pagato. Mi ero guardato attorno, ma non c’era nemmeno uno dei dipendenti in divisa.
Era normale che la gente corresse, da una parte e dall’altra?
Nel mio roteare implorante la testa, avevo visto un agglomerato di persone a una cinquantina di metri. Gente in costume che correva in quella direzione, altra gente in costume che correva via da lì. Correvano tutti.
Stava succedendo qualcosa, ma non ero sicuro che mi riguardasse, né che mi interessasse. Dopo qualche minuto mi alzai e guardai verso la gente: c’erano dei flash, come quelli delle macchine fotografiche professionali, talmente forti da lampeggiare evidenti anche in pieno giorno.
Da uomo navigato e intelligente, sicuramente più intelligente del nuovo compagno di Cecilia, credetti che fosse arrivata qualche star.
Attori, calciatori, qualcosa di simile. Quello era un paradiso anche per loro.
Navigato e intelligente, eppure la gente che correva in direzione opposta e mi passava davanti non aveva un’espressione molto solare.
Facce angosciate e movenze nervose, movenze affini alla fuga.
In fila, lenti e pensierosi, mi sfilarono a pochi passi una decina di locali: non erano turisti, erano vecchiotti e indossavano tutti delle tuniche chiare, con fiori che le adornavano. La setta dei fiori, qualcosa di simile.
Da quell’istante il caos andò aumentando. Ignaro, sul bagnasciuga, pensai che potesse trattarsi di un nuovo tsunami, schiaffeggiandomi nell’evidente ignoranza e stupidità che mi rendevano ignobile agli occhi di Cecilia.
Uno dei ragazzotti dell’albergo, che mi aveva accolto all’arrivo e conosceva qualche parola di italiano, mi diede un’ottima ed esaustiva spiegazione.
«Signore, meglio che va in camera.»
Evitai di chiedergli da bere.
2
Mi ero ritirato verso la camera, posizionata in un piccolo edificio in mezzo al villaggio. Una matrimoniale con vetrate immense oscurate da tende scure alternate a tende semi-trasparenti. Davanti alle vetrate il giardino.
Bellissime e immense, inutili vetrate sfarzose. Lusso sfrenato con vista sul nulla, sui turisti che passavano arrancando verso le camere, verso i bungalow, verso le strutture in legno piene di cibo e le piscine azzurre.
Arrancavano, di solito arrancavano. In quel momento passavano invece tutti spediti, avanti e indietro a casaccio.
Mentre li guardavo dalle vetrate immense pensai alle formiche. A quando ero piccolo e calpestavo un formicaio, destabilizzando quel micro-mondo per sbaglio o di proposito. Da piccolo, quando rimanevo immobile a guardare quei punti neri impazziti, quei movimenti velocizzati.
Alla rinfusa, come la gente che sfilava davanti alle mie vetrate. Tedeschi, russi, americani. Alla rinfusa come le formiche velocizzate.
Ero in camera, perché osservando la diligenza del buon padre di famiglia avevo fatto come mi era stato consigliato. La gente fuori continuava a migrare da un punto all’altro della struttura, e non ero sicuro che stessero tutti seguendo il mio diligente esempio.
Quando vidi i primi con le valigie mi venne qualche dubbio.
Presi il cellulare, che si era collegato alla wi-fi della camera. Lo sbloccai, poi fissai lo schermo chiedendomi cosa avrei potuto fare.
Cercai di connettermi per guardare le notizie locali, ma la linea era assente. Niente dati, niente internet.
Ero uno stupido. Me l’aveva detto il mio socio di comprare una scheda locale, che le wi-fi degli alberghi erano terrificanti in qualunque parte del pianeta. Me l’aveva detto, ma che me ne facevo di una scheda thailandese? Mica avevo una vita sociale così florida da obbligarmi a una connessione stabile.
Potevo guardare i profili di quei due bastardi innamorati anche con le fiacche connessioni dell’albergo.
Gettai il telefono e accesi la televisione, per la prima volta da quando ero arrivato.
Mezzi canali non andavano, sullo schermo solo neve e pioggia e rumore che grattava le orecchie. Un paio di canali thai, con parole e scritte nemmeno lontanamente comprensibili.
La BBC e la CNN traballavano, ma in ogni caso non capivo una parola nemmeno di inglese, e non avevo nemmeno la velleità di dire che le scritte le capivo. No, forse qualcosina, comunque troppo poco.
Guardai l’orologio ed era mezzogiorno, e facendo due conti rapidi in Italia erano le sei di mattina: chi mi avrebbe risposto alle sei di mattina? Il problema non si poneva, non c’era maniera di prendere la linea.
Provai e riprovai, almeno una decina di volte, ma il telefono non riceveva alcun segnale. Verso l’una ne avevo abbastanza, decisi di andare a mangiare.
C’erano diverse zone dedicate al cibo, e scelsi la più grande. La più fornita.
Un sacco di gente, tutti con le facce severe e tutti di fretta. Formiche operose e velocizzate anche lì, fauci allargate e cibo da incamerare come provviste per il futuro.
Mi avvicinai a uno dei pochi inservienti che erano rimasti, e aveva gli occhi lucidi e rossi. Gli lanciai una domandina facile, sperando invano che parlasse un po’ di italiano.
Da quanto aveva detto il mio socio era un albergo frequentato da italiani, così aveva detto. Ero lì da pochi giorni, ma di italiani non ne avevo visti né sentiti.
Sedetti, poi cominciai a zig-zagare tra i banchi del buffet. C’era meno cibo del solito, ma riuscii comunque a riempire il piatto. Seduto al tavolo fissai la robaccia unta che avevo scelto, non era ancora ora di mettermi in forma. Avrei voluto piazzare anch’io in rete qualche immagine di me in riva al mare, di me con gli addominali tesi verso lo spazio infinito.
Patetico, il mio socio aveva detto che ero patetico.
Quando Cecilia se l’era filata me ne ero stato zitto e immobile, sperando che tornasse indietro e mi dicesse che si era stancata di contorcersi a letto con quell’altro. Poi, alle sue fotografie in costume con le bocce in evidenza, alle sue storie sorridenti, avevo risposto cominciando a piazzare la mia faccia.
Un taglio di capelli più marziale e da ominide. Poi avevo provato il pizzetto, la camminata in montagna e la camminata al mare, la serata con gli amici e il concerto.
Dopo una ventina di foto e di stati e di cazzate, che ovviamente Cecilia non aveva minimamente cagato, il mio socio mi aveva preso a schiaffi.
Moralmente a schiaffi.
«Ma ti sei rincoglionito del tutto? Dammi retta, dai retta… guarda qua! Guarda! Te ne mostro cinquanta di falliti, di fallite come te. Storie finite, gente che viene lasciata… e dal giorno dopo inondano di cazzate i social. Dammi retta, lascia stare… è come una dichiarazione di fallimento. Dammi retta…»
Gli avevo chiesto perché non mi avesse fermato prima, perché non me ne avesse parlato prima. Forse gli era piaciuto vedermi fallire, gli era piaciuta la mia dichiarazione di fallimento?
Aveva risposto che non credeva che cadessi in quel labirinto di sfiga.
Solo in quel momento, incalzato dai suoi colpi, la mia prospettiva era cambiata. Uno specchio che mi mostrava un me diverso, un me invecchiato appesantito e fallace.
Quando ero diventato uno sfigato? Quando?
Perché una cosa era certa: ero diventato uno sfigato.
Alzai la testa dal piatto, masticando gli ultimi rimasugli.
La gente se ne andava svelta, e ripensando a quel sentirmi sfigato mi alzai malinconico. Diedi un occhio al telefono, e la wi-fi sembrava funzionare: il segnale c’era, ma non caricava alcuna pagina.
Ero uno sfigato, e crogiolandomi nell’incapacità di capire quello che stava succedendo decisi di tornarmene in camera. Di dormire un paio d’ore, magari non ci stavo capendo niente perché dovevo ancora superare il jet-lag.
Magari era tutta una distorsione del mio cervello.
Un’ora dopo, forse qualcosina in più, mi alzai. Avevo voglia di caffè, e magari di una sigaretta. Mi mancavano le sigarette.
Papà mi aveva sempre detto di smettere, di darci un taglio con quella robaccia. Poi me l’aveva detto mia moglie, che fumava più di me. Che se smetteva lei dovevo farlo anch’io.
E così avevo smesso di fumare, erano dieci anni che non fumavo.
Mia moglie se n’era andata, o me ne ero andato io, e il divorzio mi era costato una fortuna. Qualche anno dopo anche mio padre se n’era andato, lasciandomi indietro nel bel mezzo della tempesta di quel periodo.
Accesi di nuovo la televisione, e di nuovo non ci capivo niente. La CNN esibiva immagini a ripetizione, con inviati da ogni parte del mondo: non capivo nulla di quel che dicevano, ma le immagini che ruotavano nello schermo mi ricordarono quanto accaduto in spiaggia qualche ora prima.
Flash e gente strana, facce strane e pose rigide.
Mentre fissavo lo schermo vidi un passaggio su Piazza San Pietro, Roma. Il Papa affacciato con le mani alzate, la gente che piangeva e rideva e piangeva sbavando in tutta la piazza.
Più gente del solito, ammassati nella piazza a guardare l’uomo in bianco.
Mi stupii di quella digressione su Piazza San Pietro, visto che i notiziari sembravano solo interessati ai flash di luce.
In Piazza San Pietro piangevano tutti.
Pensai che le due cose fossero collegate, sentendomi ancora più stupido. Il coglione con Cecilia di sicuro parlava un inglese impeccabile, forse anche il francese.
Sospirai, pensando che fosse successo qualcosa di grave anche da noi. Qualcosa di globale.
Gente strana e flash, e i tedeschi che prendevano le valigie e se ne andavano dall’albergo.
Lì, mentre li guardavo oltre i finestroni giganti della mia suite da poveraccio con la televisione impazzita, sentii le prime vampate calde dell’ansia.
Presi il cellulare, a quel punto mi interessava una sola cosa: la cercai nei messaggi, cercai la nostra conversazione.
Ambra.
Scrissi un messaggio di poche parole e lo inviai svelto, poi rimasi immobile a osservare il tentativo di connessione roteare e fallire. Niente spunte, nessuna conferma di invio.
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