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Città di Nanza. La scuola media non esiste

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Una scuola media del Sud Italia, un’aula affollata di ragazzini brufolosi, professori sfiancati e collaboratori scolastici ribattezzati “bidè”. In questo microcosmo tragicomico si muove un’insegnante di sostegno che racconta con ironia e affetto la realtà quotidiana dell’istruzione pubblica.

Tra consigli di classe infiniti, corsi di formazione e strafalcioni indimenticabili, Città di Nanza restituisce tutta la complessità e la bellezza di un mestiere spesso sottovalutato. Ma soprattutto, dà voce agli studenti, con le loro fragilità, le loro battaglie, e quella confusione dolce e feroce che si chiama adolescenza. Un viaggio dentro la scuola che non esiste, ma che ci riguarda tutti.

Il suono della campana

La fiaba più bella è quella che non finisce

Paola era una bambina particolare: era capace di restare in silenzio per ore, scrutandoti con quegli occhi grandi e le folte ciglia che sbatteva ritmicamente con la stessa grazia delle principesse delle fiabe che le venivano narrate; poi, improvvisamente, riprendeva a parlare e non la smetteva più.

Quella dissonanza aveva radici profonde che risalivano alla tenera età quando, raggomitolata sul giaciglio che l’avrebbe protetta per tutta la notte, le palpebre le si abbassavano prepotentemente prima ancora che il papà proferisse il fatidico “the end” delle fiabe che le narrava. La lotta per resistere al richiamo di Morfeo era ogni volta più dura e, con il tempo, in Paola cominciò a insinuarsi il dubbio di essere “diversa” dalle sue coetanee che, al contrario di lei, sognavano principi azzurri e castelli incantati. Iniziò così quella che sua madre definì la “dieta dei silenzi”, seguita da una grande abbuffata di parole, a volte proferite a casaccio. Era un modo, insomma, per richiamare l’attenzione su di sé. Tuttavia ottenne il risultato opposto, vale a dire l’isolamento da parte dei suoi compagni che non riuscivano a perdonarle quella “stranezza”.

Ciononostante, il fatto di non conoscere il destino delle principesse tanto amate per Paola non costituiva un problema, ma quando un giorno portai la classe al cinema a vedere l’ultima versione del film Cenerentola, nel bel mezzo del racconto, finse un malore e mi chiese di rintracciare la madre per farsi venire a prendere, provocando lo sconcerto dei suoi compagni. Per una frazione di secondo, Paola desiderò di tornare indietro negli anni per poter liberare tutte le principesse da finali scontati e approssimativi, ma la verità era che a lei di sapere che fine avesse fatto Cenerentola dopo la fuga claudicante dal castello non importava granché.

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Paola era per tutti la bambina silenziosa che non conosceva la fine delle fiabe e, per questo, degna di occupare l’ultimo posto nella scala gerarchica della sua classe. Tuttavia, quella diversità così mal celata e quasi voluta con il passare del tempo divenne il suo rifugio. Nessuno dei suoi compagni poteva immaginare che quella “non conformità” un giorno l’avrebbe resa più forte nei confronti della vita. Paola non avrebbe mai conosciuto il mal d’amore, non si sarebbe straziata per la fine di una storia, nessuno l’avrebbe ferita. Da grande, quando tutte le sue coetanee avrebbero sognato il principe azzurro, lei sarebbe stata la principessa senza un “the end”, padrona del proprio destino. Avrebbe finito gli studi, preso un master negli Stati Uniti, girato il mondo con lo zaino in spalla, desiderato un uomo, diversi uomini, ma non avrebbe mai amato un principe che non c’era. Cenerentola, per quella bambina dagli occhi grandi e le folte ciglia, che sbatteva con docile grazia, era solo una ragazza che aveva perso una scarpetta e non l’aveva ritrovata più. Conoscere la fine di quelle storie significava lasciare le sue eroine in balia di un destino incerto. Dove sarebbero andate dopo il classico “the end”? Sarebbero davvero state felici così come recitavano le ultime righe? Lo sconforto di non poter conoscere il sequel di quei racconti era infinitamente maggiore dell’idea di non aver mai letto la fine. Per Paola la fiaba più bella era quella che non finisce.

Insegnai nella classe di Paola per poco tempo, fino al ritorno del collega titolare della cattedra che io ricoprii come supplente, tuttavia quello fu il periodo più fruttuoso della mia formazione, in cui misi in pratica ciò che fino ad allora avevo studiato solo sui libri. Quell’esperienza, la prima, fu la palestra in cui imparai a muovere i primi passi tra le aule scolastiche. Inoltre, l’incontro con quella ragazzina fuori dal comune mi rese consapevole del mio ruolo fin da subito e invalidò i miei pregiudizi circa il complicato mondo dell’istruzione. Grazie a Paola mi fu subito chiaro che avrei incontrato enormi difficoltà a vestire l’abito dell’imparzialità, dote necessaria per un’insegnante: Paola era indiscutibilmente la mia allieva preferita e, sebbene mi sforzassi di non cedere a quella debolezza, non potevo fare a meno di volerle bene in modo speciale. A volte le invidiavo la torre dorata in cui si era rinchiusa di sua volontà perché io, al contrario, ero solo una stupida principessa senza regno, persa nel labirinto delle mie sconfinate insicurezze.

Sono trascorsi diversi anni dal giorno in cui accompagnai la classe di Paola a vedere Cenerentola e oggi, che sono un’insegnante di ruolo, il ricordo di quello scricciolo con la coda di cavallo e lo zaino in spalla si fa sempre più sfocato; tuttavia, di tanto in tanto, provo a immaginarla mentre è intenta a tradurre un testo in latino o mentre ascolta, con l’espressione corrucciata, una canzone dei Rolling Stones.

Oggi, che è il primo giorno di scuola dopo un’estate come tante, non posso fare a meno di pensare a lei, mentre sorseggio il primo caffè della giornata appollaiata sullo sgabello della cucina. La mia mente viaggia veloce come un treno senza destinazione e mi ritrovo a sfogliare un altro album di ricordi, quello delle vacanze appena consumate, che scorrono come le scene di un vecchio film: il viaggio in Polonia con Daniele, il mio amico/collega del cuore, gli aperitivi al tramonto in riva al mare, l’eritema solare dopo una gita alla riserva naturale di Vendicari, la sbronza a Ferragosto che mi ha fatto stare male per giorni. Il ticchettio dell’orologio appeso alla parete mi riporta alla realtà mettendo fine a questo viaggio autolesionistico nei ricordi, che ripongo accuratamente dentro un cassettino della mia memoria, ma ne ho già nostalgia. Il sole che splende alto in cielo si diverte a torturarmi, ricordandomi che il periodo di bivacco si è definitivamente concluso. Mi appresto a riprendere familiarità con tutte le piccole quotidianità del lavoratore, accantonate in favore di lunghi sonnellini e improbabili “apericolazioni”.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Simona Zarcone
Nasce a Palermo nel 1975. È insegnante di sostegno e istruttrice di fitness presso un centro sportivo. Ha scritto testi teatrali e racconti brevi. Attualmente fa parte di una compagnia teatrale con la quale ha messo in scena diverse rappresentazioni.
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