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Libri nei momenti difficili. Un esperimento letterario a più mani.

In questi giorni di socialità ridotta per tenere alto l'umore e viva la creatività vi proponiamo un esperimento di scrittura creativa a più mani nato da un’idea (e dalla penna) della nostra autrice Sara Alaimo.

esperimento letterario

In questi giorni di socialità ridotta per tenere alto l’umore e viva la creatività vi proponiamo un esperimento di scrittura creativa a più mani nato da un’idea (e dalla penna) della nostra autrice Sara Alaimo.

Quello che vi chiediamo è di condividere con noi un immaginario dove i libri e la lettura possano aiutare e aiutarci a superare momenti più o meno difficili della nostra vita.

Grazie per aver partecipato! Al momento non è più possibile inviare nuovi estima ci piacerebbe riproporre un’iniziativa simile presto. Buona lettura

 

Cara Ines,
molte volte negli ultimi anni mi hai chiesto cosa accadde in quei giorni di agosto. Le ho contate le volte che me lo hai chiesto, lo sai? Sono ventisette.
Ogni volta che me lo hai chiesto lo ho annotato su un taccuino verde che troverai nel cassetto del comodino di Elena se vorrai cercarlo, è lì insieme ad altre cose che potrebbero aiutarti a mettere insieme tutti i pezzi.
La prima volta me lo chiedesti mentre guardavamo la giostra storica girare, eri appoggiata alla balaustra e fingevi di guardare i bambini sui cavallini, invece guardavi me con la coda dell’occhio.
Forse adesso sono pronto a raccontarti come le cose andarono e in che modo, un giorno dopo l’altro, un libro dopo l’altro, siamo riusciti a lasciarci tutto alle spalle, io e gli altri coinvolti in quei giorni pazzeschi.
Ti dico dei libri perché da lì tutto ha avuto inizio, nella vecchia libreria di corso Francia. Te la ricordi?
Adesso al suo posto c’è un bar dove puoi prendere un cappuccino col ricamo di un fiore o un cuore sulla schiuma, ma prima c’era una libreria che odorava di carta e legno.
Ci ritrovavamo lì per ripararci dalla calura di agosto, leggevamo degli incipit a caso, chiacchieravamo col titolare, Adelmo, quasi tutti i pomeriggi.
Lì conoscemmo Hans.

 

Raffaele Franciò

A quei tempi era un ragazzotto di ventinove anni che aveva scelto di trasferirsi in Italia una settimana dopo averne compiuti diciotto. Il primo passo mosso fuori dalla grande casa a graticcio di Goslar – il piccolo paese della Bassa Sassonia da cui proveniva – aveva segnato l’inizio del suo viaggio. Non uno di quei viaggi che contemplano decine o centinaia di tappe. No, il suo viaggio era durato un tempo pari alla somma degli spostamenti che da Goslar lo avrebbero portato fino a destinazione. Il bus fino a Monaco di Baviera, poi il treno fino a Verona e da lì car-sharing fino al civico 11 di Corso Francia. Lì avrebbe incontrato Filippo, il proprietario del monolocale che aveva scelto per trascorrere questa nuova, e tanto bramata, fase delle sua vita. L’11 di Corso Francia segnava il termine di quel primo viaggio. Quel monolocale, scelto tra migliaia di proposte, era esattamente come Hans l’aveva immaginato, seppur la sola immagine dell’annuncio che risultasse comprensibile era una foto della facciata esterna del palazzo dove si trovava l’unico affaccio del piccolo appartamento. Il balconcino, adornato di vasi colmi di petunie viola chiaro, si trovava appena un metro al di sopra della vetrina d’ingresso della libreria di Adelmo. Su quel balconcino Hans avrebbe trascorso intere giornate a osservare persone sconosciute entrare nel negozio come clienti, per poi uscirne lettori. Di loro avrebbe raccolto le diverse espressioni, conservandole in numerosissimi quaderni di schizzi a matita che realizzava inebriato dal profumo misto di fiori, strada e libri. Tra quegli schizzi c’eravamo anche noi. Ricordi come ci aveva chiamati? Giuseppe e Beatrice. Il giorno del nostro primo incontro catturò la nostra attenzione proprio usando quei nomi. Col suo simpatico accento, chiamò prima te: “Beatritzce” o qualcosa del genere. La sua voce arrivò alle tue orecchie come la freccia scoccata da un abile arciere, e tu ti girasti immediatamente, come se quello fosse davvero il tuo nome. “Beatritzce e Giutseppe, per voi” protese il braccio destro verso di noi, impugnando un foglio arrotolato come un’antica e preziosa pergamena, e tenuto chiuso da un piccolo nastro di raso color lilla. Il ritratto era diviso in due parti, nella prima immagine in alto le nostre espressioni sembravano agitate, ma il tratto in cui la matita aveva dato vita agli occhi era la manifestazione di un sentimento misto di gioia e aspettative. Inoltre, la somiglianza era incredibile, e a ogni nuovo sguardo si poteva scovare la grande cura dei particolari, come il difetto nell’attaccatura della mia barba. La seconda immagine, seppur realizzata con lo stesso ardesia della prima, ingannava lo sguardo, dando la sensazione che tutto intorno al punto osservato fosse invece colorato. Su qualsiasi punto focalizzassimo lo sguardo, la coda dell’occhio ci illudeva che il resto del disegno fosse pieno di colori in continuo mutamento. “Emotzioni” disse, leggendo lo sgomento nei nostri volti. Entrambi ci sentivamo piccoli esserini al cospetto di un mago. Mentre noi restavamo in silenzio, tra uno sguardo ai vivi disegni e uno al loro misterioso creatore, lui fece ancora una volta il primo passo, “Mio nome è Hans, quale vostri fveri nomi?”

Stefania Sabattini

Hans che aveva quel fare così accattivante nella lettura e quella voce così profonda nel declamare, da rendere i tuoi occhi sognanti ogni volta che posavi lo sguardo su di lui. Te lo confesso, un po’ sono stato geloso del modo in cui ti lasciavi conquistare dalle sue parole vorticose, dalle sue pause studiate, da come alzava gli occhi dalle pagine e ti guardava, furtivo, prima di passare all’incipit successivo. So che lo faceva solo per compiacere se stesso nell’atto di recitare, eppure io sentivo che la sua interpretazione delle parole scritte aveva su di te una presa così forte che mi faceva sentire escluso da quei vostri momenti che tu definivi di “pura amicizia letteraria”. Ne ho sofferto, non lo nascondo, e mi placavo solo perché li sapevo per te salvifici, perché mentre lui leggeva io sentivo il tuo respiro da affannato farsi quieto, osservavo le tue mani solitamente nervose darsi pace in un’immobilità sconosciuta, seguivo il profilo del tuo volto, Ines mia adorata, e lo vedevo distendersi, veleggiare su onde narrative incantate e prodigiosamente allontanarsi dal dolore in cui eravamo precipitati io e te. Solo che tu non lo sapevi. Io conoscevo e condividevo ogni anfratto della tua sofferenza, tu della mia non avevi sospetti ed è per questo che non ho mai risposto alle ventisette richieste che mi hai fatto, ma le ho annotate tutte, severamente, una per una, sul taccuino verde che mi hai regalato tu: per non rischiare di dimenticare la mia codardia e per rimarcare a me stesso la mia colpevolezza, nero su bianco, in una gelida sequenza che dal numero 1 arriva al numero 27, come in un pallottoliere spietato che a ogni pallina spostata scava solchi profondi nella mia coscienza di bugiardo.
Quando aprirai il comodino di Elena non sarà difficile per te ricostruire le tappe del baratro in cui mi sono testardamente cacciato con le mie stesse mani. Nel momento in cui le tue dita tremanti e delicate impugneranno il pomello dorato di quel piccolo cassetto, la verità ti sarà rivelata e colpirà i tuoi occhi con luce accecante. Spero che il riverbero non sia così violento da scardinare la tua incrollabile fiducia nel mondo che ti circonda.
Né la tua forza, né la tua purezza.
Troverai carte che ti faranno dubitare non solo della mia onestà – quello sarebbe il meno – ma che faranno crollare il senso delle parole che ami di più: fiducia, lealtà, amicizia. Una sola cosa ti chiedo: non dubitare mai, ti prego, dell’amore che mi lega a te, perché tutto ciò che ho fatto – l’inganno, le operazioni ai confini dell’illecito, le ripetute omissioni – l’ho fatto in nome di ciò che provo per te. Non ti chiedo di giustificarmi, né di perdonarmi. Ti chiedo di accantonare la rabbia, se puoi, e di provare ad accettarmi per quello che sono, un ragazzotto mai cresciuto, un uomo debole che in nome dell’amore ha rischiato di perdere ogni cosa bella della vita.
Non so nemmeno da dove potrei partire, Ines cara, per dipanare il filo intricato con cui ho avviluppato la tua vita racchiudendola nel mondo protetto delle nostre letture.
Da Adelmo e Hans, entrambi complici delle mie trame imbastite, del mio improvvido castello di carta velina miseramente crollato nonostante i miei sforzi di darvi solide fondamenta con la cartapesta luccicante dei ripetuti inganni? O dall’ignara Elena, testimone inconsapevole di indizi e rimandi che non ha mai saputo interpretare e che l’hanno posta di fronte a situazioni difficili che una ragazzina di quell’età non dovrebbe mai vivere? O dalla spiazzante verità, e questo ti colpirà al cuore – lo so – che gli incipit che leggevamo non erano casuali? Che ero io a governarne la sequenza in modo che ti accompagnassero gradatamente nel tuo tortuoso percorso di cure, ambulatori, foulard e parrucche?
Lo capii fin dal primo giorno in cui ti conobbi, quando, fra gli scaffali della biblioteca universitaria, mi leggesti l’incipit de Il mondo di Sofia, che i libri erano le tue scatole magiche in cui ti rifugiavi per vivere vite che non sapevi di avere o che desideravi. Fin da quando eravamo ragazzi adoravi leggere nei momenti in cui eri felice perché ammantavi della tua gioia anche i drammi che leggevi; bramavi poi, nei momenti in cui eri giù di morale, ritagliarti più tempo che potevi per la lettura, perché nel leggere le tribolazioni altrui trovavi risposte ai tuoi interrogativi esistenziali. Sei sempre stata così, Ines del mio cuore, quella che nelle pagine scritte cercava il senso di sé e spesso lo trovava. Io ti osservavo esterrefatto ammirando la tua capacità di farti assorbire da mondi sconosciuti per poi farli tuoi, rielaborandoli nei mille rivoli della sensibilità profonda che è sempre stata parte integrante del tuo essere. A ogni romanzo che leggevi incameravi una consapevolezza in più da aggiungere all’armamentario della tua vita; un bagaglio personale, mi dicevi, che mai nessuno ti avrebbe rubato.
Allora lo capisci, tesoro mio, che l’unica cosa potevo fare per aiutarti ad attraversare la via tortuosa delle tue sfinenti terapie non poteva che ruotare attorno ai libri? Capisci che leggerci vicendevolmente gli incipit di Pasternak, della Allende, di Camilleri, alternati a quelli di Pallavicini, della Holt e di Pennac, seduti sul divanetto della libreria di corso Francia, non poteva seguire una sequenza casuale? Ti rendi conto, mio tesoro, che il percorso narrativo che ho creato solo per te aveva un suo equilibrato alternarsi di gioie e di dolori, di indagini e ironie, di sfavillii e tormenti, solo per darti il tempo di assorbire gradatamente il peso insopportabile della tua malattia?
Quando fra le mani troverai le ricevute dei miei versamenti sul conto corrente di Hans, attore mancato eppur capace, o gli ordini esorbitanti alla libreria ormai fallita di Adelmo per libri mai consegnati o gli assegni scoperti per gli alimenti alla mia ex moglie per il mantenimento di Elena, non pensare che io abbia ordito una truffa. Pensami, piuttosto, come un regista disperato che ha avuto bisogno di passare da Murakami a De Luca, da Màrquez alla Christie, da Tolstoj alla Mazzantini per imbastire una sceneggiatura degna della tua vita interiore. È solo grazie ai milioni di parole da loro vergate su righe malferme se tutti quanti noi siamo usciti indenni da quei giorni pazzeschi.

Elisabetta Ilacqua 

Arrivava da Amsterdam e conosceva poco la nostra lingua, ma era anche lui amante della lettura. Era biondissimo, alto, un po’ dinoccolato, aveva uno splendido sorriso e un atteggiamento giocoso. Facemmo subito amicizia, ti ricordi? Forse ti piaceva anche un po’, ma non me lo hai mai dichiarato. Quell’afoso pomeriggio era intento a leggere un libro e ogni tanto cercava qualcosa sul vocabolario che aveva di fianco, si vedeva che faceva fatica a capire quelle pagine, perché si attorcigliava i capelli intorno alle dita e aveva l’espressione buffa di chi continua a leggere una frase senza capirne il significato. Mi ricordo, Ines, che ti avvicinasti e gli chiedesti se fosse italiano. Lui ti rispose, con una strana parlata che sembrava quasi Paperino, che era olandese ma era già da un anno che viveva a Torino. Ci presentammo e rimanemmo a chiacchierare un paio d’ore, con Adelmo che ogni tanto ci lanciava occhiatacce, facendo segno di abbassare il volume della voce. E quando iniziammo a ridere c’è mancato poco che ci buttasse fuori dalla libreria.
Ad Hans piaceva leggere libri polizieschi, diceva che più la trama era complicata e più riusciva a immergersi in quelle pagine, immedesimandosi nel protagonista, lui le viveva quelle pagine, lo facevano evadere dalla realtà che a volte era troppo difficile da vivere, quella realtà che spesso faceva male.
Quel giorno stabilimmo di incontrarci ogni volta che potevamo nella libreria, una sorta di appuntamento letterario, nel quale ognuno di noi decideva di prendere un libro e leggere alcune pagine dalle quali inventare una storia che però contenesse qualcosa di vero, qualcosa che ci era accaduto, ed è da lì che scoprimmo che cosa era successo ad Hans e perché era in Italia.
Mi ricordo che Adelmo aveva creato un angolo nella libreria dove potersi sedere in tranquillità e sfogliare i libri che vendeva; sosteneva che fosse importante leggere l’incipit perché da lì si capiva se la storia sarebbe piaciuta oppure no al lettore esperto. Ogniqualvolta che qualcuno si recava alla cassa con un libro, lui chiedeva sempre, con quella cantilena che era tutta sua: “Prima di comprarlo hai letto qualche pagina di questo libro?” e se gli rispondevano di no, perché erano stati attratti dalla copertina o perché era una lettura che era stata consigliata da qualcun altro, lui invitava gli acquirenti a sedersi sulla poltrona di quell’angolo e a leggere con calma le prime pagine. E a volte in effetti rinunciavano a comprare quel libro o sceglievano altro, a volte invece capivano che era proprio il libro che andava bene per loro.
Ma dal giorno in cui noi decidemmo di incontrarci in libreria, quell’angolo venne occupato dalle nostre letture e Adelmo smise di fare quella domanda, con enorme dispiacere, però ci disse che era anche contento che noi fossimo lì perché a lui piaceva tanto la gioventù, e poi aveva fatto caso che la gente entrava più volentieri nel negozio se nello stesso c’era già qualcun altro.
Il pomeriggio del giorno seguente ci trovammo combinazione noi tre più o meno alla stessa ora, ti ricordi, Ines?
Faceva esageratamente caldo e tu decidesti di portare delle bibite fresche, sapendo che avremmo trascorso un po’ di tempo lì dentro, visto che Adelmo aveva fatto mettere l’autunno prima l’aria condizionata. Io fui il primo ad arrivare, salutai Adelmo e mi misi a chiacchierare un po’ con lui. Mi fece vedere i libri che gli erano appena arrivati e che avrebbe dovuto mettere in bella mostra all’entrata della libreria. Ce ne fu uno che catturò la mia attenzione, la copertina era gialla e mostrava un bambino che prendeva per mano una ragazza mentre camminavano lungo una strada che sembrava non avesse fine. Il ragazzino era biondo, sui tre o quattro anni, mentre la ragazzina poteva averne tredici, quattordici, ma la cosa strana era che entrambi erano vestiti con soprabiti e cappelli da pioggia, mentre l’immagine rimandava a una bella giornata di sole e ai lati della strada c’erano campi di tulipani. Chiesi ad Adelmo di poter prendere quel libro e mi sedetti a leggere, ma proprio mentre giravo la prima pagine, eri entrata tu con Hans, riconobbi la tua risata cristallina prima ancora di vederti. Quel giorno eri bellissima, indossavi un vestito leggero azzurro con piccole farfalle di mille colori, le gambe erano nude e ai piedi avevi dei sandaletti anch’essi azzurri come il vestito, la scollatura faceva intravedere il segno del costume, i capelli lunghi raccolti con una coda alta e qualche ricciolo che ti cadeva sulla fronte, il tutto impreziosito dai tuoi bellissimi occhi verdi. Hans appariva ancora più dinoccolato e soprattutto sudato, anche lui rideva chissà per quale battuta. Quel momento era vostro e in effetti tra voi c’era uno sguardo d’ intesa, e fu così sino a quel terribile giorno.
Ma di questo ora non ho voglia di parlare.
Mi raggiungeste all’angolo della lettura e non appena Hans vide il libro che avevo lasciato sul tavolino cambiò espressione, ci feci caso ma poi me ne scordai quasi subito. Se invece mi fossi soffermato su quel particolare forse non sarebbe successo quell’orribile fatto, forse avrei riposto quel libro sullo scaffale e la nostra vita sarebbe stata diversa, ma quel giorno non ho ascoltato il mio istinto.
Mi ricordo che ti alzasti e ti aggiustasti il vestito che per il caldo e il sudore ti si era appiccicato alle gambe, avevi un modo tutto tuo particolare nel metterti a posto le gonne o i vestiti quando aderivano alle gambe, prendevi l’orlo con entrambe le mani e facevi arieggiare quei pezzi di stoffa come se sotto ci fosse il vento, poi mettevi le mani in vita e le facevi scivolare fino all’orlo più e più volte, in tutto trascorrevano un paio di secondi, ma a me a volte parevano un’eternità, chissà se lo fai ancora adesso.
Iniziasti a scorrere le dita sui dorsi dei libri riposti sugli scaffali e ti perdesti in essi per un po’, nel frattempo Hans prese il libro che era sul tavolino e osservò attentamente la copertina, aprì il libro e lesse Tratto da una storia vera. “Mi piaciono le storie vere” disse, aveva un modo di parlare tralasciando le doppie, fui d’accordo con lui, anch’io generalmente preferivo leggere libri tratti da storie di vita, immedesimarsi nei personaggi mi risultava più semplice, in fondo mi dicevo che poteva accadere anche a me e questo mi rendeva il racconto più vivo. Tu arrivasti con una pila di libri e li appoggiasti sul tavolino dicendo che non riuscivi a scegliere la storia dalla quale partire per proseguire nel nostro gioco che avevamo intitolato “la nostra storia da qui…”; effettivamente c’era ogni genere, dal romanzo storico, al thriller, al romanzo d’amore e così via, disponemmo i libri in fila includendo anche quello scelto da me e uno scelto da Hans e ti chiedemmo di chiudere gli occhi e di indicarne uno. Facesti una giravolta e poi puntasti il dito proprio su quello che avevo scelto io. Così partimmo da quella storia. La regola del gioco era che ognuno di noi leggeva una pagina e da lì si iniziava a scriverne il proseguimento, uno scriveva e gli altri dettavano, ma la cosa bella era che non doveva essere una storia inventata ma vissuta da noi. Decidemmo a estrazione il nome di chi doveva iniziare e capitasti tu. Il libro iniziava dalla descrizione di una casa situata nel bel mezzo di un bosco, abbastanza isolata. Era una bella casa coloniale, dai colori bianchi per le facciate, ai colori blu delle finestre, davanti a sé aveva un magnifico giardino con un labirinto composto da siepi, e una grossa fontana che conteneva dei bei pesci rossi. Rimaneva un po’ lontana dalla strada principale, infatti per accedervi c’era un lungo sentiero che fiancheggiava il bosco, sul lato destro del sentiero c’era un magnifico lago con un pontile abbastanza lungo per potersi tuffare, al termine del quale era ormeggiata una barca a vela. Il racconto proseguiva con la descrizione dei componenti che abitavano la casa, che erano una donna sulla trentina d’anni, bella, alta, bionda, e un uomo, il marito, anch’egli di bell’aspetto, moro, atletico; infine due figli; un maschietto e una ragazzina, il maschietto piccolo e biondo come la mamma e la ragazza adolescente mora come il papà. Erano esageratamente ricchi. La casa veniva gestita da un maggiordomo e un personale che si affaccendava per organizzare al meglio quell’enorme proprietà. I figli erano seguiti dalle tate, una per ogni figlio. La ragazza non abitava abitualmente in quella casa, frequentava un college dell’alta società in un altro stato, ma durante le vacanze tornava a casa e l’ambiente diventava più allegro e vivo. La pagina finiva così, quindi a questo punto dovevi continuare tu, Ines.
Ti identificasti con la ragazza adolescente e iniziasti a raccontare un episodio che ti era capitato alle medie.
Avevi stretto amicizia con una tua compagna di classe dal nome Rosy, abitava vicino a te e al termine delle lezioni o durante l’intervallo parlavate spesso, facevate progetti per il futuro, a lei sarebbe piaciuto molto fare l’insegnante negli asili. Aveva un fratello più piccolo al quale doveva badare quando sua madre non poteva ed era da lì che aveva cominciato ad amare particolarmente i bambini, asseriva che fossero puri di cuore ed estremamente intelligenti, molto più degli adulti. Rosy aveva sempre un’espressione triste negli occhi e tu non capivi il perché, finché un giorno passando davanti a casa sua guardasti attraverso il vetro di una finestra e la vedesti chiusa nel bagno a piangere, lei si accorse di te e guardandoti negli occhi si mise un dito davanti alla bocca facendoti segno di tacere. Non parlaste mai di quanto accaduto, sino al giorno in cui scopristi che sua madre era stata ricoverata in un istituto psichiatrico. In quel momento, dopo il racconto, ti chiedesti cosa avesse potuto subire Rosy.
Restammo tutti in silenzio per un po’ e notai che Hans aveva gli occhi lucidi. Così per sdrammatizzare prendesti le bibite dalla borsa frigo.
Toccò ad Hans leggere la seconda pagina del libro con la storia di quella famiglia. I genitori lavoravano entrambi nell’azienda di proprietà del nonno della mamma, lavoravano nell’esportazione dei fiori in tutto il mondo, era una società molto rinomata in quel campo. Il bambino piccolo era accudito dalle tate, si raccontava che la donna non avrebbe voluto avere un secondo figlio, e quando era rimasta incinta aveva nascosto la gravidanza fino a che aveva potuto. Il bambino era nato con un parto molto difficile e per parecchi giorni la madre non l’aveva voluto vedere. C’erano stati enormi contrasti tra i genitori, e il bambino, a causa del mancato allattamento, aveva anche rischiato di morire, quindi il padre aveva deciso di intervenire drasticamente con la moglie minacciando persino un divorzio. Lei, suo malgrado, aveva provveduto ad allattarlo tirandosi il latte dal seno e incaricando la tata di nutrirlo con il biberon. Poi aveva ripreso il lavoro, vedendo suo figlio solo in pochi momenti durante la giornata.
La pagina finiva così. Toccò ad Hans raccontare.

Ester Ugazio

Era un uomo di grande fascino, alto, sottile, dalla chioma candida e dal volto illuminato da grandi occhi grigi penetranti.
Come noi frequentava la libreria la cui storia è inserita nella realtà storica cittadina fino dai primi anni del 1900. Ad aprirla furono Antonio e Maria che, dopo aver abbandonato la loro attività di librai ambulanti, con la loro bancarella carica di libri, decisero di stabilirsi in città.
Era bello sostare in quel luogo, anche solo per salutare e incontrarsi. Non lo frequentava solo gente comune ma anche personaggi noti in città che apprezzavano lo spirito di intraprendenza, popolarità e cortesia di Adelmo, figlio di Antonio, il fondatore.
Tu non ti ricorderai quel giorno. Eri ancora troppo piccina. Mi sfuggisti di mano e zigzagando in quel corridoio di libri andasti letteralmente a sbattere su Hans. Ti raggiunsi e nell’imbarazzo totale gli porsi le mie scuse.
“No problema” rispose biascicando un italiano appena abbozzato.
Scoprii così che era tedesco.
Mi tese la mano: “Hans Weber”.
“Giulio Martinelli, lei è Laura.”
Indossava un elegante cappotto blu sotto cui si intravedevano una candida camicia e un’elegante cravatta in seta con piccoli fiorellini azzurri e bianchi. Scarpe nere lucidissime.
Al bar dove nel frattempo ci eravamo diretti mi disse che era di Berlino, che da poco si era trasferito in Italia e che ancora faticava a parlare la nostra lingua.
Rispolverai così il mio inglese, certo che un uomo di cultura conoscesse l’idioma. Non mi ero sbagliato.
Fu un grande piacere scoprire che potevamo intenderci.
Iniziammo così a parlare di libri, dei nostri autori preferiti. Tra di noi nacque da subito una sorta di alchimia.
Tu avevi la tua bellissima coppa di gelato. Affondavi il cucchiaino nella crema e nel cioccolato beandoti di quella meraviglia e ignorandoci totalmente. Noi davanti a una fumante tazzina di caffè scoprivamo di amare Isabel Allende e i luoghi da lei descritti.
Hans conosceva il Cile, vi aveva vissuto molti anni per lavoro, di quella terra serbava ancora un ricordo indelebile.
Iniziò così a raccontare…

Sara Alaimo

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito” declamai mentre tu. Adelmo e Hans stavate ad ascoltarmi. Te lo ricordi? Era un pomeriggio caldissimo e l’aria era resa ancora più pesante da alcune gocce di pioggia che avevano sfiorato l’asfalto poche ore prima.
“Ti prego, questo no. Lo so a memoria, questo no” dicevi ridendo. Ed era bello vederti sorridere in quel momento così complicato, intuire le tue labbra dischiuse sotto la mascherina.
Ines carissima, quando ho capito che la tua vita poteva scivolare via e trascinare con sé la mia, allora ho deciso di tessere una trama nuova, una trama di incontri pomeridiani in libreria che ci salvasse da tutto quel dolore che ci strideva attorno freddo, duro, metallico.
Fu quel pomeriggio che iniziammo il gioco della “Bibliomanzia”. Lo propose Hans, ma anche quello, come avrai compreso a questo punto del racconto, non fu casuale.
E in quel gioco folle ho consumato me stesso, ma neppure per un attimo mi pento di tutto ciò che ho fatto per realizzare ognuna delle cose che ci venivano suggerite.
Ogni incipit scelto avrebbe dovuto guidarci nelle ore successive.
Definimmo le regole del gioco:
– ogni giorno un libro diverso
– ogni libro ci avrebbe suggerito una nuova avventura da consumare nelle ore della mattina seguente.
Una follia alla quale aderisti come febbricitante, esaltata, con gli occhi lucidi come una bambina che avesse appena scoperto un nuovo gioco sotto l’albero di Natale.
Com’eri bella, Ines! Mentre tu cercavi di nascondere il tuo corpo affannato e martoriato, io non facevo altro che trovarti bellissima. Più bella di quando la tua forma era perfetta, più bella di quando i tuoi seni mi avevano straziato per un’intera serata, facendomi dimenare nello sforzo di posare lo sguardo al di sopra della tua scollatura, più bella di quando eri abbronzata sulla spiaggia bianca solo due anni prima.
Eri bella Ines. Niente è mai stato come te.

Marco Tempestini

Hans, che cosa stai facendo?
“Sto andando di libro in libro” rispose l’omino minuscolo.
“E che cosa ci fai dentro ogni libro?”
“Scusate, ma non l’avete ancora capito?”
“Se l’avessimo capito non te lo domanderemmo.”
“Sto scrivendo il finale di ogni racconto e di ogni romanzo.”
“In che senso, scusa?”
“Devo proprio spiegarvi tutto…”
“Devi.”
“Voi pensate che il finale delle storie sia opera degli scrittori?”
“Sì lo pensiamo, perché, non è così?”
“Be’ in un certo senso è così, ma sono io che glielo suggerisco, anzi alcune volte glielo detto proprio. Voi vi accontentate di leggere l’incipit, ma se non c’è il finale un libro non ha senso.”
“Questo è vero, ma che un finale ci fosse lo davamo per scontato.”
“Non c’è niente di scontato, assolutamente niente.”
“E dicci, che criterio usi per inventare il finale?”
“Nei momenti di felicità esplosiva del mondo, io cerco sempre un finale triste, ritengo sia necessario far capire che le cose belle non durano in eterno.”
“Ah, e nei momenti tristi?”
“Ovviamente faccio il contrario. In questo momento per esempio mi sono venuti in mente tanti finali allegri. Abbracci, strette di mano, viaggi, danze frenetiche nelle piazze piene, concerti e infine baci, tantissimi baci.”
“Pensi succederà davvero in futuro?”
“Io non penso che succederà, ne sono sicuro, ma ora basta domande, devo suggerire il finale a uno scrittore che deve proseguire un incipit dal tema Libri nei momenti difficili.”
“Ah va bene, ti lasciamo in pace al tuo lavoro, ci raccomandiamo a te, scrivi un bel finale!”
“Grazie e…”

Federico Scottoni

Poi l’incubo è iniziato. Quelle tre parole scandite sulle labbra del dottor Sinibaldi hanno cancellato tutto il resto. La nebbia e un suono indefinito hanno occupato tutti ogni angolo della mia vita, presente e passata. Leucemia mieloide acuta. La paura, poi la chemioterapia, infine il trapianto di midollo osseo. Il mio sistema immunitario era stato raso al suolo, smaterializzato dalle cellule impazzite prima e dalla terapia poi. La parola d’ordine era: isolamento. Quella stanza ha rappresentato l’interezza del mio mondo per settimane. Entravano medici, infermieri, voi solo ogni tanto, sempre tenendovi a distanza, sempre con parte del volto coperto da una fredda e artificiale mascherina azzurra. I vostri odori cancellati da quello dei disinfettanti così come i sapori lo erano dalla malattia e dai farmaci. A quel tempo io avevo solamente un desiderio, condividere le mie emozioni, le mie immaginazioni, in una sola parola, empatizzare. Tutto era schermato, anche il vostro parlarmi, la vostra capacità di mostrarvi nel vostro intimo. Certamente mi arrivava il vostro amore ma non le vostre speranze né le vostre paure, non la vostra forza, non la vostra debolezza. Allora cosa potevamo condividere? Ero solo. Un muro invisibile, ancor più che quello fisico della mia stanza, mi separava dal resto del mondo. Il muro di chi non riesce a condividere uno stato che è solo il suo. Io lottavo per guarire, lottavo per tornare alla mia vita, la immaginavo in un futuro, provavo a trasformare il presente in ricordi. «Devi crederci!» mi diceva sempre il dottor Sinibaldi, sosteneva che il pensiero positivo era la spinta più forte per le mie cellule sane, dovevo crederci per far tornare il mio midollo osseo alla normalità.
Non era facile, per quanto cercassi di evitarlo, nei momenti più bui le ombre si insinuavano nella mia mente, non era solo il mio di destino a essere in pericolo, lo era anche il vostro, quello dell’umanità, del mondo intero a crollare. In quei momenti avevo bisogno di umanità, di qualcuno con cui sintonizzarmi, con cui parlare, con cui allontanarmi dai vicoli ciechi del mio intelletto per sorridere, per relativizzare e ritrovare la bellezza. Il telefono non funzionava, come potevo pensare di sintonizzarmi con chiunque di voi, di empatizzare quando le nostre voci erano riprodotte da un microfono, quando non potevamo guardarci negli occhi e vedere oltre lo schermo della ragione? Proprio in quei momenti, quella pila di libri che avevamo comprato mesi prima nella libreria di Adelmo mi sono venuti in soccorso. Quei testi, scritti magari decenni prima, costituivano la guida per la mia immaginazione. Allora immaginavo i personaggi, mi chiedevo se l’autore li avesse pensati con quella stessa capigliatura che attribuivo io, osservavo le loro vite, le loro anime mi erano accessibili più di quelle di chiunque altro. A volte leggevo poche pagine, poi stanco riponevo il tomo sul comodino, chiudevo gli occhi e in quel dormiveglia figlio dei farmaci, della mia debolezza, permeato di sensazioni fisiche e mentali che mai più ho percepito, mi lasciavo trasportare dai pensieri, ormai lontano dalle ombre, distratto dall’effetto delle parole lette, finivo per perdermi in lidi di serenità insperata. Quando ritornavo in me, troppa era la voglia di scoprire il seguito delle storie per perdermi di nuovo, riprendevo in mano il libro e seguitavo a leggere con ingordigia.
A oggi, ora che la mia vita è tornata ai ritmi serrati e agli spazi enormi della normalità, a stento riesco a credere che carta e inchiostro abbiano potuto sconfinare un luogo così chiuso, isolato e ristretto come quella dannata stanza numero 42 che in qualche modo ha partecipato alla mia guarigione. La letteratura insegna ad amare, nulla è così vero, la prova è l’amore che provo per quell’esperienza così atroce che ho vissuto, quel tempo che si dilatava inesorabilmente inducendomi a sconfiggere la noia e mi permetteva di leggere, leggere e leggere ancora. Mi dite sempre che la leucemia mi ha cambiato in meglio, mi ha dato saggezza, altruismo e forza d’animo. Sentendomi lusingato di questi vostri giudizi, posso dirvi solo che se devo cercare una crescita derivata da quell’esperienza, da una parte la trovo nella capacità che ho oggi di relativizzare il dolore e la preoccupazione – e in questo modo anche i bisogni –, dall’altra nell’aver avuto tutto quel tempo per entrare nei mondi che altre persone, in un qualche passato, hanno creato e trascritto sulla carta.

Giancarlo Mele

Ti ho chiesto di perdonarmi, Ines, ma non ti ho ancora rivelato di quale peccato mi sia reso responsabile nei tuoi confronti. Ho solo cercato di spiegarti le circostanze che mi hanno indotto a sbagliare, le attenuanti che giustificano in qualche modo le mie azioni. Non pretendo tu mi assolva, mi basta che tu mi capisca.
Ti ho spiegato come la consapevolezza del male che ti divorava implacabile abbia reso più struggente e disperato l’amore che provavo per te. Accade sempre così. Quando ti ho conosciuta eri una giovane e brillante studentessa e io un assistente universitario già in là con gli anni. Non mi resi conto subito che l’ammirazione che provavo per te non era legata solo alla giovinezza e avvenenza, ma alla luce particolare che ti brillava negli occhi, al fascino del tuo eloquio profondo ed elegante. Mi era chiaro come cercassi qualcosa tra i libri della biblioteca universitaria, qualcosa che aveva a che fare con il senso profondo della tua esistenza. A quei tempi però non badavo a queste cose. Confondevo l’attrazione con l’amore e ti volevo. Avrei fatto qualunque cosa per averti!
Ma tu non avevi occhi per me; non mi vedevi neanche. Così per non perderti scelsi di seguirti in quella che era la tua dimensione. Cominciai a leggere disperatamente i tuoi autori preferiti. Inizialmente lo facevo per penetrare nel tuo mondo, capire le dinamiche della tua persona, trovare la chiave giusta per comunicare con te nel tuo stesso linguaggio. A mano a mano che ti conoscevo, percepivo come all’attrazione fisica fosse subentrata la considerazione per la tua personalità, la stima per il tuo modo di essere, le tue reazioni, la tua capacità di farmi da guida – tu, più giovane – nelle mie sensazioni ed emozioni.
Fosti tu a spingermi a sposare Chiara, lo ricordi? Dicesti che occorreva trovare un compromesso con la realtà di tutti i giorni e la specialità del nostro rapporto. La nostra relazione – dicevi – era comunque irripetibile e più forte di qualsiasi cosa. Avevamo raggiunto un livello di empatia tale che non occorreva parlare. Bastavano gli sguardi, i sorrisi, le carezze. Persino i pensieri, quand’eravamo lontani. E, in effetti, non ti ho mai sentito più vicina di quando Chiara e io traslocammo e non ebbi più la possibilità di incontrarti.
«Devi partire – mi dicesti l’ultimo giorno guardandomi fissa negli occhi – è il tuo modo per conquistarmi, non lo capisci? Vivremo in città diverse, ma saremo sempre insieme in quelle che sono le nostre emozioni comuni, il mondo che ci siamo creati, fatto di costruzioni letterarie, senza dubbio, ma anche della proiezione dei nostri pensieri e sogni.»
«Partire? – ti risposi smarrito – non vederti più per me equivarrebbe a morire.» Ridesti di gusto: «Morire? Non essere sciocco. Né convenzionale. Da te non me l’aspetto. Balzac diceva che la morte è un sonno senza sogni né risveglio. Ma noi sogneremo, amico mio, vivremo nel sogno e nel ricordo di quel che è stato il nostro rapporto. La memoria renderà indelebili le emozioni alimentandole con il riferimento ai nostri libri, ai nostri eroi».
Così partii e ti lasciai. Dopo qualche tempo nacque Elena, ma avermi dato una figlia non riuscì a fare di Chiara la compagna che volevo. Giunsero i giorni della separazione, poi del divorzio, infine delle difficoltà economiche. E tornare qui, nella città in cui ci eravamo incontrati, mi sembrò la soluzione più ovvia. Ospite di mia figlia Elena e di quest’appartamentino così vicino alla “nostra” libreria. Sapevo che continuavi a frequentarla. Sapevo che ti avrei incontrata prima o poi. Ma quando ti vidi con quel turbante in testa, la carnagione livida, i capelli radi, capii cosa t’era successo.
«Perché non me l’hai detto?» le chiesi.
«Cosa sarebbe cambiato?» rispondesti con un dolce sorriso. «Saresti venuto prima, forse, ma io confidavo che ci saremmo rivisti quando sarebbe stato il momento.»
«Quanto tempo ancora?» mormorai.
«Sei mesi … forse un anno, e voglio viverli intensamente» concludesti. Poi mi prendesti sottobraccio e mi guardasti con quegli occhi azzurri cui non avevo mai saputo resistere.
Fu amore, un grande amore, a dispetto delle convenzioni. Io avevo un matrimonio fallito e gran parte della vita ormai alle mie spalle, tu una disperata voglia di godere al massimo quel che ti restava. Spesso passavamo giornate intere a leggere i nostri autori preferiti e a lasciar volare le nostre fantasie. Eravamo felici, a dispetto di tutti.
Ma poi arrivò Hans. Ancora giovane e affascinante. Quel che io ero diventato inseguendoti tutta una vita, lui lo era da sempre con naturalezza. Se io ero illuminato dalla tua luce come la luna dal sole, lui era una fulgida stella che attraeva tutti nella sua orbita. Te compresa. Aveva un modo di conversare calmo e convincente, riusciva a comunicare non solo con la parola ma con il suo modo di atteggiarsi, di porgersi agli altri, di guardarli.
Il suo fascino e il suo anticonformismo coinvolsero anche me. Amava stupirsi e stupire. Un giorno, dopo aver riletto Morte a Venezia, decidemmo di porre in atto un gioco letterario.
«Andremo in laguna sulle orme di Thomas Mann» disse Hans. Tu eri via per qualche giorno, così partimmo lui e io, nei giorni del Carnevale.
«Perché non ti travesti da Tadzio?» proposi perfido.
«Va bene – accettò Hans – a condizione che tu sia Gustav.»
Così passammo l’intera giornata travestiti, lui da efebico fanciullo, le labbra con il rossetto, gli occhi bistrati. Io da compassato professore, ruolo che ormai mi riusciva bene, vista l’età. Ridemmo molto e scattammo molte foto.
Poi venne il momento terribile in cui ti avvicinasti a me, timorosa persino di guardarmi: «Con te devo essere sincera. Te lo devo. Amo Hans e voglio passare con lui quel che mi resta da vivere. Vorrei tu mi restassi accanto come amico, ma so che non posso chiederti tanto. Vedresti nei miei occhi quel che provo per lui e ne saresti ferito».
Rimasi folgorato! Non dico che non me l’aspettassi. Dico solo che pensavo di poter allontanare questo momento il più possibile. Ti avevo inseguita tutta una vita e ora ti perdevo perché era arrivato Hans. Non fui io a reagire ma un altro “me”. Sono certo di non essere consapevole delle mie azioni in quel momento, ma esiste sempre in noi una seconda personalità che attinge energia dalla parte più inconscia ed emozionale e ci fa agire in modo irrazionale.
«Pensi di far l’amore con lui?» le chiesi a bruciapelo.
«Perché me lo chiedi?» reagisti infastidita. «L’amore fisico è solo la conseguenza di un’intesa perfetta e noi ci intendiamo.»
«Ti fidi di lui ? Ti ha raccontato tutto di sé?» insinuai, fingendo imbarazzo. «Cosa vuoi dire?» La tua voce era tagliente, quasi estranea. «Certo che mi ha raccontato tutto.»
«Anche della sua omosessualità?» conclusi estraendo una delle foto che avevamo scattato a Venezia. Hans era ritratto in atteggiamento e abbigliamento inequivocabili. Ricordo che mi compiacqui con me stesso per averlo saputo cogliere in quel momento.
Non so cosa avrei dato per non vedere i tuoi occhi. Era come se tutto il tuo essere crollasse e gli occhi fossero il segnale che stavi collassando. Fu quella l’ultima volta che ti vidi. Distrussi il tuo amore per lui con l’inganno ma tagliai allo stesso tempo tutti i ponti che potevano consentirmi di restarti accanto fino alla fine.
Nella busta che accompagna questa lettera troverai la chiave per aprire il cassetto di Elena. Sai dove trovarlo. Quando leggerai le carte che vi sono contenute saprai che ti ho mentito. Ho lasciato che la gelosia mi attanagliasse. Perderai allora tutta la fiducia e l’amicizia che hai sempre avuto per me. E con essi anche il ricordo del nostro grande amore passato.
Sappi che conosco un solo modo per farmi perdonare. Partire per quel mondo magico cui tu mi hai introdotto e aspettarti lì. So che mi raggiungerai fra breve. Forse allora mi perdonerai.

Stefano Andreoni

Hans era un’uomo anziano, sull’ottantina. Vagava per la libreria frugando tra le pila di libri presenti, aprendoli e odorando il profumo della carta stampata. Non era un tipo di molte parole, anzi, pareva essere la persona più felice del mondo avvolto nella sua solitudine. Un giorno ci passò affianco e mi rivolse uno strano sguardo, diverso dal solito. Era come se mi stesse chiedendo aiuto, e io non ne comprendevo il motivo. Lo invitai, istintivamente, a unirsi a noi. Joel e Leonardo cominciarono a fargli domande senza sosta, mentre Jasmine tentava di arginare la loro esuberanza. Eravamo ragazzi e ci sembrava che niente e nessuno potesse fermarci. Con il passare dei giorni, Hans prese a raccontarci frammenti della sua vita sparsi qua e là nella sua mente che ultimamente faticava a rimanere intatta. Non era più lui e il ticchettio dell’orologio appeso al muro scandiva l’ultimo pezzo della sua lunga e umile esistenza. Ci elencò i suoi libri preferiti con un trasporto tale da farci dimenticare il caldo insopportabile di quelle giornate.
Sai, Ines, ci ha raccontato di come la lettura gli ha salvato la vita, di come lo ha fatto estraniare dal mondo quando non voleva più farne parte. Hans ne ha passate davvero tante. La prima volta che si è seduto di fianco a me, ho capito che forse mi sbagliavo. Forse non aveva scelto la solitudine, gli era solamente caduta sulle spalle come un fardello da portare avanti e, dal momento in cui aveva percepito che si stava lasciando andare, aveva scelto di condividerlo con noi. Sai, Ines, la ventisettesima volta che me lo hai chiesto, ho pensato che forse era giunto il momento di dirti la verità. Pochi giorni fa ho incontrato gli altri. Ci siamo visti proprio lì, in quel bar che ha sostituito la libreria e abbiamo preso quattro cappuccini con relativi ricami di fiori annessi. Li ho trovati bene. Abbiamo riso, scherzato e ci è cascata dentro anche qualche lacrima di commozione. Ines, ricordi quei libri che leggevo spesso? Una, due, tre volte al mese. Be’… Erano i libri preferiti di Hans. Non pensare che mi abbiano portato tristezza, perché sbaglieresti. L’unica cosa che mi
hanno dato è stata immensa felicità. Mi hanno aiutato a superare un momento buio e per questo gli sarò sempre grato. Forse è questa la cosa che mi accomuna a lui. Quei racconti ci hanno davvero salvato. Joel, Leonardo e Jasmine la pensano così. Dicono che ce li ha fatti scoprire proprio con questo intento, perché forse lui già sapeva come sarebbe andata a finire. Sai, Ines, Hans se n’è andato un mese dopo essersi seduto di fianco a me, e io sento la sua mancanza ancora oggi. È una mancanza positiva, una di quelle che quando ci pensi piangi dalla gioia. Se lo desideri, uno di questi giorni posso farti leggere i suoi libri preferiti, sono sicuro che ti piacerebbero.
Sai, Ines, Hans mi ha insegnato una cosa: l’amore e i libri sono le cose più belle del mondo.

Francesca Contessa

Non subito.
Ma proverò a raccontarti gli avvenimenti con un certo ordine cronologico, o almeno, logico.
Non sono in grado di spiegare il motivo per il quale oggi io abbia trovato questo coraggio, ma non voglio sprecare il momento e quindi risolverò i tuoi quesiti, così che tu possa smettere di soffrire, ogni volta che mi vedrai smarrito.Quindici anni fa.
“Forse è il caso di trovarci qualcosa da fare nei pomeriggi liberi, altrimenti rischiamo di impazzire in questo paese sempre semi desolato e completamente deserto ora che siamo in agosto” avevo suggerito al resto dei miei colleghi accasciati in malo modo su quelle scomode sedie del solito bar che rinfrescava quasi ogni giorno i nostri palati, ma non le nostre menti.
Come sai, mi sono laureato in Psicologia a 23 anni e Piana degli Albanesi non offriva, e non offre, nessuna possibilità di lavoro a quelli come me. Eppure, qualcosa dovevo farla. Tua nonna non poteva permettersi un figlio adulto a carico, poveri come eravamo. Te l’ho raccontato tante volte, forse sei anche stufa.
Fu per necessità che iniziai a lavorare da Carlo, al bar al confine tra il paese e la periferia. Io e altri tre che con me poco c’entravano. Diciamo che se non li avesse assunti Carlo, forse oggi sarebbero sulle pagine di cronaca. O meglio, ci sono già finiti su quelle pagine, ma non è dipeso dalla loro volontà.
“E cosa dovremmo fare? Non va bene scolarsi qualche birra gelata?” Risero, loro. Io ero annoiato.
Avevano appena diciotto anni e due di loro avevano conseguito il diploma delle superiori, con la raccomandazione dei loro genitori, mica per merito! Il congiuntivo veniva meno una frase sì e una no. Il lessico appariva così ridotto che suggerivo loro di parlare in dialetto, perché almeno costruivano una frase più complessa. Starsene a bere al bar nei giorni di chiusura del nostro locale era il massimo della loro vita.
“Ragazzi, tutto quello che guadagniamo in un mese non ci basterà per pagare le consumazioni nemmeno per due settimane. Agosto è appena iniziato, siamo qui da due ore e abbiamo bevuto già tre birre. Moltiplicatele per una settimana e poi per quattro. Non ne veniamo fuori. Perché non ci vediamo in libreria, quella qui vicino? Staremo al fresco e non spenderemo soldi.”
“Quella qui vicino… Qui la libreria è una sola e non si sa nemmeno come fa a stare aperta. Chi vuoi che legge?” subito Marco provò a mandare all’aria la mia proposta.
“Chi vuoi che legga, Marco. Si dice così. Grammatica a parte, Adelmo è un uomo meraviglioso, mi conosce benissimo e potremmo star lì a leggere i libri della sezione consultabili. Proviamoci almeno, cosa vi costa?”
“Sempre a fare il professore tu, eh! Vedi che non viene fuori nulla da ‘ste teste qua” mi rispose.
Il pomeriggio dopo eravamo lì.
“Allora, scegliamo qualcosa che vi possa interessare.”
“Videogiochi!” in coro.
“Ragazzi!”
“Uff, scegli tu, cosa ne sappiamo noi!”
Li trascinai in fondo alla libreria, in un angolo tutto per noi. Non so come ci fossi riuscito a portarli lì, Ines.
Proposi loro di leggere l’incipit di un libro che a testa avrebbero pescato, a occhi chiusi. Poi, io avrei letto voce alta una pagina a caso. Da lì avremmo inventato un seguito, lasciandoci suggerire le vicende dalla nostra immaginazione. I primi giorni li vedevi spenti e annoiati, ero più che altro io a inventare storie a voce alta. Poi qualcosa cambiò. Per sempre.
“Adelmo mi ha detto che vi avrei trovati qui.”
Un piccolo nanerottolo comparve davanti a noi, con un paio di pantaloncini corti e una maglietta bucata.
“Ehi, Andrea, il gruppo si allarga. Hans verrà qui nei prossimi giorni, finché non ricomincerà la scuola, perché sua mamma ha iniziato a lavorare e non sa a chi lasciarlo. Si sono appena trasferiti nella casa qui accanto. Fategli compagnia!” ci ordinò Anselmo, e andò via.
Tu immagina cosa hanno pensato i miei amici, in quel momento. Già l’idea di restare rinchiusi lì non era di certo entusiasmante per loro, condividere il tempo con un bambino, in aggiunta, pareva una catastrofe.
“Siediti qui, Hans. Ti spiego il nostro gioco.” Era felicissimo. Scoprimmo che Hans era un bambino di otto anni, figlio di una donna tedesca che da molti anni viveva a Palermo, trasferitasi poi lì da noi per lavoro. A settembre avrebbe dovuto frequentare una nuova scuola ed era un po’ spaventato, ma appariva così solare che non manifestava affatto l’ansia di cui invece parlava.
“Scegli tu un libro tra questi, poi leggi una pagina a caso.” Indicai la zona dello scaffale adatta ai bambini della sua età.
“Il ba-ne -al su-o ca-ne.”
“Il bane? Cos’è?” risero i tre coinvolti in quella nuova situazione che li aveva resi attivi, molto più di quanto fossi riuscito a fare io.
Hans abbassò lo sguardo, Ines. Dovevi vederlo, d’improvviso triste.
“Che sciocchi. Lasciali perdere, Hans, loro non sono mai stati dei geni a scuola” lo rincuorai. Poi mi avvicinai al libro e lessi la parola correttamente a voce alta. Pane.
Hans ci riprovò.
“Sa-lì-su-l-ta-vo-”
“Sai cosa, Hans? Leggo io, questi sciocchi non ti fanno concentrare.”
E invece no. Scoprii anni dopo che Hans compiva errori tipici di chi ha un disturbo dell’apprendimento. Ma in quegli anni non la si conosceva questa diagnosi e quella mancata automatizzazione delle parole non rientrava in un quadro clinico ben preciso.
La sua immaginazione, la sua strabiliante fantasia compensavano ogni suo altro limite. Hans era in grado di creare storie in pochi minuti, lasciando a bocca aperta anche quei tre lì, che non ridevano poi più così tanto.
Passarono tre pomeriggi, con me che leggevo e Hans che sfidava i ragazzi in quel gioco che ormai divertiva tutti.
Erano le quattro di giovedì pomeriggio. Hans stava raccontando di una bambina che aveva dei poteri magici.
“Aiutoooo” urlò all’improvviso Adelmo.
Corremmo tutti verso l’ingresso e da lì iniziò il nostro incubo. Fiamme molto alte circondavano la libreria, senza lasciarci via di fuga. Scoprii che non potevamo telefonare, Adelmo non aveva una linea telefonica attiva e non esistevano gli smartphone come adesso. Enrico, Luca e Marco erano in preda al panico. Adelmo piangeva. Hans era sparito. Mi misi a cercarlo, ma la libreria era immensa. Urlai il suo nome tra gli scaffali, invano. Salii le scale e lo trovai al primo piano, rannicchiato su se stesso.
“Hans, mi hai fatto prendere un bello spavento. Vieni qui, abbracciami. Andrà tutto bene, piccolo. Andrà tutto bene.” Non rispondeva. Lo presi in braccio, lo portai giù, chiami tutti gli altri e ci rintanammo al primo piano, con la speranza di essere tirati fuori da lì al più presto. Le fiamme, mia Ines, non avevano ancora penetrato la libreria ma non avevamo nessun modo per evadere. La grande insegna della libreria era caduta giù, piazzandosi davanti alla porta, impedendoci la fuga.
Cercai di calmare tutti, ci avrebbero trovato. Ma nulla cambiò. E non sapevo cosa fare. Allora presi un libro e cominciai a leggerlo a voce molto alta, tremante. E lessi, tra i pianti dei miei amici, il respiro affannoso di Adelmo e il mutismo di Hans. Pagina dopo pagina, tutto si placò, intorno a me, tranne le fiamme che, invece, divampavano. Pregavo Hans di inventare ancora storie, ma lui non rispondeva. Mi teneva la mano, però. E ogni volta che arrestavo la lettura, lui me la stringeva forte, come a volermi supplicare di proseguire. Come a volermi dire che la salvezza era lì, in quelle pagine. L’incendio aveva invaso il piano terra, sentivamo il rumore che le fiamme producevano mentre si portavano via ogni cosa: libri, scaffali, i nostri sogni, le nostre vite, sembrava. E l’odore del fumo, che non potrò dimenticare mai. Non posso dirti con precisione quanto tempo siamo stati lì, però lessi diverse favole. Quando vennero a prenderci, Enrico, Marco e Luca emisero un grido forte e si abbandonarono in un pianto all’unisono. Adelmo non ce l’ha fatta, mia Ines. Alla sua età è stato un duro colpo. Hans mi tenne la mano e salì sull’ambulanza con tutti noi. Ancora senza fiatare. Ma mi strinse il pollice e io mi resi conto che avevo portato con me il libro che stavo leggendo prima che ci salvassero. Così, proseguii quella lettura e piansi anche io, finalmente.
Non avevamo evidenti lesioni sul nostro corpo, per quello ci mandarono via in breve tempo. Nessuno dei medici, però, si accorse delle profonde ferite che avevamo sotto pelle, nel cuore. Avremmo dovuto curarle da soli, quelle.
La mamma di Hans arrivò in quella sala d’attesa tremando e con il viso di chi aveva pianto troppo. Strinse suo figlio al petto, forte.
Hans non parlò per un mese, Ines. Furono condotti in un appartamento comunale, perché la loro casa era inagibile. Era stata la causa dell’incendio. Un corto circuito proveniente dalla sua nuova abitazione, dalla sua nuova vita, aveva provocato il cambiamento radicale delle nostre.
Come sai, ora in quel posto c’è un bar, ma è stata ricostruita l’insegna storica di quella libreria che andò a fuoco. Ma le nostre vite cambiarono, come ti ho detto.
Andavo a trovare Hans tutti i pomeriggi. Continuavo a leggergli i libri, lui ascoltava, anche se aveva smesso di raccontare. Eppure, mi aspettava tutti i giorni.
“Hans è stato colpito dal mutismo di natura transitoria, come conseguenza di un evento traumatico vissuto, caratterizzato dalla persistente incapacità di parlare in particolari situazioni” mi aveva spiegato la psicologa che aveva iniziato un trattamento con lui.
Nessuno di noi amici aveva ripreso a lavorare al bar. Le cose andarono in un modo che mai avremmo potuto immaginare, forse nemmeno la fantasia di Hans avrebbe potuto creare quello che poi è successo.
“Ciao, Andrea, Hans è in camera sua, ti aspetta. Ascolta, questa è l’ultima volta che lo vedrai. Domani partiamo, torniamo a Palermo. Io non ho il coraggio di dirlo ad Hans, ti prego, fallo tu.”
Il mondo crollò sotto i miei piedi. Per la seconda volta.
Andai in camera di Hans, cominciai a leggere, per ore.
“La storia non finisce qui, Hans. Faremo un nuovo gioco da domani. Tu inventerai il finale di questa storia e me lo scriverai. Poi dovrai trovare un amico con cui giocare, lì a Palermo. Da domani tornerai lì, dai tuoi vecchi compagni, sarai contento.”
Hans mi strinse il pollice. “Ti prego, no.” Lui riprese a parlare, io piansi.
Il gioco cambiò, ancora, diventando la storia della nostra vita.
Hans andò a Palermo e io andavo a trovarlo una volta a settimana. Il gioco aveva regole semplici: il sabato io leggevo alcune pagine di un libro che lui sceglieva, poi durante la settimana aveva il compito di inventare la sua storia partendo da quelle poche righe ascoltate.
Così, fino a che non fossi riuscito a realizzare il mio sogno. Il nostro sogno.
Il resto lo conosci già, mia Ines. Io aprii questa che oggi è la nostra libreria, supportato dalla famiglia di Adelmo. Mi sono specializzato in Disturbi specifici dell’Apprendimento. Ogni giorno Enrico e Luca aprono quella saracinesca con orgoglio, occupandosi del magazzino, degli ordini, delle consegne, del bar che sorge al primo piano, a disposizione dei nostri clienti. Enrico si è laureato in Scienze dell’Educazione e gestisce con me la libreria, cura i rapporti con i clienti, organizza letture animate per bambini.
Ora hai la risposta a tutte quelle ventisette volte che mi hai chiesto: “Papà, cosa succede? Perché piangi?”.
Me lo hai chiesto tre volte all’anno in questi ultimi nove anni, da quando di anni ne avevi quattro ed eri su quella giostra. Piango sempre il giorno dell’anniversario di quell’incendio. Il giorno che Hans riprese a parlare. Il giorno che scoprii che tua mamma aspettava una bambina. Ines, come il nome del primo personaggio che Hans inventò per noi. Hans, che come sai, vive a Palermo con Elena, sua mamma. Hans, il nostro Hans.

Cosimo Mazzini

Era il 6 agosto, me lo ricordo come se fosse ieri. Quella mattina Adelmo aveva riempito la vetrina con i libri. Negli espositori c’erano solo le pubblicazioni ammesse dal Concilio. Gli altri libri li avevamo nascosti. Ognuno di noi ne aveva portati a casa un bel po’. Adelmo aveva riempito una vecchia cantina in via Matteotti e ogni giorno ne metteva una dozzina in uno zaino e ce li portava per le nostre letture. Non era la prima volta che Hans entrava in libreria. Lo avevamo visto anche i due giorni precedenti. Si era aggirato tra gli scaffali, ci aveva osservato in silenzio. È un emissario del Concilio, pensammo. La prossima volta tornerà per mandarci via e chiudere l’ennesima libreria. Il 6 agosto tornò. Entrò senza fare rumore, si avvicinò a noi, allargò il cerchio sedendosi accanto a Elena.
“Continuate, non volevo interrompervi” disse. Rimanemmo sospesi per qualche istante. Poi, come se ognuno di noi avesse sentito la stessa fiducia, riprendemmo a leggere. Leggevamo e i nostri sguardi si spostavano spesso su Hans. Fugacemente all’inizio, poi in modo sempre più prolungato. Teneva i palmi sulle ginocchia e gli occhi chiusi. La pelle del viso era tesa ma la bocca quasi sorridente. Sai Ines, in quel preciso momento mi accorsi di una cosa: in quei terribili giorni la mia disperazione era aumentata per quanto la mascherassi dietro alla ferrea volontà di non mollare. La mia tenacia, che conosci bene, faticava a tenere a freno la paura che tutto fosse vicino alla fine. Hans fu come uno spicchio di azzurro in un cielo nero.
Leggemmo brani di Hemingway, Vittorini, Primo Levi, Oscar Wilde, Solzenicyn. Hans ascoltò in silenzio. Terminate le letture si alzò, ci salutò con un mezzo inchino e se ne andò.
Uscii dalla libreria nel tardo pomeriggio. Le strade erano vuote. Colpa del caldo, dicevano in TV, ma io sentivo che il motivo principale era un altro. Stavamo perdendo la speranza che potesse esserci un futuro diverso dal presente. Quello che fino a un mese prima avremmo ritenuto impossibile era diventato reale. Era ironico che chi ci aveva ridotto a una legalizzata schiavitù si riunisse sotto il nome di Concilio. Non sembra dolce anche a te il suono di quella parola? Quanto era amara invece, in quel frangente.
Camminai per le strade deserte più di quanto mi fosse necessario per tornare a casa. Sembrava di respirare il getto di un phon. Svoltai in via Garibaldi. Al centro della vetrina di un negozio di elettronica, su uno schermo gigantesco, transitavano le immagini di Adami, il Presidente del Concilio. Sotto la cravatta blu scorrevano in sovrimpressione le dichiarazioni che aveva rilasciato. “Se non stabiliamo cosa è giusto e cosa è sbagliato, tutto ci sfuggirà di mano. Le nostre disposizioni sono per il bene di tutta la comunità. Stiamo proteggendo tutti voi.” Adami sfoggiava un sorriso sornione. I suoi occhi cercavano l’obiettivo della telecamera con la disinvoltura di un uomo di spettacolo. Ripensai al volto di Hans: era provato, come quello di tutti, ma il suo sorriso profumava di vita e sentimento. Lo trattenni con me il più possibile. Quella sera mi addormentai meno faticosamente.
La mattina dopo uscii presto. L’aria era già immobile e pesante. Borgo Marconi somigliava a una pista da bowling dopo la chiusura. Una donna si affrettò a raggiungere il portone di casa come se temesse di essere sorpresa fuori dopo che la sua ora d’aria era scaduta. Pochi secondi dopo compresi da dove scaturiva la sua fretta. C’era un’auto accostata al marciapiede, con la portiera aperta, e un uomo vi stava spingendo dentro un ragazzo. Poco distante un altro uomo aveva abbassato il bandone dell’edicola e vi stava apponendo un cartello.
Giunsi in corso Francia col cuore gonfio di tristezza e preoccupazione. Non salutai nessuno. Mi sedetti in disparte. Avvertivo gli sguardi degli altri sulla mia schiena. Sperai che nessuno mi parlasse, che nessuno mi chiedesse niente perché, te lo assicuro Ines, in quel momento avrei gridato che eravamo dei patetici illusi. I libri non ci avrebbero salvato. Provavo una rabbia disperata. Mi alzai, deciso ad andarmene. In quel momento entrò Hans. Fece due passi, poi si fermò. Osservò tutti uno per uno, Rachele, Bruno, Silvia e gli altri, me compreso. “Cominciamo?” disse con la sua voce gentile. Quindi si mise a sedere ed estrasse dal suo zainetto un volume. Quel gesto così semplice fu dirompente. Rimanemmo in cerchio a leggere e a parlare per ore. Eravamo vivi, animati da un ardore che non sentivamo da tanto tempo. Hans ci propose un gioco: leggere un incipit e divertirci a raccontare una storia diversa da quella che l’autore aveva scritto. Fu meraviglioso. E ancora più meraviglioso fu che ognuno di noi, quella sera, convinse un amico ad aggregarsi il giorno dopo. Da allora il contagio esplose in un modo inimmaginabile e non si arrestò più. Ho rotto il ghiaccio. Questo è solo l’inizio. Il comodino di Elena contiene il resto della storia. Ho deciso che userò domani il racconto che ti ho appena scritto, in occasione dell’inaugurazione della libreria “Frammenti” qui a Roma. Anzi, credo che lo userò sempre, per tutte le inaugurazioni alle quali mi inviteranno. È un racconto che parla di dolore, gioia, paura, coraggio, follia, disgregazione e unità. Parla di vita e continuerà a farlo, sempre.

Linda Nocera

Ricordo ancora il giorno in cui Hans entrò a far parte delle nostre vite. Era diverso dagli altri e non solo per il suo aspetto da eroe romantico o per il suo accento. Aveva solo un paio di anni in più di noi, ma aveva già l’aria di un uomo vissuto. Era la persona più carismatica che avessi mai incontrato e ancora oggi non credo di avere mai conosciuto nessuno come lui.
Quando entrò per la prima volta in libreria, mi stupì il pensiero che in quel momento la mia vita sarebbe cambiata. Avvertii questa sensazione prim’ancora di guardarlo negli occhi – degli occhi di un celeste così chiaro che sembravano di ghiaccio. Eravamo immersi in una conversazione sul valore e l’utilità della letteratura. Io sostenevo che era necessario vivere gli avvenimenti in prima persona e che certe esperienze non potevano essere sostituite dalla letteratura. Credo che fu in quel momento che sentii per la prima volta la sua voce. Era leggermente roca, una conseguenza delle sigarette che fumava costantemente, e aveva un timbro sicuro. Chiese chi fosse il titolare e si diresse verso Adelmo. Mi ricordo che uno dei primi pensieri che attraversarono la mia mente fu “Cosa ci fa in un posto come questo?”.
Nonostante fossimo molto diversi diventammo quasi subito amici. Non seppi mai come e perché avesse scelto proprio la nostra cittadina. Hans non parlava molto del suo passato, ma dalle citazioni colte e da alcune sue osservazioni, era chiaro che aveva letto e viaggiato molto. Quando gli chiesi da dove venisse, rispose sorridendo che era cittadino del mondo. Un giorno andai a trovarlo nella pensione in cui alloggiava. Aveva una camera misera, le pareti erano scrostate e i mobili traballanti. Gli unici oggetti personali di cui disponeva erano i suoi libri che custodiva gelosamente.
Sono passati tanti anni, cara Ines, da quando sono successi i fatti che ti sto per raccontare. Ti chiedo scusa se non te ne ho mai parlato prima. Mi ricordo che eri diventata gelosa di Hans. A volte mi prendevi in giro chiedendomi se ci fossimo fidanzati. Hans esercitava un potere unico su di me. Quando trascorrevo i pomeriggi e le serate insieme a lui, non mi rendevo conto del passare del tempo e spesso arrivavo in ritardo ai nostri appuntamenti. In libreria pendevamo tutti dalle sue labbra, soprattutto Adelmo che non era abituato ad avere un frequentatore così colto. Le cose cambiarono all’improvviso.
Un giorno entrò uno sconosciuto nella libreria. Dall’aspetto e dal modo di fare si capiva che non era in cerca di libri. Non so perché, ma temetti che Hans fosse in pericolo. Lasciai il nuovo cliente impegnato a discutere con Adelmo e mi precipitai alla pensione. L’anziana donna che avevo già visto una volta mi informò che il mio amico era partito durante la notte. Aveva lasciato una busta con i soldi per il pagamento della stanza e un libro. Chiesi alla donna se Hans avesse lasciato anche un recapito per poterlo rintracciare o un biglietto. La donna negò con la testa ma mi porse il libro. “Io non so cosa farmene” disse. Vagai per le strade deserte sotto il sole di agosto senza meta. Sentivo che non avrei mai rivisto Hans e che la sua partenza furtiva dovesse essere collegata all’arrivo dello sconosciuto.
Quando giunsi davanti alla libreria erano tutti sconvolti. Ci misi un po’ a ricostruire la storia dalle mezze frasi dei miei amici e di Adelmo. Scoprii che Hans era ricercato dalla polizia per un crimine che aveva compiuto all’estero qualche mese prima. Non so se ero più sconvolto da questa notizia o dal fatto che fosse scappato senza salutarmi. Decidemmo che per proteggere il nostro amico non ne avremmo parlato con nessuno. Adelmo stesso aveva negato allo sconosciuto di conoscere Hans.
Quella sera non riuscivo a prendere sonno e ripresi a vagare per le strade. Non sapevo come colmare l’immenso vuoto che Hans aveva lasciato con la sua partenza. La vita stentava a riprendere. I miei amici continuarono a frequentare la libreria, ma io non ci riuscivo. Per un periodo evitai anche te, Ines, e mi dispiace. Non so spiegarmi perché non te ne abbia mai parlato prima. Forse perché speravo di proteggere la reputazione del mio amico. Non avevo mai creduto che fosse un criminale.
In quei giorni difficili mi sentivo solo e impotente, fino a quando non decisi di prendere in mano il libro che Hans aveva lasciato alla pensione. Era uno dei suoi preferiti: “Guerra e Pace”, ed ero certo che l’avesse lasciato per me. Sfogliandolo trovai un biglietto scritto a mano: “I libri sono gli amici più fedeli”. Questo biglietto l’ho conservato – lo troverai nel taccuino. Nonostante fosse uno dei libri più lunghi che avessi mai tenuto fra le mani, lo divorai in breve tempo. Il senso di evasione e di benessere che provai immergendomi nella storia del principe Andrej era totale. Così ripresi a frequentare la libreria e libro dopo libro, a poco a poco, io e i miei amici ritrovammo la serenità.
Sono passati più di vent’anni da quel caldo agosto, ma i ricordi sono ancora vivi. Ne ho avuto la dimostrazione proprio qualche giorno fa quando leggendo il giornale ho visto la foto di un uomo con gli occhi di Hans. Il suo nome però era un altro. Anche questa foto l’ho messa nel taccuino, insieme ad altri ritagli di giornale e alle mie riflessioni. Non ho mai più rivisto Hans, ma grazie a lui ho imparato che i libri possono aiutare a superare anche i momenti più difficili della vita.

Francesca L’Altrelli

Hans, tanto in gamba da buttare giù un nuovo spazio, carbonizzando il fondo, tentando di ricostruire le pareti. Saldamente incollato a una trottola roteante, sinonimo di stabilità, incertezza gravitazionale. Ricalcava con la penna i punti che creano le cose vere, le frasi dentro un libro. Lo ricordo. I punti si sovrappongono negli occhi. Lenti opache. Chiudo – Riapro. I punti si mettono in fila e mi confondono la vista. Chiudo – riapro. Entro nei punto, esco fuori. Li abbraccio; sento la loro essenza di plastica, la loro materia liscia, dunque artificiale. Navigo nell’etere del loro nero. Inchiostro: dal nero si comincia a costruire lo spazio. Aguzzo la vista e alcuni punti nel punto si distaccano e sbianchiscono. Stelle o minuscoli corpi di una vita iniziale e ignota, d’una vita di metano. Quel nero non è un nero reale; è il nero che riconosce la natura. Ne abbiamo di sensi per descrivere il nero, ma parole non ne abbiamo, forse solo similitudini, immagini, quindi. Hans veniva dal nero, dal nero mi insegnava a riconoscere lo spazio e a plasmarlo. Navigava etereo nell’apparente nulla, come un’immagine tridimensionale. A- dimensionale, dimensione α. “Denominiamo, classifichiamo, incateniamo per chiamare” diceva Hans. “Sono giovane, abbraccio un punto, abbraccio una descrizione dello spazio, puntuale, descrivente, eloquente; ma non posseggo lo spazio. Inerzia oculare. Chiamano disperatamente le mie mani affinché dividano e confinino punti”. Hans ha mani deboli da vecchio, testa che si confonde, che non distingue i piani della realtà. INFERNO PROGRAMMATICO. Infermo. Ama le parole e la loro insensatezza. La bellezza nella non finalizzazione. Assunzioni di senso non gli servono, ma qualcuno gli disse che tutti serviamo a qualcuno. Hans è un ragazzo magro. Ha tanta aria nei pantaloni che gli fa sembrare le cosce possenti e piene come quelle dei giocatori di pallone. Non ha uno stipendio, non ce n’è che per i giocatori di pallone dalle cosce vere. La sua vita è un passaggio lungo l’autostrada, in equilibrio sulla linea di mezzeria, a cavalcioni sulle auto in corsa. Ama le cose che si mettono in mezzo, in mezzo fra lui e la comprensione. Per questo legge. Da quando ha incontrato il vecchio buon Holden, non smette più. Dà troppa retta, forse, alle voci senza volto, come si dice. Non abbellisce ciò che vede: solo, lo legge. Quando era un po’ più ragazzo di ora leggeva gli ermetici e il libro gli cadde sul naso: ne trasse un destino fatale e lo fece divenire convinzione. Era solito credere nel caso, ma aveva poca fede. Nubiforme. Raccattava ondeggianti estrazioni. Disgregazione sensoriale, scissione dei piani. Come quando sentiva suonare tasti di pianoforte dal fondo del palazzo, ma venivano dal piano di sopra; mai scorderà quel suono felice, da sempre in mente. Insetticida lento cosparge le gocce dell’infranta persona. Uso la commozione cerebrale come mezzo di locomozione spaziale. Vivo immergendomi e non conoscendo il concetto. Ormai tardivo per una nascita, aspetto l’evoluzione. Canto in prosa; la poesia, oggi, è negata. Guardo Hans che stropiccia la parete dietro Anselmo, che ha sonno. Penso che il ridicolo metro si sia spezzato, la lingua delle cose congiunte ha detto che a volte può entrare, ma con discrezione, per accontentare coloro che sono prossimi alla tomba. Mi racchiudo nell’ansa che non vedo per immaginare un contatto. La nebbia batte alle palpebre come a una porta per introdurmi al mondo delle cose mezze viste e mezze ascoltate. Hans ha dimenticato: solo così ha potuto non farsi del male. Ma il corpo ha pur freddo e ha più memoria di lui. E io mentre lo osservo segnare e bucare il foglio minacciosamente come stesse dissanguando un bue e il suo dio fosse scomparso e lui stesso fosse il sacrificio del suo sacrificio e della sua vita arrugginita, e io, mentre lo guardo, nella mia solitudine di spettatore che si ferma per concepire quando dovrebbe solo ottimizzare – agire, io lo fisso e rimango immobile nel fissaggio della sua immagine.
Un tempo il giorno era chiaro perché riuscivo a scorgere le ombre sotterranee degli alberi bassi e perché ero più basso delle ombre degli alberi bassi. Ridatemi aria, maestri delle altezze, io volo basso, anzi striscio, anzi mi trascino con dolore e con fatica e sono un altro di quei filosofanti lamentosi amici del nulla, ma non sapete quanto è vero il mio amore per il flusso vitale! Rovine di me, rovine è una parola romantica, come rovi e cassapanche. Imbianchini è realismo e neanche. Io, coso sono? Domanda banale o solo domanda antica? Questa domanda dovrei farla ad Hans. Lui si dice sappia tutto, come chi non parla mai, Non saprei, dovrei prima capire chi sono? Ma ci risiamo, domanda banale o antica, o vecchia inutile, stravecchia? Quando finirò di scrivere sarò di nuovo sul letto a girarmi i pollici e a ripensare al mio fallimento, dissestamento dalla linea tranquilla del mondo della mia persona irrisolta. Io non so che fare, io non so: teorema della paura. Io non spero. Il progresso era passato di moda quando cominciò a dirsi tale. Dissestamento, disfacimento, dissenteria. Asfissiante, radicale? Depresso ansioso. Discorde, monocorde, scordato. Pensandoci, me ne potrei andare a raccogliere la sabbia senza senso e a farla rifinire nella sabbia. Potrei riandare a compiere il gesto meccanico non finalizzato. Può un gesto meccanico non essere finalizzato? Fino alla fine con le parole potrei dire tutto, basta cambiare l’oggetto alla parola e la parola all’oggetto. Che musica dozzinale questa, ma perché prendere in causa le dozzine? La mia ignoranza non mi permette di comprendere le radici di ogni parola. Il liceo. Se avessi avuto Hans come compagno di banco: silenzio, mutismo, esplosiva vita. Ma ora dimentichiamoci di tutto e suoniamo Bach interpretandolo a suon di lettura metrica. Io ho rinunciato alla lettura metrica, non conosco misure. Così è facile, però, eh? Sono stanco, stanco visceralmente. Atroce successione musicale. Bisogna dimenticarla per crearla. Ho deciso di non chiedere e di orizzontarmi senza canne al vento. Me ne sono andato. È uno strano ragazzo Hans, se ragazzo è. Avrebbe potuto farmi insistere. Eppure quando lo osservo non so affatto contemplarlo: lo prendo tutto insieme, così com’è. Non dico che sia evanescente, ma nel suo giallo-rosso fascio di materia che gli copre gli occhi mi sembra di plastica, prodotto dei nostri giorni. Eppure mi ha portato lui a luoghi indistinti, più vicino a una possibile quiescenza. Lo ringrazio. È una crepa in questa superficie di Vinavil. Potrebbe valere un giorno di sole e nelle sue mani di polvere e parole volentieri starei più a lungo. Ma ho smesso di impegnarmi, me ne vado sotto la sfocatura del sottopassaggio che ha pure un passaggio sopra. Hans. Ero assolutamente immobile, quando dall’angolo la sua bocca uscì del tutto e parlò. Semioscurità, grigionero del buio. Vuoto. Sulla Z nera abbiamo viaggiato insieme o solo io ho viaggiato con te? Ti immagino disteso, con le gambe allungate che tastano l’inconosciuto, sei ribollente ma legato. Spilli nella bocca per aggiustare il vestito e fargli una nuova linea, quegli spilli sembrano bulloni nelle ossa. Mi distendo accanto. Gli spilli mi trafiggono ma i bulloni perdono la presa, mi disgrego e mille punte di dita d’un millimetro di diametro mi attraversano con premurosa immediatezza. Tutto sommato, stiamo bene. Mi fissi con discrezione. Che le mie viscere possano non essere stanche della mia stanchezza mortale, Hans. La mattina non è mai troppo presto. Se fosse sempre mattina. Reggere un ritmo. Reggere. E poi, aprire la finestra, andare più lenti. Essere costretti a sentire pessima musica. Essere stanchi e non volerlo essere e voler dormire, dormire. Io sento l’avanzare degli anni, può parer ridicolo. Oh, le cose minime e circoscritte, amore incurabile delle grandezze odiate, odiate. Mezzi termini. Mez-zi termini. Medietà. No, non mediazione. Questa volontà insopportabile di operare per la comunicazione. “Che le cose siano fatte comunicare da sé. Da loro stilla il frutto della comunicazione, sono immagine comunicante”. Hans me lo diceva sempre, mentre girava i pollici con le braccia cadenti e il sorriso smorto. Era così umano, mi faceva stare bene. Il problema dell’analisi è voler sapere il contenuto della comunicazione e non accontentarsi dell’atto di comunicare in sé.
Mi viene da rimettere: rigurgito terrestre, buon dio. Buon dio, caro dio, io sono nelle mie terre lontane e trovo il sole vecchio nella vecchia strada verde, ma non voglio mitizzarla, voglio solo dirla, dirla. Ognuno ha una parola, ma non mi violentino. Non violentino il mio pensiero, non violentino l’immagine. Tacciano. Urlate troppo. Non capite cosa sia la rivoluzione e urlacchiate, urlacchiate. Sembro insensibile. Anzi, sono puro ghiaccio, ghiaccio in mezzo al fuoco e alle livellatrici, ghiaccio possente e cancro del malessere, del tedio, dell’atroce cosa massiccia e nodosa che chiamano dolore. Io cerco l’ombra, se è possibile la curva dietro la casa, dove è stretto e anche un poco pizzica sotto lo stomaco per la paura. Io e Hans correvamo per nasconderci da spaventi immaginati. Avevamo paura di quella cosa dietro, di quella cosa stretta.
Giustamente, tu devi vivere. E io non ti posso biasimare. Tu devi cercare la migliore realizzazione della tua permanenza. Hai costruito case e io non ne conosco le regole. Io ti guardo da qui, dalla bassura. Un termine che non si usa, ci sono termini dimenticati. Io me ne andrei con te, ma non con te che ti descrivo, con te che ti penso. Me ne andrei. Chissà dove. La tua assenza è una voce che non può più essere, una condizione non più creabile, un continuo attentato, e non quelli di cui si parla. Il vomito per le cose. La violenza della tecnica, la violenza dell’estensione dell’uomo. Tornare indietro. La mia scrittura è una forma di espiazione.
Ora che dobbiamo rimanere soli e vederci da lontano attraverso i fondali girati dei bicchieri, ora che la muta vicinanza si trasforma in una distanza strappata, ricordati di quando Thoreau andò nel bosco per amore d’una possibilità. Apri il tomo di Rousseau, quello con la copertina che sembravi tu, Hans. Aprilo e guardami, abbracciami.

Sabrina Volpe

Hans, professore ed eccellente filosofo quale era, ci introdusse alle scienze umane. Ci avvicinammo a tutte quelle scienze che riguardano l’uomo e la società, ricordi, fummo subito colpiti dalle sue abilità di brillante narratore e cominciammo ad appassionarci ai suoi racconti che ci inducevano a riflettere sulla vita e il nostro futuro, e nonostante fosse insignito di un titolo di laurea ad honorem, non ci fece mai sentire inferiori, anzi, un giorno ci disse che ogni uomo, dotato di una ragione, era in grado di filosofare perché il suo intelletto non gli avrebbe mai impedito di ricercare la verità. Ecco, Ines, io ero sempre alla ricerca di quella verità. Ti invito ad aprire quel cassetto e ad appropriarti del taccuino. Per poterlo aprire hai bisogno della chiave, la troverai sotto il portavaso della tua amata orchidea. Sono consapevole che una vita non basta per mettere in pratica tutti gli insegnamenti che ho appreso e per evitare gli sbagli che ho fatto, vorrei poter vivere altre mille vite differenti, ma questo non è possibile. Per questo motivo ho cominciato a portare con me sempre un libro diverso, che mi facesse volare fuori da questi schemi e oltre la realtà. Questo è tutto. Tuo per sempre. Lorenzo.Mio Lorenzo, come mi accennavi nella lettera, ho spostato il portavaso, ed è apparsa magicamente la chiave. Un tuffo al cuore mi ha raggiunto. Non mi spiego come ho fatto, in questi giorni, a non notarla. Forse perché il mio pensiero era altrove e, adesso che ci rifletto, mi rendo conto di non essermi presa cura della mia orchidea come ho sempre fatto. Ero eccitata ma, al tempo stesso, non ti nego di essere stata un po’ in apprensione perché non avevo idea di quello che mi sarei dovuta aspettare una volta aperto quel cassetto. Così ieri sono entrata nella camera di Elena. Erano alcuni mesi che evitavo di entrarci, ci passo regolarmente davanti e, qualche volta, in preda alla nostalgia apro la porta e getto uno sguardo veloce, ma poi i ricordi prendono sempre il sopravvento e non entro. Da quando Elena si è trasferita in Australia, per vivere il suo sogno, sono felice per lei, ma la sua mancanza è una voragine nel mio cuore che io non sono in grado di arginare. Anche se non è mai stata il frutto del nostro amore, io l’ho sempre considerata come una figlia, come del resto facevi tu. Ricordo quella giostra, e il tuo sguardo che spiava i miei pensieri, avrei voluto dirti tutto quello che mi passava per la testa in quel momento, ma sapevo che se lo avessi fatto avrei spezzato l’incantesimo tra di noi. Allo stesso tempo ho sempre avuto la certezza che stessi leggendo i miei pensieri più intimi, e le parole, allora, sarebbero state inutili. Ho inserito le chiavi nella piccola fessura, ho aperto il cassetto e il taccuino verde si è materializzato sotto ai miei occhi. Non sono stata capace di frenare le lacrime: hanno cominciato a rigare il mio viso e, arresa, sono scoppiata in un pianto liberatorio. Avevo proprio bisogno di farlo. Dopo che te ne sei andato ho cercato di reagire, te lo avevo promesso e l’ho fatto, però sai che sono sempre stata una donna forte ma sensibile, e le emozioni mi turbano, continuamente. Oggi più che mai. Nel cassetto ho trovato una scatolina rossa che conteneva un biglietto e una catenina con una placca a forma di cuore, in cui c’è inciso: “Ciò che non mi distrugge mi rende più forte”. Una frase di Nietzsche, uno dei tuoi scrittori e filosofi preferiti. Nel biglietto ho letto che avrei dovuto indossarla. E così ho fatto. Poi ho preso il taccuino tra le mani e ho incominciato a sfogliarlo. Ogni pagina è datata e numerata, dal numero 1 al numero 27. Il primo giorno corrisponde al quattro di agosto, il giorno in cui la mia vita si è spezzata, e via di seguito, fino a giungere al trentuno del mese, che corrisponde al numero 27. Ogni pagina racchiude una mia foto, inedita, un pensiero tuo e le frasi dei libri che leggevi in quel momento. Sono rimasta senza parole. Ho letto i tuoi pensieri, i tuoi desideri e il dolore che ti attanagliava. Un dolore che avremmo dovuto affrontare insieme, invece, ognuno ha deciso di tenere il proprio nascosto nel cuore. Ti chiedo scusa perché la paura, la disperazione e la perdita mi hanno reso cieca. Ti ho tenuto nascosto quello che, invece, avresti dovuto sapere. Ora capisco di avere sbagliato. Sapevi quello che stavo affrontando ma, nonostante tutto, hai deciso di rispettare il mio silenzio e la mia “assenza” nella tua vita e ti sei momentaneamente allontanato, come desideravo che tu facessi, ma non hai mai smesso di cercare la verità. Ero troppo giovane e immatura per capire che stavo sbagliando tutto e, in seguito, non abbiamo mai avuto il coraggio di parlarne. Ringrazio Adelmo per averti accolto nella sua preziosa libreria e tutti gli amici per essersi presi cura di te. Hai dimostrato di essere un ottimo padre per Elena, lo saresti stato anche per il nostro bambino. Sono certa che fosse un maschio. Per sempre tua. Ines.

Andrea Marlano
“Non male come inizio… senti questo se ti ispira.
Deborah McFei, Debbie per gli amici, era seduta al Café Procope, il più antico di Parigi, intenta a leggere l’ultima edizione de Le Monde che pontificava sulla magnificenza dell’Esposizione Universale. Anche lei era arrivata in Francia al seguito del suo fidanzato per la fiera parigina di inizio secolo. Si chiedeva da giorni se questa avventura sarebbe stata una svolta nella sua vita o un’altra delusione.”
– Le consiglio di non lasciarlo scaldarsi troppo… il vermouth caldo ha il gusto dello sciroppo per la tosse.
Debbie si destò dai suoi pensieri e si volse verso il suo interlocutore. Un uomo, sulla quarantina, vestito in maniera elegante, ma non affettata, seduto a un paio di tavolini più a destra del suo. Era intento a leggere anche lui un quotidiano e a sorseggiare una birra.”
“No dai… una storia d’amore no, lo sai che non mi piacciono…”
“Come fai a dire che sia una storia d’amore…”
“Si capisce, si capisce… oh, ecco questo, già la copertina mi piace… prendo una pagina a caso…
Ancora in pigiama, i tre attraversarono il corridoio che collegava le camere da letto con la sala. Mentre stavano per raggiungere l’ingresso dell’appartamento, i vetri delle due finestre del salone esplosero in mille frammenti. Altre culicidi si riversarono nell’appartamento. Neia fece in tempo a prendere Ideka in braccio, prima che sua madre la spingesse giù per le scale della casa, mentre suo padre affrontava i mostri. A piedi nudi corsero a perdifiato per i quattro piani che li separavano dalla strada. Sten si fermò diverse volte per far fuoco con il vecchio fucile di suo padre, che per sua fortuna teneva sempre pronto nel ripostiglio dell’ingresso. I pallettoni con i quali era caricato facevano scempio dei fragili corpi dei culicidi, ma appena una cadeva due prendevano il suo posto e le cartucce sarebbero finite presto.
Arrivati in fondo alle scale attraversarono il cortile del condominio. Neia alzò la testa e urlò di paura. Il cielo sopra la casa era coperto da una miriade di zanzare che turbinavano nelle correnti calde per poi lanciarsi in picchiata contro le finestre che si affacciavano nel cortile. Urla di paura e disperazione degli inquilini spezzarono il silenzio della notte.
– Sono dappertutto… dove andiamo?! –
– Il silo… ci chiuderemo là sotto… la temperatura è anche più bassa…
Neia e i suoi genitori uscirono dal portone di casa e attraversarono di corsa i pochi metri che li separavano dall’ingresso ai garage sotterranei, ubicati sotto il parco di fronte al loro condominio. La città era completamente nel caos. I culicidi sciamavano a migliaia, irrompendo nelle case dalle finestre e assalendo gl’ignari e indifesi cittadini. Mentre correvano verso l’ingresso delle scale del silo, Neia vide la raccapricciante fine del Signor Sevastus. Un grosso culicide lo aveva folgorato con la sua scarica elettrica, lasciandolo a terra tramortito. Poi schiacciandolo al suolo con le zampe e le mani aveva estroflesso il suo pungiglione perforando la schiena del povero custode. La mostruosa zanzara aveva preso a succhiare avidamente il sangue della sua preda. L’immagine era orrenda, man mano che il fluido veniva sottratto dal povero Sevastus, il suo corpo diminuiva di volume, rinsecchiva velocemente, mentre il ventre bulboso del culicide si dilatava oscenamente. Neia vide con terrore crescente la zanzara sorridere con la sua orribile bocca, ebbra del suo pasto. Sembrava fosse ubriaca e il rosso del sangue sottratto alla sua vittima era ben visibile attraverso la sottile pelle del ventre.”
“Un horror! Già questa situazione mi sta terrorizzando e tu non trovi di meglio che leggere un horror?”
“Mamma mia… non ti facevo così sensibile.”
“Questo, questo mi sembra migliore.
Doveva ammetterlo era eccitata, ora fisicamente, sentendo il suo sesso bagnarsi rapidamente. Entrò nella stanza delle simulazioni, si spogliò nuda, benché non fosse necessario. Estrasse il cavo retrattile dalla console di comando e inserì il jack terminale nella sua presa craniale alla base del collo.
Accese il monitor e scrisse ad Hans per vedere se era pronto, sperando che non fosse venuto nelle mutande o soffrisse da ansia da prestazione. Lei stessa era angosciata oltre che eccitata. Non lo faceva da troppo tempo. Sorrise e accese la comunicazione. Un lampo di luce bianca esplose dietro i suoi occhi, sentì un basso ronzio nelle orecchie, man mano che il sensisitema lavorava per ingannare il cervello. Non c’era più la vuota stanza della simulazione, ma la camera di un hotel di lusso, con vista su Nuovo Sinai al tramonto. Il paesaggio era fantastico. La spiaggia color lilla per il pigmento delle alghe citrumite, la luce purpurea del tramonto di Kepler-22 e le due lune nel cielo che virava al blu scuro. Pochi istanti dopo vide entrare dalla porta Hans. Vestiva una camicia bianca e un paio di pantaloni beige di lino. Era a piedi scalzi. Lei indossava solo una sottoveste color avorio. Si incontrarono al centro della stanza sorridendosi. Irina gli accarezzo il viso e lui le baciò la mano. Si protese verso il suo amante, gli sfiorò le labbra con le sue, sentendo la bocca di lui schiudersi desiderosa. Si tirò indietro di qualche metro sorridendogli maliziosa.
– Irina, non abbiamo molto tempo…-
Lei tornò sui suoi passi, lo afferrò per la camicia tirandolo a sé e baciandolo con passione. Le lingue che si inseguivano molli e lascive nelle loro bocche. Poi si allontanò di nuovo sorridendo.
– Non mi interessa.
Hans si fece avanti per agguantarla, ma lei si era spostata a una velocità sovrumana alla sua destra, lasciando una breve scia di immagine.
– Oh andiamo! Velocità aumentata… sei disonesta!
Irina proruppe in una risata cristallina. Era vero, era stata disonesta. Aveva impostato le specifiche per simulare la realtà, tranne che per la sua velocità, pari a quella di un fulmine.
– Prova a prendermi!
Hans si tolse la camicia e poi fece uno scatto verso di lei. Irina schivò l’assalto e i successivi due. Al terzo, Irina non sapeva come, si ritrovò fra le sue braccia, saldamente afferrata.
– Come diavolo…
– Sarai anche veloce, ma sei destra e ti muovi sempre in senso antiorario, basta calcolare la traiettoria
Questa volta fu lui a baciarla, con passione, spingendole dolcemente ma con determinazione la lingua in bocca. Lei mugugnò eccitata e lo abbracciò forte godendosi il maschio abbraccio. Sentiva distintamente il suo membro spingerle sul ventre attraverso i pantaloni. Lui non le diede tempo di riprendersi, si abbassò lesto e con qualcosa che sembrava una mossa di lotta la stese sul letto. Irina cercò di sottrarsi, ma con le braccia lui le cingeva da sotto le cosce. Sentiva il suo alito caldo sulla sua vulva ormai madida. Sapeva quanto Hans desiderasse farlo. Ne avevano fantasticato a lungo. Quando la bocca del suo amante la toccò, le sfuggì un gridolino. Era focoso e impaziente, faceva di tutto per non essere irruento, ma si sentiva il bisogno di possederla, di farla sua. La lingua penetrò mollemente fra le grandi labbra, ispezionando la sua cavità con movimenti circolari, alternati a brevi guizzi sul clitoride. Non aveva un orgasmo da diversi giorni e temeva che sarebbe giunto da lì a poco. Tuttavia, non riusciva a staccarselo di dosso, ma forse neanche lo voleva, tanto era bello essere baciate così. Si accorse che la sua gamba destra era piegata sotto il suo ventre e con la punta dell’alluce si infilò nei pantaloni sbottonati di lui, sfiorandogli il membro duro. Lo voleva. Voleva essere penetrata e scopata con foga.
Hans si tirò su di scatto, gli occhi sbarrati. Irina ebbe un sussulto, temendo di avergli schiacciato i testicoli.
– Ti ho fatto male?!
– No, no, no, non adesso…
Hans si era alzato e guardava nel vuoto alla sua sinistra.
– Che succede Hans… parlami…
Lui la guardò laconico un secondo, pieno di tristezza.
-Ruan.
Poi sparì. Si era sconnesso.”
“Sesso? Stai cercando di dirmi qualcosa, furbetta?”
“No, tranquillo, sei già arzillo di tuo… e tieni giù quelle manacce sai!”
“Guastafeste!”
“Sulla mensola ce n’è un altro, prendilo e leggimi qualcosa, dai…”
“- Sta ancora lavorando sulla sua teoria?
Luca guardò la cartelletta di un color giallo sbiadito accanto a sé, vicino al portatile. Erano gli unici strumenti di lavoro rimastigli e non se ne separava quasi mai. Si afferrò tra il pollice e l’indice della mano sinistra la base del naso e chiuse gli occhi. Si sentiva stanco. Stanco come non lo era mai stato. Ma sapeva che doveva andare avanti. Sapeva che la sua teoria era giusta, doveva solo trovare le prove. Quella sarebbe stata la sfida più difficile della sua vita, ma nulla l’avrebbe fatto demordere. Lo doveva ai suoi figli, a sua moglie. Il dolore per la perdita era ancora forte. Non c’era notte che non li piangesse. Non c’era giorno che non pensasse a togliersi la vita. Ma ogni mattina si ricomponeva e cercava di andare avanti. Come ogni sfollato prestava lavoro nei campi, faceva la sua parte, ma appena aveva del tempo libero cercava di mettere insieme i tasselli di quel rompicapo che era con tutta probabilità la fine del mondo civilizzato.
– Ha scoperto qualcosa di nuovo?
– No, Padre, ormai la linea internet è caduta definitivamente da sei mesi… le comunicazioni fra i diversi paesi, o quello che ne resta, sono ormai sporadiche… penso sia a causa del collasso del sistema energetico. Non so quante centrali elettriche funzionino ancora…
– Vedrà che prima o poi le cose si aggiusteranno…
– Padre, per favore, non mi spacci le solite cazzate sulla speranza che propina ai suoi fedeli la domenica… come cazzo si fa a essere ottimisti in questa situazione?! È la fine del mondo, l’ha capito o no?
– Certo che l’ho capito… noi cristiani sappiamo di questo momento da secoli. Non dico che sia facile da accettare, ma confidiamo in quello che verrà dopo.
– Sì, sì lo so, l’armageddon e il regno dei cieli e bla, bla, bla… non andiamo oltre, per favore.
– Come vuole… ma è stato lei a tirare in ballo la fine del mondo, cosa si aspettava che le rispondesse un prete?
Luca alzò gli occhi al cielo, cercando di non imprecare. Nessuno come Padre Bortolotti gli faceva perdere la pazienza, ma era anche l’unico che ascoltava ciò che aveva da dire.
– È riuscito a trovare… come l’aveva chiamato? Ah sì… l’evento scatenante?
– No, o per meglio dire non penso ci sia un evento preciso.
– In che senso?
– Nel senso che non sappiamo quando l’epidemia è cominciata, non c’è nessun paziente zero, tutto è esploso in maniera progressiva… io ipotizzo dal 2015, ma potrebbe essere anche precedente.
– Parla di epidemia, ma non crede che si tratti di un virus…
– Sì, esatto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha battuto la strada dell’epidemia di una malattia infettiva che causasse follia, ma non ha mai trovato tracce di un possibile virus o batterio responsabile.
– Secondo lei di che cosa si tratta, allora?
– Sto elaborando una mia teoria… ne avevo parlato anche alle autorità, quando ancora esistevano, ma non mi hanno preso sul serio… in un certo senso non posso dare loro torto, non ho mai avuto prove certe, ma in assenza di qualsiasi altra spiegazione plausibile, avrebbero potuto darmi un po’ più di credito.
In quel momento entrò Florin, un rumeno che lavorava con Luca nei campi.”
“Fermati… come si intitola? No anzi… non lo voglio sapere… ”
“Ehi, ehi… andrà tutto bene, vieni qui…”
“Quando finirà questa storia… non ne posso più.”
“Andrà tutto bene tesoro, andrà tutto bene…”

Laura Verde

Riccioli sbarazzini, fascino da intellettuale irlandese, voce profonda. Dall’abbigliamento veniva da lontano.
Sembrava stanco e preoccupato, ogni giorno di più. Conosceva Adelmo per vecchie amicizie comuni e da lui si faceva procurare articoli scientifici e testi rari di medicina, chimica, biologia, farmacologia… In quell’agosto ogni giorno faceva più caldo, ogni sera l’afa era più insopportabile; ma non era questo a preoccupare: stava succedendo qualcosa di strano che ancora oggi farei fatica a definire, ma che allora era impalpabile, silente, mimetizzato in una quotidianità che a poco a poco perdeva di consuetudine.
Provo a spiegarmi meglio: nel nostro piccolo paese di giorno in giorno aumentavano gli errori, le dimenticanze, gli incidenti, le incomprensioni. I guai si moltiplicavano, ma si trattava di piccole cose, sporadiche e in ordine sparso, perciò nessuno vi dava il peso che meritavano. L’imbianchino sbagliava la tinta, il vigile alzava il braccio sbagliato, l’edicolante contava male il resto, la maestra faceva errori di ortografia e sintassi, il pasticcere sbagliava a dosare gli ingredienti… ogni giorno le cose andavano peggiorando, era lampante, ma si faceva fatica a rendersene conto e a cercare una spiegazione. Si dava la colpa a quella calura e alla conseguente stanchezza. Noi tutto sommato ci sentivamo in forma, ci tenevamo lontani da quella sbadataggine contagiosa, con Lory e Chicco ci rifugiavamo sempre più spesso da Adelmo per dimenticarci di quella gran confusione. Un pomeriggio come tanti entrò Hans, ormai ci si chiamava per nome, non salutò e più agitato del solito esclamò: “Leggete! Continuate a leggere! Non ascoltate le parole di chi vi sembra impazzito e leggete! È l unica salvezza, passerà, ma non deve prendervi tutti! Ora ne ho la certezza.” Era visibilmente turbato. Sconcertati, aiutammo il buon Adelmo a calmarlo e davanti a una limonata fresca decidemmo tutti di dare fiducia a quella testa riccia, poiché in quei pazzi giorni in cui tutti davano i numeri le sue folli raccomandazioni sembravano quasi sensate. Decidemmo di capirne di più. Con la fronte aggrottata e le labbra tremanti, tra un sorso e uno sbuffo ci spiegò che da dove veniva, un freddo paesino dall’altra parte del globo, era capitato lo stesso: in un paio di settimane il mondo pareva essere precipitato nell’insensatezza e lo stesso era capitato in tanti altri luoghi che aveva visitato.
“Sospiro rovente” lo chiamava. Si percepiva dietro le orecchie, lungo il collo, tra i capelli e in un attimo le parole cominciavano a sparire dalla mente, le conoscenze più radicate evaporavano come acqua al sole e si portavano via di ora in ora vocaboli, informazioni, nozioni, lasciando la persona in uno stato di ignoranza sempre più profonda. Arrivava in un giorno di sole e svuotava la mente di chi incontrava per poi passare altrove. Ma non era finita. Secondo Hans le persone si contagiavano le une con le altre ascoltandosi e divulgando così l’oblio. Più si incontravano e comunicavano più uno dopo l’altro gli individui diventavano incapaci di fare ciò in cui erano più abili, scordavano le cose che più conoscevano e rapidamente si creava il caos.
Carissima Ines, le mie parole ti sembreranno assurde, ma assurdo era ciò che stavamo per vivere in quei giorni di agosto…
Inizialmente, benché il suo tono sembrasse molto convincente, faticavamo a credere a quel che il viaggiator lettore raccontava, ma bastava affacciarsi alla finestra della libreria per capire che forse la sua spiegazione aveva qualche fondamento: in pochissimo tempo la situazione stava degenerando. Era da non credere: noi tre, Adelmo ed Hans attutiti da una montagna di manoscritti e fuori un mistero che devastava la popolazione spandendosi come un virus sconosciuto! Domandammo all’uomo come fosse possibile, che origine aveva quel “sospiro rovente” e come aveva fatto lui a salvarsi… Ci raccontò in breve e con grande sincerità e rammarico di non aver ancora scoperto l’origine di quel male, quel che aveva osservato con certezza era che giungeva dopo una tempesta di fulmini, anticipato da giorni di temperature in netto rialzo; è così che aveva trovato i luoghi colpiti dopo la sua cittadina, e così era giunto lì, seguendo i cambiamenti del cielo. Purtroppo era giunto ovunque sempre troppo tardi e riparare ai danni richiedeva molta fatica, le persone non capivano e non si fidavano, non accettavano i suoi consigli, volevano andare avanti con le loro abitudini cercando di far finta di nulla… perciò Hans doveva aspettare che lo svuotamento delle menti giungesse a tal punto che la gente eseguisse le sue direttive non per scelta ma per incapacità a far altrimenti. Questa volta era diverso, aveva trovato loro ed era arrivato prima delle altre volte.
Cara Ines, sul taccuino verde puoi trovare, su un foglietto ingiallito e ripiegato, i nomi delle cittadine colpite prima della nostra che Hans aveva annotato, accanto c’è illustrata una mappa ma noi non trovammo mai una logica spazio-temporale alla diffusione, forse tu saprai fare di meglio.
Leggendo le mie parole ti starai chiedendo come le persone fossero guarite, ebbene lo domandammo anche noi e di seguito potrai capire meglio il susseguirsi dei fatti. Stando alle sue parole ciò che lo aveva protetto, insieme a pochi altri, e che aveva permesso di guarire le persone erano i libri. Hai capito bene, proprio i libri! Ogni fonte di conoscenza, ogni fonte di sapere, ogni nutrimento per la mente e per l’anima che quel soffio stava svuotando. Ragionando, riflettendo e sperimentando, nonostante tutto ciò che accadeva gli paresse senza senso, si accorse che chi continuava a leggere e inserire nuovi e vecchi elementi nella propria testa non dimenticava e che chi riusciva a prestare attenzione a parole sensate e a racconti logici piano piano rinsaviva. La cosa peggiore e più debilitante di quel risucchio era che andava a colpire per primo ciò in cui si era più esperti, per poi lentamente andare a scalfire anche le memorie più banali. Faceva il resto il passaparola, ormai irragionevole, peggiorando la situazione e creando un’epidemia del non sapere. Adelmo pareva spaventato e intontito da quei racconti; ci disse che doveva chiudere, di prenderci tutti una pausa di riflessione per riparlarne l’indomani. Così facemmo, ma avevamo poco da decidere: anche se tutto poteva sembrarci quantomeno bizzarro, non c’era tempo e valeva la pena tentare di intervenire seguendo le indicazioni ricevute da Hans, dato che le persone sembravano ricordare a malapena il loro nome e indirizzo. Così il giorno dopo organizzammo una breve riunione e ci organizzammo. Il piano era semplice e il libraio era dei nostri: noi quattro avremmo dovuto in breve ri-indottrinare mezzo paese e farci aiutare da chi come noi scoprivamo non esser stato contagiato. Dovevamo usare ovatta nelle orecchie per non ascoltare l’assordante vociare senza ragione della popolazione, leggere più che potevamo e raccontare alle persone più influenti e con le menti più fertili. Non era facile come sembrava, poiché la logica ci diceva di partire dalle basi per riportare l’ordine ma poi avremmo dovuto aiutare le persone a ricordare i loro saperi specifici, ciò di cui si occupavano nella società… Hans ci incoraggiò spiegandoci che per i più elastici bastava riascoltare o rileggere anche solo l’inizio di un’argomentazione già conosciuta per riacciuffare tutti i ricordi sul tema. Ci rendemmo conto che avremmo potuto organizzare dei gruppi e fare ciò che, un po’ per gioco e un po’ per curiosità, già facevamo noi tre da Adelmo leggendo l’incipit dei libri nei giorni di estrema calura!
Inoltre un’altra cosa preziosissima che scoprimmo parlando con la gente era che i bimbi erano i meno colpiti da questo morbo e si rivelarono perciò fondamentali nel ridistribuire le nozioni più semplici di italiano, matematica, storia, scienze e geografia che erano state scordate dai più sbadati. Si divertirono un sacco in quei giorni a giocare ai maestri con gli adulti! Ci credi, Ines? Proprio i più piccini, di solito più fragili, in questa occasione furono forti! La spiegazione che mi sono dato è che il “sospiro rovente” ghiotto di tecnicismi trovava ben poco di cui nutrirsi in menti ancora da plasmare, che perciò ben si difendevano anche dai discorsi bizzarri e contagiosi dei grandi, abituati ad affrontare tra loro fantasiosi e a volte poco strutturati dialoghi… ma forse a te verrà in mente una motivazione più convincente…
In ogni modo, inutile stare a descriverti l’incredulità di tutto ciò che avvenne, la difficoltà nel convincere i più testoni a seguire semplici indicazioni come il tapparsi le orecchie e chiudersi in casa qualche ora davanti a un libro… ci fu però anche la gioia riscoperta di vedere tante persone nuovamente con in mano pagine profumate, carta scritta, copertine colorate e riscoprire noi stessi il piacere sempre nuovo di leggere e raccontare! Fu un mese faticoso. Ti scrivo un mese, ma non so realmente quanto tempo trascorse, sembrò un’eternità, ma una volta ristabilito l’ordine ce ne scordammo presto e sembrò subito lontano…
Ti chiederai perché non te ne ho mai parlato, ma soprattutto perché nessuno ne parlò.
La seconda risposta è semplicissima, tutti quelli colpiti non ricordarono nulla, e i bambini lo vissero fortunatamente come una parentesi giocosa. Hans dopo la riunione sparì nel nulla lasciando solo un bigliettino che troverai sempre nel famoso taccuino. Lory e Chicco seguirono il suo esempio e partirono per la guarigione di altri luoghi, con Adelmo che chiuse bottega. Io… beh, io non ti dissi nulla perché anche tu come gli altri, sebbene in modo leggero, cadesti vittima di quel misterioso malanno e non ricordi nulla. Te lo sto dicendo ora perché son dovuto partire anche io: questa strana influenza sta dilagando irrefrenabile e invisibile nel mondo; ma qualcuno qui nella mia terra natia doveva sapere, semmai il soffio tornasse. Ora sono anche io un viaggiator lettore… Sai cosa fare!
Ti abbraccio e ti lascio, per restare in tema, questa frase di Ray Bradbury, autore di fantascienza che probabilmente mai avrebbe pensato che le sue parole sarebbero suonate così vere…
«Dovete essere ubriachi di scrittura, così che la realtà non riesca a distruggervi.»
Con affetto, Jo.
Ines corse in camera di Elena, spalancò la porta, trepidante, e aprì il cassetto. Sfogliò il taccuino e trovò la lista dei paesi, il biglietto di Hans (che citava: “Andrà tutto bene, aprite la mente e immergetevi con curiosità e passione nella lettura del buon sapere, spero di non dover tornare.”) e un segnalibro in cuoio… sembrava antico, sopra c’erano le iniziali del caro Jo. Lo strinse forte a sé e ne respirò il buon profumo.

Bernardino Mattioli

Tu eri curiosa e silente, caratteristiche adatte alla tua età che si contava sulle dita di una mano aggiungendo il pollice e l’indice dell’altra mano.
Sette anni di talento che fermentavano tra fogli macchiati di storia e di storie, di vita e speranza, fra odori fugaci di sigari suadenti.
Io stringevo i denti anche se era il mese di agosto, non volevo farti pesare il mio impegno fra le difficoltà comuni, ma so che le cercavi, scrutavi la verità, la elaboravi e la mischiavi alla lettura dentro quella nostra casa di legno e cultura, fra le tue fiabe con rime di fate.
Hans e Adelmo erano già amici, ma non li avevamo mai visti assieme.
Hans e Adelmo erano la stessa persona.
Ricordo quando te ne accorgesti, spaventata ma poi fiera e gelosa di una scoperta nuova.
Quando interpretava Adelmo aveva un cenno di barba intelligente bianca e grigia con una pancia raffinata e una parrucca semi-calva. Le volte che si trasformava in Hans invece, manteneva un linguaggio austero e preciso, schiena dritta, capelli corti e occhiali neri, con plantari che lo slanciavano verso il solaio dove altre cataste di libri ordinate per colore decoravano la parte meno visibile della libreria di corso Francia.
Cominciammo così per gioco a raccontarti piccole bugie, nuove favole per te, bambina assetata. La gioia di condividere un presente che ci appariva eterno ci dava la speranza che a sua volta ci rendeva giocosi e liberi. Tu eri la cavia giusta perché sapevi ingenuamente divertirti e divertirci. Dentro quella libreria hai perfezionato il tuo sapere, forgiando una personalità adatta a un mondo mite ma vigliacco. Quei libri coccolati negli anni ti hanno fatto amare più Hans di Adelmo, poi fusi in un unico glaciale evento di confusione che d’istinto intitolasti “Caprette Selvagge”. Il giorno dopo senza perdere tempo avevi già iniziato il tuo primo romanzo nel solaio colorato che portava quel titolo, modificato poi nella fase finale in: “Hans-Elmo (Caprette Ribelli)”.
La storia di un dualismo, di un inganno che avresti poi sperimentato là fuori nel mondo dei rumori e del tempo perso.
Poi, in un altro giorno più distante, a sudata fatta, a sfogo compiuto, a scudo completato ti sei avvicinata delicatamente a quel comodino di nostra sorella Elena, dove ti eri volutamente scordata di guardare forse per non confonderti, forse perché non era il tempo consono, forse perché volevi essere più forte e far finta fosse capitato tutto per caso.
Ti sei seduta su letto con le ginocchia unite e le scarpe basse, la gonna che accarezzava retta la parte alta delle rotule, severamente grigia, e scartavi le prime e pescavi nel bel mezzo del mazzo la lettera, l’appunto più adatto, quello con più rancori e meno poesia che diceva così:
“Credo ormai che Ines meriti di sapere questo segreto stantio. Il gesto è diventato storia e lei è pronta a farne parte. Hans avrebbe usato l’accento germanico x comunicartelo, Adelmo avrebbe depistato con un colorito e divertito sillabare romagnolo, ma il concetto sarebbe stato lo stesso che io ancora non mi sento davvero di raccontarti in questa lettera.
Scusami, Ines, prova con la prossima, lì ti prometto che sarò meno sobrio e più risolutivo, conquistando quel coraggio a tempo determinato che parlerà di noi come mai nessun gesto, purtroppo, ha saputo fare.”

Riccardo Maria Bonomo

Era rannicchiato in un angolo della libreria, sepolto tra pile di volumi che a stento ne lasciavano intravedere la figura, quel sabato pomeriggio in cui le strade della città erano frenetiche, rumorose, brulicanti di vita… Mi colpì subito quel bizzarro individuo: la barba folta e grigia che gli copriva il volto rotondo, gli occhi piccoli e vispi, rapiti dalle pagine che frusciavano sotto le sue dita, la pelle del viso floscia e butterata, qualche capello, sparso, che gli cascava sulla fronte.
Franco e Lisa sghignazzavano con Adelmo di non so quale cliente che, poco prima del nostro arrivo, aveva intavolato una scenata per non so quale ritardo nella consegna di non so quale libro, e pareva che nessuno di loro si fosse accorto della presenza di quell’ombra ricurva, che spulciava indisturbata tra gli scaffali, alla ricerca di non so quale verità nascosta, che giaceva, come lui, nell’indifferenza generale.
Ti sembrerà assurdo, ma più l’osservavo e più mi si figurava nella mente una sorta di sacerdote di un antico culto misterico, che interrogava, come un augure, le viscere della letteratura: mi assalì allora un’irresistibile voglia di esplorare, insieme a lui, il cuore del sapere, di tutti i saperi accumulati per millenni e tramandati di bocca in bocca, intorno a un fuoco, e poi di mano in mano, dentro a un libro, perché, per un capriccio del destino, capitassero quel giorno tra i suoi palmi.
Presi coraggio e mi avvicinai quatto quatto a lui, che non dava alcun segno di apprensione, tant’era assorto nelle sue letture: finché, senza nemmeno sollevare il mento, mi rivolse una domanda secca e aspra.
“Che vuoi?”
Quella reazione inattesa sulle prime mi destabilizzò, e a stento trattenni il mio imbarazzo nell’aver destato il sacerdote dal suo rito inaccessibile: “Perdoni la mia indelicatezza, mi stavo semplicemente chiedendo che cosa stesse leggendo, e così, ecco… Mi scusi, sono stato sciocco”.
La mia risposta, inaspettatamente, lo indusse a voltarsi verso di me e a interrompere la sua funzione: mi stupì il grigio delle sue pupille, irradiate di una luce algida, eppure stranamente calda; le sue labbra raggrinzite accennarono una specie di sorriso.
“Il ritratto di Dorian Gray”, mi rispose, “Wilde è un genio”.
“Come darle torto!”, replicai, sorpreso di aver innescato quel moto di quieta gioia.
Fu in quell’istante di reciproca euforia, che accadde l’imprevedibile: dall’esterno della libreria si avvertirono delle urla e, voltandomi, assistetti a una scena che ancora mi fa tremare a raccontarla. Là fuori nugoli di persone correvano impazzite in preda al panico e riecheggiava confusamente l’eco di un altoparlante.
Raggiunsi con un balzo Franco e Lisa, chiedendo loro cosa stesse accadendo, ma proprio in quell’istante il rumore indistinto dell’altoparlante mi si fece più chiaro, e riuscii a percepire la voce cavernosa del sindaco che parlava.
“A tutti i cittadini: chiudetevi immediatamente nelle vostre case. Ripeto: chiudetevi immediatamente nelle vostre case. Bombardieri nemici in arrivo”.
Mi saltò il cuore in gola, e subito capii cosa stesse succedendo: era il segnale di una guerra. Una guerra! Ma contro chi? E per quale ragione? Non ne avevo la benché minima idea, mentre camminavo nervosamente da un capo all’altro della libreria, pensando soltanto che da un istante all’altro poteva caderci una bomba addosso: la voce concitata di un giornalista del telegiornale mi riportò alla realtà. Adelmo, infatti, si era precipitato sul telecomando del televisore che campeggiava sopra la cassa: “Notizia dell’ultima ora: la Corea del Nord ha dichiarato guerra all’Italia, inviando i suoi cacciabombardieri sulla città di Torino. Il presidente del Consiglio ha subito allertato il sindaco di Torino perché potesse informare la popolazione locale”.
Immediatamente, Adelmo si catapultò all’ingresso della libreria, per barricarci dentro abbassando la saracinesca.
Franco e Lisa restarono frastornati e, cogliendo tutti di sorpresa, risuonò un grido alle nostre spalle: era Hans, sebbene ancora non conoscessi il suo nome.
“Calmi! Stiamo tutti calmi. Dobbiamo pensare ad altro”.
La sua forza lucida ci lasciò sgomenti, specie Franco e Lisa, che fino a quel momento nemmeno si erano accorti della sua presenza: Adelmo, invece, non sembrava altrettanto sorpreso, ed era persino arrossito, come se si vergognasse di aver ceduto al panico.
“Ha ragione”, si limitò a replicare, recuperando la sua solita tranquillità.
“Lo conosci?”, bisbigliarono insieme Franco e Lisa, ancora storditi da quei repentini avvenimenti.
“Certamente. Amici, ho il piacere di presentarvi il professore emerito di letteratura classica ed europea, Hans Prieston!”, seguitò tronfio il titolare.
Quelle parole mi investirono come un treno in corsa: quello che fino a pochi istanti prima mi era parso un tipo un po’ bislacco, per quanto affascinante, si rivelava essere un professore universitario in pensione.
“I miei rispetti, signori e signore. Con chi ho il piacere di discorrere?”, domandò sornione Hans a Franco e Lisa, che ora apparvero visibilmente imbarazzati.
“Salve, io mi chiamo Franco. Sono un ingegnere”.
“Io invece sono Lisa. Lavoro nella finanza”.
“E tu, ragazzo?” Hans si rivolse a me.
“Ehm, sì, ecco… Io sono Roberto, insegno letteratura italiana al liceo”, dichiarai, con una certa soggezione.
“Signori, dato che ci ritroviamo in questa spiacevole situazione, direi di abbandonare ogni formalità, che in questi casi è l’ultima cosa di cui si ha bisogno. A pensarci bene… non ci è poi andata così male, no? Con tutti questi libri, qui intorno! Ho una proposta per passare il tempo: che ne direste di raccontarci, a turno, delle storie che ci hanno accompagnato nel corso delle nostre vite? Per conoscersi meglio tra compagni di prigionia, si intende… Sì, insomma, cosa c’è di meglio di un buon libro per distrarsi?”, disse il professore, circondato dai nostri visi attoniti.
La proposta piacque molto a tutti, e quasi ci fece dimenticare l’eco dell’allarme che proseguiva ovattato e il sibilo delle prime bombe che cadevano.
La prima a proporsi fu Lisa, che iniziò a parlare, entusiasta, di un libro che le stava a cuore: Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry. L’aveva letto per la prima volta a sette anni, attirata dalla copertina dell’edizione che il padre conservava nella biblioteca del suo studio: ritraeva un bambino, ritto in piedi su un pianeta sconosciuto disperso tra le stelle.
Incuriosita, aveva cominciato a sfogliarlo e lì era iniziato per lei l’incanto.
Quel bambino così piccolo, diceva, sembrava avere una risposta per tutte le cose, anche per il mondo degli adulti: tante volte avrebbe riletto quel libro negli anni a venire, per farsi coraggio tra i problemi adolescenziali, le prime liti coi suoi genitori, i primi pianti per le cattiverie delle sue compagne di classe. In quelle occasioni si ripeteva sempre una frase, che sottolineava ogni volta che rileggeva il libro, tanto che la carta era quasi sul punto di strapparsi: “L’essenziale è invisibile agli occhi”.
Quella frase, che pure era scritta in modo così semplice, riusciva a tirarle su il morale, a farle guardare ciò che la circondava con occhi diversi. Pensava, in quei momenti, di essere parte di qualcosa di più grande, ma non sapeva spiegarsi nemmeno lei cosa.
All’università, poi, aveva smesso di prendere in mano qualsiasi libro che non riguardasse matematica, statistica, micro e macroeconomia. E così continuò a essere negli anni a venire: per lei esisteva solo il lavoro. Finché un giorno disgraziato, continuò con gli occhi lucidi, suo padre morì per un infarto, senza un perché, senza che avesse avuto il tempo di dirgli quanto gli volesse bene: non riusciva a concepire quella perdita, e per mesi si gettò ancor di più a capofitto nel lavoro, per non pensare.
Poi, una sera che era rientrata a casa tardi ed era talmente stanca da non aver nemmeno acceso la luce, inciampò su un oggetto liscio che si rivelò essere proprio l’edizione sgualcita de Il piccolo principe: era caduto accidentalmente da uno scaffale della biblioteca.
Quando provò a sollevarlo, vide con sgomento che il libro si era aperto proprio su quella pagina che tante volte aveva imbrattato, e ancora una volta l’occhio le cadde proprio lì: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. Allora, sussurrava con un filo di voce, aveva capito che suo padre non l’aveva abbandonata, che non se ne sarebbe andato mai.
Devi credermi, Ines, se ti dico che, quando ha finito di raccontare, tutti noi a stento potevamo trattenere le lacrime.
Così è trascorso il primo di quei giorni assurdi, senza che nemmeno ce ne accorgessimo!
Il secondo giorno, quando ci riunimmo per decidere a chi toccasse raccontare, Adelmo e Franco si tirarono fuori, sostenendo che non si erano mai affidati ai libri nei momenti difficili, ma a Dio.
Allora mi risolsi a prendere io la parola, e raccontai di un libro in particolare che mi era venuto tante volte in soccorso: Lettere a Theo di Van Gogh. Questo libro, come tu sai, cara Ines, è stato uno dei pochi capaci di farmi versare lacrime: spiegai loro che a emozionarmi non fosse tanto il fatto che le avesse scritte un grande artista, morto in miseria, ma un uomo che si rivela nelle sue fragilità, nella sua incapacità di essere adeguato a un mondo che non sa capirlo, o che forse lui stesso non è in grado di comprendere. Spesso io mi sono sentito così, solo, non perché non avessi nessuno intorno, ma perché… te lo faccio dire con le parole di Van Gogh, come feci con loro, di cui mi sembra adesso di rivedere i volti, qui, davanti alla mia scrivania, insieme al tuo.
In una lettera del luglio 1880, spedita da Cuesmes, Van Gogh scrive: “Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri”. Recitai a memoria queste parole davanti a loro, in quell’atmosfera surreale in cui eravamo murati vivi per davvero; ogni volta che me le ripeto in testa mi sento libero, perché non più solo. Così fu anche allora.
Il terzo giorno, infine, Hans ci raccontò la sua storia, il libro che lo consolava nei momenti più bui: pensavo che avrebbe citato un antico poema, magari l’Iliade o l’Odissea, o la Divina Commedia di Dante, o forse un grande romanzo della letteratura, e invece no.
“In vita mia ho letto di tutto”, disse, “ma se dovessi scegliere un libro da portarmi sulla tomba, sarebbe senza dubbio un libro di poesie, un qualunque libro di versi, a condizione che ci sia la vita dentro, sì, la vita… e l’amore. C’è una poesia in particolare che in questi giorni in cui sono stato in vostra compagnia mi è tornata in mente. È di un poeta siciliano, ce l’ho proprio qui, scritta in un foglietto: Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole:/ ed è subito sera”.
Restammo a lungo in silenzio, perché ormai non c’era più bisogno di parole, e ognuno di noi fu colto da un irrefrenabile desiderio di leggere quei libri che ci avevano circondato, muti, sino a quel momento: persino Adelmo e Franco si accostarono timidamente agli scaffali della libreria, leggendo i titoli che gli capitavano sotto gli occhi e iniziando a sfogliare qualche volume, all’inizio distrattamente, poi sempre più attenti e concentrati, al punto che, quando l’altoparlante tornò a squillare annunciando che l’emergenza era cessata, non volevano sentire ragione di lasciare quella libreria!
Ecco, ora sai tutto di quei giorni assurdi, cara Ines: con quanto calore e affetto ci salutammo, allora, promettendoci di rivederci presto, in quel luogo, per rivivere quelle stesse sensazioni.
La promessa, però, non fu mai mantenuta, e forse era inevitabile: ancora oggi, quando passeggio di fronte a quello che adesso è un bar, mi sembra di rivedere Hans rannicchiato nell’angolo, sepolto dai suoi libri.
Non ho idea di che fine abbia fatto, a volte mi chiedo persino se sia mai esistito davvero, ma una cosa è certa: in quei lontani giorni d’agosto, per la prima volta, posso dire di aver incontrato Dio.

Letizia Sebastiani
Era uno scrittore e si trovava lì per promuovere il suo ultimo romanzo. Era il tredici agosto, eravamo appena entrati in libreria come facevamo quasi ogni giorno quell’anno e Adelmo ci venne incontro con un sorriso mentre ci faceva cenno di tenere basso il volume della voce.
«Ssshh, ragazzi, oggi non siamo soli. Hans Finn è qui a presentare il suo ultimo lavoro.» Noi avevamo solo dodici anni, Monica ne aveva tredici, era la più grande, e spettava a lei parlare per prima con gli adulti. Era una regola non scritta che portavamo avanti da tempo.
«Non lo conosciamo, possiamo venire a sentire? Cosa scrive?»
«Romanzi d’avventura. Venite pure, dovete solo fare silenzio.» Così ci mettemmo dietro un piccolo capannello di persone che si era riunito per farsi autografare il libro e lui ci notò. Ricordo il suo sorriso aperto e gli occhi luminosi. Era calvo e gli occhi spiccavano come due biglie incastonate in una sfera lucida, non sembravano neanche umani. Sembrava entusiasta del suo romanzo. Quando finì la presentazione e il firma copie si avvicinò proprio a noi quattro adolescenti brufolosi.
«Salve ragazzi, mi fa piacere vedere dei giovani alle mie presentazioni. Conoscete i miei libri?»
«Ehm…» Monica doveva rispondere,
«Veramente no, eravamo qui per caso.»
«Oh ancora meglio! Lasciate allora che vi presti uno dei miei libri più speciali.» Tirò fuori dalla giacca un volumetto nero, piccolo e malconcio; non c’era scritto niente sopra, né nome, né titolo. Lo prese Monica.
«Leggetelo insieme se potete, domani ci rivedremo qui e potrete restituirmelo.» Lo facemmo. Andammo a casa di Ivan, che era quella più vicina, e con i ventilatori puntati addosso leggemmo quello strano libretto incartapecorito. Solo che di incartapecorito c’era solo l’esterno. Adesso, so che non mi crederai, ma quando Monica cominciò a leggere, man mano la stanza che avevamo intorno perse i suoi contorni e sparì, per essere sostituita dalla descrizione della foresta che era presente nel libro. Mi stai seguendo? Noi vedevamo sul serio quello che c’era nel libro. Era una storia di animali che si accaparravano del cibo nella giungla, una roba breve, priva di trama ma dalle immagini vive e con descrizioni realistiche e accurate. Sembrava un esperimento visivo. Quel libro ci permetteva di entrare nella sua storia come se fossimo uno dei suoi personaggi; senza però poter interagire con nessuno. Eravamo come protetti da uno schermo invisibile. Stavamo lì, ma non potevamo muoverci né parlare con i personaggi della storia, e loro neanche ci vedevano. Almeno, non all’inizio.
Non finimmo di leggere tutto, Monica richiuse il libro terrorizzata e lo ficcò sotto il letto, dove rimase fino al giorno dopo, quando lo riportammo al suo autore.
Hans era fuori dalla libreria e sorrideva: «Allora, come è andata?».
«Che Diavolo ci hai dato? Un roba magica o una cosa del genere?»
Sorrise ancora di più.
«Forse, ma vi è piaciuto?»
«No. Ci ha spaventati.»
«Oh, mi spiace di questo, perché ne ho altri sette.» Così dicendo tirò fuori dalla tracolla altri sette volumetti ingialliti e stropicciati. «Uno per ogni giorno della settimana, vanno letti in fila. Posso prestarveli se volete, ma se vi siete spaventati forse…»
«Li vogliamo!» Daniel lo interruppe,
«Vero, ragazzi? Li vogliamo?» Annuimmo tutti, anche io, che ero quello che si era spaventato di più il giorno prima. Avevamo avuto paura, è vero, ma eravamo anche terribilmente curiosi di sapere cosa raccontassero gli altri libri. Volevamo viaggiare con loro.
Hans continuò: «Ve li sto lasciando perché siete dei ragazzi, io mi fido dei ragazzi che amano la lettura. Ho bisogno di sapere cosa ne pensate… Mi ritroverete qui tra sette giorni. So che ci sarete.»
Il secondo libro lo aprimmo quello stesso pomeriggio, sempre seduti a terra in camera di Ivan; stavolta però sapevamo cosa aspettarci e ci eravamo messi in cerchio, in modo da coprire con lo sguardo tutto ciò che avevamo intorno e non perderci neanche una parola. Toccava a me leggere, ero il più bravo dopo Monica con la lettura ad alta voce; così presi il volume con il numero due stampato in copertina e cominciai. Si trattava di un libro d’azione, cominciava con un inseguimento in macchina tra ladri e poliziotti. E le macchine erano lì, ci sfrecciavano accanto, riuscivamo anche a sentire i motori che rombavano fin dentro le ossa; avvertimmo perfino il pavimento vibrare al passaggio delle autovetture lanciate ad alta velocità, e il nostro sguardo si perdeva verso l’orizzonte, dove sparivano le mura della casa e continuava un’autostrada tipicamente Americana. I ladri vennero arrestati e uno di loro ci lanciò uno sguardo imbufalito. Smisi di leggere, chiusi il libro e tutto svanì.
«Porca miseria, lo avete visto anche voi vero?» chiesi tremante.
«Ci ha visti?»
«Ma dai, non può essere, non è possibile, noi non eravamo realmente lì.»
«Cosa ti fa essere così sicuro? È la prima volta che leggiamo una cosa del genere, non so neanche se chiamarla magia o no, potrebbe averci visto.»
«Ciò non significa che sia pericoloso, dopotutto è un libro, noi stiamo solo leggendo.» Con questa, Daniel si meritò l’occhiata che ricevette.
Ma noi andammo avanti comunque. Un libro al giorno, alternandoci nella lettura. Il terzo volume era un rosa, ne fummo tutti abbastanza schifati, soprattutto durante la scena dei baci. Lo mollammo quasi subito. Poi ci fu un bel racconto d’avventura dove vedemmo liane e macachi girarci attorno e trovammo un tesoro sepolto a duemila metri di profondità alle pendici di un vulcano attivo. Una storia già scritta? Forse, ma viverla era una cosa diversa. Sentivamo il calore del vulcano sulla pelle, tra i capelli; e quando trovammo il tesoro e la storia si concluse, chiudemmo il libro e Ivan si ritrovò con un piccolo doblone nella tasca destra. Le cose si facevano sempre più interessanti, ma anche inquietanti.
Fu durante l’horror del volume cinque che i personaggi ci rivolsero la parola. Ci trovavamo in una grande casa buia, in mezzo a un corridoio circondato di porte chiuse. Due ragazzi terrorizzati ci sfrecciarono accanto e si voltarono a guardarci.
«Muovetevi o vi prenderà. Scappate» ci urlarono e poi scomparvero in fondo al corridoio. Subito dopo, una forza crudele e invisibile ci passò attraverso facendoci drizzare i peli dietro la nuca. Io me la feci addosso e ringrazio ancora i miei amici di un tempo per aver fatto finta di nulla e non averne mai neanche accennato. Insomma, questa specie di fantasma energetico ci superò senza notarci e si gettò all’inseguimento dei protagonisti. Continuammo a leggere per stargli dietro e aiutare i due ragazzi, ma loro non ci parlarono più. Si erano spezzati l’osso del collo precipitando dalle scale. Mi son sempre chiesto se rileggendolo avremmo potuto scoprire dei finali diversi, ma non lo facemmo. Una sola lettura al giorno. Un volume al giorno. Rigorosamente in fila. Erano le regole e a noi stavano bene. Il sesto giorno aiutammo una bambina a risolvere un’enigma che l’avrebbe tirata fuori da una stanza in cui era tenuta prigioniera. Lei ci parlò fin da subito perché il libro si apriva con un dialogo
«Ciao, e benvenuti nella stanza di Jo. Sono rinchiusa qui da due giorni e se non uscirò al più presto morirò. Dovete aiutarmi.» Seguivano una serie di puzzle che bisognava risolvere con la logica e l’intuito. Una sorta di escape room dei giorni nostri. Lì scoprimmo che potevamo interagire col mondo circostante: potevamo spostare gli oggetti, scrivere sui muri, sollevare piastrelle del pavimento… e tirammo fuori quella bambina. Daniel addirittura si fece male a un piede quando staccammo un quadro da una parete e questo cadde proprio sul suo pollicione. Continuò a sentire il dolore anche dopo la lettura, e il segno rimase per giorni.
Arrivammo al settimo volume, l’ultimo, che non era neanche un libro. Non facemmo in tempo a cominciare la lettura che, appena lo aprimmo, ci ritrovammo in un castello medievale circondato da arazzi e armature. Si aprì una porta e da lì, tra lo stupore di tutti, uscì il nostro amico Benji. Monica cacciò un urlo e si portò le mani alla bocca, quindi scoppiò a piangere. Piangemmo tutti, credo: Benji era morto due mesi prima travolto sul marciapiede dove era seduto da un’automobilista ubriaco. Aveva solo dodici anni ed era seduto davanti casa sua a fare un solitario con le carte del padre. Era giugno, le scuole erano appena finite e lui si stava godendo il sole e il calore dell’asfalto dopo mesi passati al freddo sui banchi di scuola. Poi il rombo del motore, lo stridio dei freni e un’automobile fuori controllo salì senza difficoltà il piccolo rialzo del marciapiede centrandolo in pieno e facendolo sbattere contro il muro della sua stessa casa. Morì sul colpo. La sua testa era spaccata in almeno tre punti. Non c’era neanche più una testa. Questi dettagli li appresi dopo, allora sapevo solo che un farabutto ubriaco aveva ucciso il nostro amico. Dopo quella tragedia non avevamo più avuto il coraggio e la forza di giocare per strada e avevamo preso l’abitudine di rintanarci in libreria quell’estate, proprio la libreria in cui incontrammo Hans.
Benji ci vide, sorrise e ci venne incontro abbracciandoci.
«Ragazzi! Finalmente. Che bello vedervi, vi aspettavo; ho bisogno di voi. Dobbiamo uccidere il drago e salvare la principessa.»
«Cosa?» chiese Monica tra le lacrime.
«La storia è così banale?»
«La storia è banale se la leggi, ma avete mai ucciso un drago?» Benji ci abbracciò con lo sguardo, sorrise; era il nostro amico ed era più vivo che mai. Non ci crederai, Ines, ma uccidemmo un drago, con il lavoro di squadra sopratutto. La principessa fu salva e fu sempre grata a Benji.
Noi però dovevamo tornare a casa e ci salutammo. Fu un addio lungo e doloroso ma quantomeno fu un addio. Riuscimmo a dargli quel saluto che ci era stato rubato, e quando tornammo in camera di Ivan eravamo scossi al punto che nessuno disse una parola. Ce ne andammo e basta.
Ma il giorno dopo, puntuali come un orologio, ci trovammo tutti davanti la libreria di corso Francia, dove ci attendeva Hans Finn.
«Buongiorno ragazzi, vi sono piaciuti i miei libri?» Sorrideva.
«Sono davvero bei libri, signor Finn. Li ha davvero scritti lei?»
«Io ho scritto solo le parole, siete voi lettori a interpretarle. Cosa avete fatto nel settimo volume? Per curiosità…»
«Abbiamo ucciso un drago e salvato una principessa» rispose Monica, omettendo Benji.
«Interessante, un po’ banale forse…»
«Banale? Lei ha mai ucciso un drago?»
Agosto finì e ricominciò la scuola; il banco di Benji rimase vuoto per tutto l’anno ma noi eravamo sereni, avevamo vissuto con lui un’avventura meravigliosa che non avremmo mai dimenticato.

Mirella Marchione

Il consiglio del libraio era stato accettato con gioia da voi ragazze, e condiviso con noi poveri mortali. Ci ritrovammo a leggere a voce alta nel minuscolo salottino che Adelmo aveva allestito nell’ultima stanza della libreria, nello spazio dedicato alle presentazioni degli autori e alle letture animate per i bambini, dove eravamo soliti darci appuntamento.
Il senso di oppressione, il ribrezzo che avevano spinto Alice a rifugiarsi dal libraio erano stati spazzati via dalle prime battute del romanzo, dai ricordi di Hans che, com’era prevedibile, a Lisbona c’era stato e aggiungeva dettagli a quelli che mano mano emergevano dalla lettura. Alle venti, Adelmo ci riscosse: “Ragazzi, la bruttura dovrà riprendere il sopravvento per un po’… è ora di chiudere”.
In quel momento ci sembrò impensabile sia smettere di leggere che lasciare Alice; ci offrimmo di accompagnarla, e di continuare altrove la nostra fuga da noi stessi.
Quella fu solo la prima di altre serate insieme. L’arrivo di Alice non aveva sciolto il dilemma: semplicemente, io e Hans ci eravamo innamorati entrambi anche di lei e stentavamo a deciderci. E anche voi, a darci una direzione.
Ora che mi ci fai riflettere, in realtà tutto accadde in poche settimane ma il rimpianto dilata il tempo, rende liquide le emozioni. Alice continuava ad andare al lavoro; durante il giorno Hans girovagava alla scoperta della città, infilandosi in questa o quella chiesa, in qualche museo. Io e te ci fingevamo impegnati con le nostre tesi di laurea. In realtà, l’ultimo colloquio con i nostri rispettivi relatori c’era stato a fine giugno, mancava poco eppure non eravamo mai pronti, nessuno dei due si decideva a chiudere l’ultima stesura.
Verso la fine di agosto, mentre ciondolavamo da Adelmo aspettando le cinque e l’arrivo di Alice, Hans ebbe una folgorazione:
“Una corsa fino al mare, che ne dite? Mangiamo qualcosa per strada e poi dormiamo in spiaggia. Torniamo domani”.
La Panda che era stata di mia madre ci accolse benevola, per poi tradirci.
La strada che avevamo imboccato era diritta fino alla spiaggia. Guidavo piano senza premura; Hans era seduto davanti, accanto a me, voi ragazze avevate preferito sistemarvi insieme sul sedile posteriore. Vi sbirciavo dallo specchietto retrovisore, Hans si girava in continuazione, voi ciarlavate, distratte, di cose insignificanti. Eravamo noi quattro insieme, perfettamente felici.
Tutto cambiò in un attimo: una cane sbucato all’improvviso dai campi mi tagliò la strada, costringendomi a sterzare bruscamente. Un lampo, forse il riverbero del sole su una qualche superficie, non saprei dire tutt’ora. Il rumore di ferraglia dello schianto mi è rimasto nelle orecchie, la visione della Panda rovesciata su se stessa e con le ruote all’aria, come uno scarafaggio, torna a sorprendermi di tanto in tanto. Soprattutto di notte. Sembrava non fosse accaduto nulla, ci eravamo districati da soli dalle lamiere tutti apparentemente indenni, salvo qualche livido. La mia spalla sinistra, veramente, ancora oggi cigola, la tua caviglia, malamente storta mentre tentavi di uscire, ancora ti infastidisce. Anche Hans sembrava solo spaventato, al punto di rimettere, prima di accasciarsi al suolo. Qualcuno si era fermato in strada, aveva chiamato i soccorsi.
Da quel momento in poi tutto è cambiato.
Hans era in coma, intubato in un reparto di rianimazione di un grande ospedale.
Avevamo contattato il numero di telefono di emergenza indicato sul suo cellulare, scoprendo che gli era rimasto solo un fratello, molto più grande di lui. Questi si precipitò subito lì, affranto. Parlò con i medici, tentò di tutto per riportarlo a casa, in Belgio. Hans, però, non poteva ancora affrontare un viaggio. Intanto c’era il modulo dell’autorizzazione all’espianto degli organi da firmare, l’affitto dell’alloggio temporaneo di Hans in città da saldare e disdire, le pratiche burocratiche che autorizzavano la degenza da siglare. Il fratello di Hans, pratico, si occupò di tutto, di fare avere il meglio al nostro amico, compresa una infermiera personale che lo accudisse. Hans non ci aveva mai detto nulla dei buoni affari di famiglia, di cui si occupava il fratello, in attesa che lui decidesse del suo futuro; proprio perché ricchissimo, però, il fratello di Hans aveva dei doveri che non potevano essere rimandati a lungo. Tornò a casa dopo una settimana. Sette giorni in cui noi ci eravamo alternati davanti al vetro della sala dove dormiva Hans, allontanandoci solo se cacciati dal personale.
La richiesta di autorizzare l’espianto degli organi ci aveva gettato nella più cupa disperazione. L’atteggiamento pragmatico del fratello aveva peggiorato il nostro stato d’animo. Non capivamo come potesse rimanere sereno davanti a quel foglio che ufficializzava la morte del nostro Hans. “È l’unica cosa che posso fare per lui, invece!” Nell’italiano marcato dalle erre arrotate, il fratello cercava di convincerci che, in fondo, il nostro amico non avrebbe avuto dubbi. Sì, lo sapevamo. Uno dei rianimatori si fermò a parlare con noi, una sera di pioggia intensa che certificava la fine dell’estate. Prima di spingerci a tornare a casa tentò di darci spiegazioni sui meccanismi fisiologici che reggevano il filo della vita di Hans in quel momento. E come potevano aiutare il loro lavoro. Penso che il medico stesse solo tentando di aiutare noi a porre rimedio alla devastazione che aveva stravolto le nostre anime, senza possibilità di tornare più indietro.
Venimmo autorizzati, a turno, a entrare nella stanza di Hans, che nel frattempo era stato spostato nell’hospice della struttura, lasciando il posto libero per altre disperazioni.
A turno, leggevamo ad Hans a voce alta il libro che ci aveva unito, quando tutto era iniziato, aggrappati all’illusione che il nostro amico ascoltasse e reagisse con uno dei suoi commenti micidiali, con un ricordo improvviso. Alice alterò intenzionalmente un passo, leggendo da un’altra storia invece da quella che avevamo innalzato a nostra scialuppa di salvataggio, sperando di provocare una reazione. Nulla, non accadde nulla ma ciò non escludeva che Hans sentisse, e potesse un giorno darcene dimostrazione. Finimmo presto il romanzo e ne iniziammo un altro, e poi ancora un altro.
Io accumulavo pensieri in foglietti sparsi, in quegli appunti che ho chiuso nel cassetto di Elena. Trasferivo sui fogli le parole che non riuscivo a dire a voce alta, gli interrogativi ai quali tentavo di rispondere seguendo le logiche di Hans che, ormai, conoscevo bene.
La persistenza di ciò che era il nostro amico, e non la sua temporanea assenza, risolse l’indecisione dei giorni precedenti, quando io e lui vi guardavamo chiedendoci quale direzione ci avreste dato, tu e Alice. Riuscii a stringerti forte, ti ricordi? Non più come un amico. Avevo fame di vita, bisogno di emozionarmi e di smarrirmi di nuovo. Mi sentivo in colpa, è vero. Alice però non capì, ci accusò, cacciandoci a malo modo lontano da sé. Per qualche giorno non volle rispettare i turni stabiliti vicino ad Hans: aveva requisito il libro, leggeva lei sola per il nostro amico. Aveva scelto, dandomi del vigliacco: aveva ragione.

Silvia Boninsegna

Si trattava di uno di quei viaggiatori incalliti che si spostano di continuo senza tregua, ma mai senza sogni o senza voglia di conoscere ogni giorno qualcosa, qualcuno di nuovo. Io ed Elena l’abbiamo notato subito, il nostro paese è sempre stato piccolo e indiscreto e la possibilità di passare inosservati era tendente a zero. Se ne stava seduto al nostro solito posto, con piena disinvoltura, mentre sfogliava La coscienza di Zeno come se si stesse trattando dell’ultimo numero di Topolino. Aveva i capelli che gli sfioravano le spalle, leggermente scompigliati, un paio di occhiali scuri alzati sulla fronte e una t-shirt nera che lasciava intravedere i benefici di ore e ore di cammino quotidiano. Non riuscivamo a capire che cosa potesse c’entrare un individuo del genere con la “nostra” libreria e continuavamo a guardarci con occhi sgomenti. Adelmo, invece, era impassibile, ma, si sa, chi lavora con il pubblico non fa caso alle normali stranezze delle persone che entrano ed escono. Probabilmente il vichingo se ne accorse, perché a un certo punto si alzò lentamente e incominciò un’insolita conversazione con noi. Era partito col dire che tutto quello che dicono sul nostro Paese era vero, che si mangia bene, che la gente è matta, che i colori e i profumi sono spettacolari. Sapeva parlare l’italiano abbastanza bene, anche se ogni tanto inciampava in qualche vocabolo marcando l’accento tedesco. Non ricordo esattamente come accadde, ma ci ritrovammo a conversare tutti e tre come se fossimo vecchi amici. Scoprimmo subito che era in giro per l’Italia da qualche settimana, aveva visitato Milano, si era fermato sul lago di Garda ed era arrivato fino nella periferia di Verona, forse perché si era perso, forse perché l’aveva programmato veramente. Voleva spingersi fino in Toscana, poi a Roma, a Napoli e infine sarebbe approdato in Sicilia; se gli fossero avanzati un paio di giorni sarebbe passato anche in Sardegna, per poi proseguire verso la Francia. Era uno studente di ingegneria informatica che aveva abbandonato l’università prima di dare gli ultimi due esami, senza sapere bene perché: amava da sempre l’arte e la letteratura, ma si era iscritto a una facoltà prettamente scientifica. Gli esami erano sempre andati bene, aveva ottenuto la media del 27 senza nemmeno troppi sforzi, ma arrivato a un paio di passi dalla grande meta… Boom, non si sentiva più di continuare, non si sentiva più nel posto giusto, e dopo aver salutato tutti con un frettoloso abbraccio, si era messo uno zaino in spalla ed era partito alla volta dell’Europa. Erano esattamente 33 giorni che viaggiava e poteva già dire di averne tratto qualcosa di positivo: aveva smesso di fumare, non si mangiava più le unghie e aveva cominciato a pregare la sera, cosa che non faceva da quando era bambino. Da un paio di giorni gli ronzava per la testa un’idea, un impegno che voleva prendersi: ritagliarsi un momento della giornata per leggere. Un viaggiatore ha bisogno di leggere? Non gli è permesso di conoscere il mondo attraverso l’esperienza diretta? Il mondo è uno solo mentre i libri creano infiniti mondi. Io ed Elena ascoltavamo le ragioni di Hans con un certo interesse. Noi abbiamo sempre ritenuto essenziale la lettura, ci nutriamo di libri da quando i nostri occhi hanno iniziato a mettere insieme le parole, una lettera dietro l’altra. Adelmo, infatti, non era solo un amico, era quasi un secondo padre, ci conosceva da una vita. E quell’estate diventò molto di più: un amico, un insegnante, una guida. I nostri pomeriggi stavano diventando sempre più pesanti, la situazione era sempre più critica: ci sentivamo soffocare ma non per il caldo, non per l’afa. Erano le grida mai uscite dalle nostre bocche che ci attanagliavano, erano i silenzi che ci turavano le orecchie, era l’assenza che ci scoppiava dentro come una bomba nucleare. Ed Elena lo sa bene, lo sa forse meglio di me; tu, purtroppo o per fortuna, eri troppo piccola e non puoi ricordare. Tu con i tuoi dolci riccioli scuri, piccola Ines, ci guardavi e non capivi. Mentre noi eravamo stanchi, stremati, mentre noi eravamo corrosi dal dolore. Divoravamo libri uno dietro l’altro, qualche volta leggevamo talmente in fretta che poi non ricordavamo nemmeno la trama. Ma le emozioni? Beh, quelle sono impossibili da dimenticare, si imprimono negli occhi e nella mente e non se ne vanno facilmente. E finivamo per amare un libro non per quello che leggevamo ma per quello che ci trasmetteva, come quando ami alla follia una canzone con un testo straniero ma che ti tocca l’anima e non sai perchè. Adelmo ci permetteva di leggere i libri senza comprarli, a patto che non li portassimo a casa, ma non c’era pericolo: li leggevamo volentieri solo nella sua libreria. Non è mai stato geloso dei suoi “tesori”, come soleva definirli lui, tant’è, appunto, che un perfetto sconosciuto come Hans ne aveva uno in mano e non sembrava intenzionato a spendere soldi, almeno non nell’immediato. Ci chiese se lo potevamo aiutare a scegliere qualcosa per iniziare bene la sua “missione”, voleva un testo che lo aiutasse ad affrontare quella fase della sua vita. Sembrava assurda la sua richiesta, non capivamo il senso del suo comportamento e soprattutto non sapevamo nulla di lui, come potevamo dargli un consiglio? Provammo a indagare in modo discreto sull suo trascorso ma ne ricavammo poco o nulla. Sembrava semplicemente perso, forse era rimasto ferito dall’amore, forse si sentiva in colpa per aver deluso i suoi genitori, forse soffriva per la perdita di qualcuno di caro. Lui, però, non voleva guardare indietro, lui fissava l’orizzonte del presente e buttava un occhio sul futuro. Guardai tra gli scaffali, incerto; volevo scegliere il titolo giusto, quello più adatto. Poi pensai che un libro, qualsiasi sia, ti lascia qualcosa, nel bene e nel male. Quindi chiusi gli occhi, allungai una mano sulla mensola più alta e, senza guardare di che cosa si trattasse, porsi il libro tra le mani di Hans. Lui lo prese come se fosse stato uno di quei tesori rubati dai pirati, si sedette, in silenzio, al nostro posto, che ormai capimmo essere diventato il suo, e incominciò a leggere senza più rivolgerci la parola. Adelmo ci guardò sorridendo, poi tornò a occuparsi delle sue incombenze. Io ed Elena prendemmo tra le mani i libri che avevamo lasciato a metà il giorno prima e provammo a ripartire con la lettura, ma continuavamo a essere distratti da quel tedesco vagabondo e assetato di sapere. Sembrava precipitato in un altro mondo, sembrava essersi scollegato dalla realtà. Sì, esattamente, era scollegato completamente dalla realtà ed era proprio quello di cui avevamo bisogno anch’io e nostra sorella Elena. Staccarci da una situazione che ci opprimeva, estraniarci da un mondo che non era più nostro. Ce l’avrebbero forse ridato, un giorno? I mille perché continuavano ad annebbiarmi la vista, le righe si confondevano le une sulle altre, la testa era arrivata a vagare tra i ricordi di dieci anni prima. Guardai Elena, le chiesi di tornare a casa. Mi rivolse uno sguardo pieno di interrogativi, poi continuò la sua lettura. Uscii dalla libreria per prendere una boccata d’aria. Adelmo mi seguì poco dopo. Mi chiese se stessi bene, se ci fosse qualcosa che mi stava turbando. Lo liquidai con un “Tutto a posto” e lui capì che non avrei più spiccicato parola. Rimase ancora qualche istante a pochi passi da me, poi rientrò. L’afa era sempre più soffocante e i miei pensieri erano così imponenti che non mi permettevano nemmeno di muovermi, ero come paralizzato. Come ne saremmo usciti? E soprattutto, ne saremmo usciti? Non vedevo alcuna via di scampo e non riuscivo ad accettare la situazione. Mi sentivo ardere e annegare insieme. Aprii l’ultimo bottoncino della camicia, per sentirmi meno oppresso, per sentirmi più libero, ma nulla riusciva a darmi ristoro in quel momento. Adelmo tornò da me con un bicchiere di acqua e limone senza zucchero e me lo porse, costringendomi a bere. Mi sedetti sul marciapiede davanti alla libreria, incerto su quello che avrei dovuto fare, incerto sul futuro. Poi comparve sulla porta Elena, mi afferrò per un braccio e mi riportò dentro. Lei ha sempre avuto il potere di capirmi senza bisogno di proferire parola. Mi fece sedere vicino ad Hans, con il quale doveva aver approfondito la conoscenza in mia assenza perchè sembravano molto complici. Ma forse era solo una mia impressione. Mi mise sotto il naso un libro e mi impose di leggerlo. Io per un momento non seppi cosa fare e questo mi spaventò: stavo forse perdendo la mia passione per la lettura? Guardai Hans, che non si accorse nemmeno di tutto il trambusto che stavo provocando. Poi mi avvicinai alla prima pagina: lessi di un mare limpido e calmo, di un faro in un angolo, di un oggetto misterioso tra la sabbia, e fui immediatamente catapultato in un mondo parallelo, in una situazione che era opposta alla mia, che diventava mano a mano sempre più reale. La spiaggia di Almin, nel 3752, era deserta, a causa di un terribile tsunami che aveva spazzato via gran parte degli agglomerati urbani; i sopravvissuti erano stipati nei loro bunker e nessuno aveva il coraggio di uscire. L’unico temerario, l’unico pazzo, era uscito un attimo dopo che il maremoto aveva portato via gran parte di quello che aveva incontrato. Era un ragazzotto biondo, con i capeli lunghi e leggermente arruffati. Si aggirava per la spiaggia come un trovatello, sperduto nel nulla e senza sapere dove si stesse dirigendo. Poi inciampò come uno sciocco su una sporgenza e finì lungo disteso a faccia in giù in mezzo alla sabbia. Leggermente stordito, si tirò su immediatamente, mettendosi in ginocchio per riprendere l’equilibrio; davanti ai suoi occhi, però, trovò qualcosa che probabilmente il mare aveva lasciato come baratto di quello che si era portato via: un medaglione d’oro luccicava tra la sabbia, un pezzo raro e sicuramente di inestimabile valore. Hans – ebbene sì, il protagonista del libro aveva incredibilmente lo stesso nome del nostro nuovo amico – lo prese e lo strinse tra le mani, come se fosse qualcosa di molto familiare, come se sentisse un legame forte che da quell’oggetto arrivava fino al suo cuore. C’era un’incisione sul retro del medaglione, una sigla e un numero: Vr 20. Hans girò e rigirò l’oggetto più volte. Sul davanti c’era scolpita un’immagine che non riusciva a decifrare bene.

Alberto Becherini

Carissimo Jurgen, il paese è morto. Questa vallata è peggio di un deserto. L’afa non c’entra granché, lo sai bene, anche se oggi è veramente insopportabile. Tu conosci da sempre il segreto e hai scelto di rivelarmelo soltanto adesso. Gli unici rimasti sono i pochi vecchi che si riparano dal caldo sotto il bocchettone dell’aria condizionata dentro al bar. Solo che di questi tempi non bevono caffè ricamati con fiori e cuoricini. Birra ghiacciata da mattina a sera e nient’altro. Fumano marijuana e leggono centinaia di pagine fino a quando non vanno a dormire. Adelmo il libraio è uno di quei vecchi che ancora resiste. Prima questo luogo era suo. Lo hai scritto anche tu. Hans no. Non ce l’ha fatta. Se n’è andato per sempre e non potrò fare affidamento su di lui. Ho ritirato le chiavi della casa in cui abitavi con Elena. La dirimpettaia mi aspettava, due occhi spiritati e in mano una brossura del “Sogno di una notte di mezza estate”. Ho aperto a fatica la porta e sono entrata. Mi sono guardata in giro, la vista dalla finestra di cucina resiste al tempo e alla morte. Si scorge lontano, oltre il vapore d’acqua che si leva dai campi, il mare e un’ellisse tenue di cielo. La copia autenticata della passeggiata di Monet sulla cappa del camino pende a sinistra e ho provato inutilmente a raddrizzarla. L’odore di chiuso non mi è parso così tremendo anche se ho spalancato i vetri nelle stanze per far circolare l’aria e lasciare entrare un po’ di luce. La sala grande con tutti i vostri libri è pulita anche se disordinata. Non c’è neppure un accenno di polvere là dentro. Solo qualche volume aperto sullo scrittoio e altri sparsi in giro. La dirimpettaia mi ha detto che nessuno mette piede nella casa dai tempi in cui ci abitavi con Elena. Quanti anni sono trascorsi? Trenta forse, o anche di più. Ho cercato la camera e il suo comodino. Mi sono seduta sul letto e ho svuotato il cassetto sopra il lenzuolo fresco di lavanderia. Ho fatto l’inventario: oltre al taccuino verde ho trovato fogli con appunti scritti a lapis, una cinghia per chitarra, un portamonete vuoto, i Racconti dell’errore di Asor Rosa, due paia di occhiali, un orologio fermo sulle 12.34 e una foto. Siamo insieme, tu, io ed Elena sotto la ruota al Prater di Vienna. Eravamo in gita al nostro primo anno di liceo. Facemmo quello scatto poco prima del tuo battibecco col prof di lettere che terminò in tragicommedia quando gli mollasti un pugno secco sulla spalla. Ho letto due volte il taccuino verde e le altre pagine dove annotasti le informazioni che raccoglievi in giro e che ti parevano in qualche modo utili. Poi ho trovato una busta della spesa nella dispensa accanto al camino, ho infilato tutto dentro e sono venuta qui al bar. Ho chiesto una birra ghiacciata che mi hanno servito con una fetta di torta al limone, uno spinello già bell’e pronto, qualche fiammifero e un libro di Sciascia che parla della scomparsa di Ettore Majorana. La prima domanda la rivolgo ad Adelmo, che ho riconosciuto dalle descrizioni che ne hai fatto in quelle pagine scritte a lapis: “Che cosa vi ha davvero salvati dalla catastrofe di quei mesi terribili?” Mi guarda da sotto il bocchettone dell’aria con una faccia scavata di rughe e sospetto: “Chi sei tu che vieni a chiederci una cosa del genere?”.
“Mi chiamo Ines, sono una vecchia amica di Jurgen ed Elena…”
“Ah, Elena. Era in gamba la ragazza. È stata lei a scoprire la storia dei libri. Aveva ragione, anche se nessuno, tranne i pochi che sono rimasti in vita, le ha mai creduto. Si è uccisa per questo. Non fu il virus, con lei.” Si asciuga la fronte Adelmo, le parole gli si appiccicano alle labbra prima di essere risucchiate dall’aria umida intorno.
“Lei è Adelmo, il libraio…”
“Come lo sai?”
Indico la busta sul tavolo davanti: “Me lo ha detto Jurgen. Ci sa fare con la penna. Da sempre”.
“Non solo con la penna. Lui si salvò dalla catastrofe perché era ostinato. Non ha mai finito di leggere. Solo gli ostinati hanno avuto salva la vita in paese. Eccoci, siamo quasi tutti in questo bar.” Tira una boccata dal suo spinello e sfoglia un’altra pagina di libro. “Guerra e pace. Ho rimandato troppo a lungo. Non fare il mio stesso errore, donna. Leggi i classici prima di diventare vecchia.”
Il sole fuori è bianco, trentasei gradi segna il termometro sul muro. Non ci sono vie d’uscita a questo inferno. Striscio un fiammifero sui jeans e incendio l’erba del mio spinello. Comincio a tirar boccate lente e profonde.
“Ti conviene aprire quelle pagine, donna. Non si sa mai.”
“Crede davvero che, dopo tutto questo tempo, siamo ancora a rischio?”
Adelmo si alza dalla sedia e viene verso di me. Si appoggia al tavolo, stende dalla mia parte il libro che sta leggendo e riprende a parlare.
Mi racconta del mostro che venne a prendersi tutti quanti. Dei medici che morivano al fianco dei loro pazienti, e delle strade deserte. Mi parla di come le persone cominciarono a stare male tranne lui e i due ragazzi che venivano a trovarlo tutti i pomeriggi in libreria. Poi c’era quel pazzo di Hans. Un patito di canne e del commissario Maigret. Anche lui non si ammalò di quel virus folle. Era certo che fosse la marijuana a salvarlo. Adelmo no. Lui pensa alla carta, come gli aveva detto Elena. Ne è sempre stato certo. I libri hanno un potere tremendo. I libri succhiavano l’anima al virus purificando quanta più aria possibile nei dintorni.
“I libri hanno salvato quei pochi tra noi che ci hanno creduto.”
MI invita fuori, Adelmo. Ce ne andiamo in giro a guardare quello che è rimasto in piedi di questo paese fantasma. Mi chiede perché abbia atteso così a lungo. Che cosa mi abbia spinto a tornare proprio adesso, io che me ero andata dall’altra parte del mondo alla fine degli studi. Mi chiede di te, Jurgen, e sa che non ho risposte a nessuna delle sue questioni. Torniamo indietro da corso Francia e guardo la scuola che frequentammo insieme. Le finestre sono coperte da assi inchiodate agli stipiti e il cortile è una giungla di sterpi che sbucano da terra squartando l’asfalto. Non c’è motivo di restare ancora qua. Altro non so dirti.
Ti abbraccio, amico mio, e attendo di incontrarti da qualunque parte il mondo, questo mondo, vorrà accoglierci.
Ps: hai sbagliato il conteggio delle volte che ti ho chiesto di Elena, dimenticando di quando lo feci mentre lei era ancora in vita. Rispondesti al telefono dicendomi che niente e nessuno avrebbe spezzato la vostra storia. Raskolnikov vi avrebbe salvato. E io, dall’altra parte del mondo, pensai che tu stessi impazzendo.

Roberta Azzalea

Non ci sono grandi calcoli da fare, successe tutto ventisette anni fa. Ventisette, un anno per ogni volta che mi hai chiesto che cosa accadde quel dieci agosto.
Ventisette anni fa un ragazzino entrò nella libreria in cui andavamo tutti i pomeriggi. Te lo ricordi, quel cosino? Non dimostrava più di dodici anni. Te li ricordi i suoi occhi? Secondo me no, perché a te Hans non è mai piaciuto. Era un fatto che non potevate incontrarvi, no?
Questa cosa che certa gente chiama destino non voleva che tu ed Hans vi incontraste, ma voleva che lo incontrassi io. Sta qui il problema. Senza Hans non c’ero io e con Hans non c’eri tu.
E quindi quel ragazzino entrò in libreria e io lo guardai e pensai che aveva fame. Non era solo quella fame che ti prende allo stomaco e lo obbliga a mangiarsi se stesso. Era una fame che gli vedevi negli occhi, fame di anime, di parole, emozioni, di paura e dolore. Era una fame che poteva essere soddisfatta solo prendendo un libro tra le mani, e l’odore della carta e il profumo dell’inchiostro non facevano che aumentare il suo appetito.
Sai cosa mi sembrava? Il personaggio di un libro abbandonato a se stesso, ignorato, poco curato, buttato via e trascurato dal suo stesso autore. Sembrava che i suoi colori fossero sbiaditi, era pallido, aveva i capelli di uno strano castano chiaro, che non era biondo, ma nemmeno era marrone, e gli occhi… Che razza di occhi erano? Le iridi sembravano così vuote. Sembrava incompleto.
Da dove usciva? Da quale libro era arrivato? Con quella maglietta troppo larga e i pantaloncini consumati, vecchi, coi lacci stracciati.
Io ho capito subito che a te non sarebbe mai piaciuto. Non sarebbe mai piaciuto a nessuno, perché era uno di quei personaggi che incuriosiscono, ma che poi non si ha la motivazione di approfondire.
Lui però meritava di essere approfondito.
Entrò nella libreria e ci guardò e noi guardammo lui. Poi fece questa cosa alla quale ancora penso con grande meraviglia.
Andò in cerca di libri.
Non era mai entrato in quella libreria, Adelmo ce lo disse chiaramente, eppure sembrava che lui sapesse esattamente dove si trovassero i libri che voleva.
Sicuro, deciso, andò a prenderli dagli scaffali, quattro libri.
Tu. Diede un libro a te per prima, Il ritratto di Dorian Grey. Tu non capivi, non avevi mai letto Oscar Wilde, nonostante io ti avessi detto di farlo un milione di volte, perché adoravi i paradossi. Non lo avevi mai detto a nessuno, ma avevi un taccuino verde dove ti scrivevi tutti i paradossi che sentivi o che elaboravi da sola, ti mandavano fuori di testa, erano l’unica cosa a cui non riuscivi mai a trovare una soluzione.
Poi il ragazzino porse ad Adelmo La coscienza di Zeno di Svevo, e a Riccardo qualcosa di Murakami.
Fui l’ultimo. A me toccò Bukowski, un maledetto.
Ti ricordi come mi sentivo in quel periodo ? Era l’ultima estate, l’ultima vera estate, perché a settembre sarebbe iniziato, per noi tre, l’anno della maturità, e ci sarebbe stato lo studio, e poi le scelte e il dover diventare grandi per forza e tu ti sentivi pronta? Perché io no, per niente.
Stavo passando un periodo un po’ così, dicevi che mi stavi perdendo.
Io mi stavo perdendo da solo, figurati.
E trovarmi una raccolta di Bukowski in mano mi ha fatto uno strano effetto. Volevo piangere. Lo tenni nascosto, tenni le mie lacrime per me, senza condividerle con nessuno.
Hai idea di che cosa voglia dire sentirsi addosso un attacco di panico solo perché qualcuno ha capito chi sei? Tremavo e soffrivo perché non potevo… non potevo mostrarmi a voi distrutto da questa cosa.
Mi sentii capito in quel momento come non mi era mai capitato prima. Mi bruciavano gli occhi per il bisogno di piangere, ma riuscii a evitarlo, mi strinsi il libro al petto e per quel giorno io avevo chiuso. Me ne andai a casa e non ne uscii fino al pomeriggio dopo, quando riportai il libro ad Adelmo. Ero solo con il ragazzino in libreria.
Adelmo stava al bancone a leggere La coscienza di Zeno e mi disse di tenermi il libro, che era un regalo.
Così andai in cerca di quel ragazzino che non aveva detto a nessuno come si chiamava e allora Adelmo mi disse di chiamarlo Hans. Hans, come il protagonista de La montagna incantata, il libro preferito del libraio.
Hans era nascosto dietro lo scaffale dei libri per bambini, sotto il davanzale della finestra, e stava parlando. Pensai che stesse leggendo ad alta voce, invece no. Parlava proprio, con qualcun altro, ma non capivo chi. Mi feci vedere e glielo chiesi.
“Con Zeno” mi rispose. “Sto parlando con Zeno, delle sue sigarette. E poi di un’altra cosa, della fine del mondo. Lui dice, tu non lo senti, ma lui dice che il mondo finirà, per mano di qualcuno come me. Di qualcuno di sbagliato come me. Qualcuno che non può stare qui, che non riesce mai a trovare il libro giusto, le parole giuste, che possano guarirlo dalla malattia dell’animo che lo rende tanto alienato e incompatibile con gli altri.”
Zeno Cosini però non esisteva veramente.
Mi sedetti davanti a lui, anche se ci stavo appena in quello spazio minuscolo.
Si moriva di caldo lì, con il sole di fine luglio che quasi ci batteva sulla testa.
Hans mi parlò. Gli chiesi il suo nome e non mi disse niente, allora gli chiesi la sua età e non mi disse niente, gli chiesi da dove venisse e non mi disse niente, gli chiesi da quale libro venisse e allora disse qualcosa.
“Non lo conosci” mi rispose. “È un libro speciale, tutto mio. Che posso leggere solo io. Non posso dirti il titolo, o l’autore, non posso dirti niente, è un segreto e se te lo dicessi lo useresti per ferirmi.”
Parlai altre volte con lui, anche Riccardo gli parlò, anche Elena, tua sorella, lo fece, quando venne in libreria in cerca di un libro per le vacanze. Hans volle darle Orgoglio e pregiudizio della Austen.
Tutti gli parlarono, tutti lo ascoltarono mentre dialogava con personaggi che noi non potevamo vedere, percepire. Tutti tranne te. Tu non hai mai letto Il ritratto di Dorian Grey.
Tu vuoi sapere cosa successe quel dieci agosto, due settimane dopo che conoscemmo Hans, e dopo ventisette anni posso dirtelo, sono pronto, sono cresciuto abbastanza, ti amo abbastanza.
Tu sei abbastanza.
Ora.
Tu vuoi sapere perché tu, Riccardo ed Elena mi trovaste dietro quello scaffale a piangere tenendo tra le braccia Hans che non respirava e che moriva dissanguato.
Con il volto tutto bianco.
Con fiumi di sangue che gli davano un po’ di colore alle braccia.Era il primo giorno di agosto, avevo portato ad Hans dei biscotti al cioccolato da mangiare e lui se li divorò mentre osservavo la copertina del libro che stava leggendo, con dentro il personaggio con cui stava parlando prima del mio arrivo. Stava leggendo Il Piccolo Principe e stava parlando con la volpe. Non con il protagonista o con il narratore della storia o con la Rosa. Stava parlando con la volpe, un personaggio che appariva per giusto due capitoli. Un personaggio che incuriosisce, ma che poi non si ha mai la motivazione di approfondire.
Di solito chiedevo io qualcosa ad Hans per stimolarlo a parlare, quella volta chiese lui qualcosa a me.
Mi chiese del suicidio.
“E che vuoi sapere del suicidio, scusa? Sei un po’ piccolo per pensare a cose così tristi, non ti pare?”
“Sì, ma pensaci, mi disse. Pensaci bene, c’è gente che sente il bisogno di farlo. Di andarsene. E voglio capire se è giusto o sbagliato perché a volte anche io voglio farlo.
Andarmene.
Dissanguato.
È una cosa molto importante, perché mi sento sporco, nel sangue. Ho la sensazione che questo posto non sia giusto per me, che le persone e i libri che ci sono qui non siano giusti, che nemmeno questo sangue mi appartenga, e me ne vorrei tanto liberare. Tu non provi mai una cosa del genere? Tipo che tutto sta andando troppo in fretta, che tu non riesci a stare al passo, perché non ne hai le capacità. Non puoi stare al passo con questo mondo perché questo è il mondo sbagliato. È questo che sento. Che sono troppo piccolo, e troppo silenzioso, e troppo strano, e troppo diverso, e troppo spaventato, e troppo io.”
Pensai e penso tuttora che aveva ragione.
Lui era troppo speciale.
Cosa successe quel dieci agosto, quando morì San Lorenzo, quando un poeta perse un padre, quando le stelle piansero, sanguinarono e si schiantarono, spezzate?
Successe che non stavo bene e che volevo vedere Hans, ma era tardi, la libreria era già chiusa. Doveva esserlo, ma la porta era aperta, Adelmo non c’era, e io entrai. Andai dritto dove sapevo che avrei trovato Hans e Hans era lì e stava morendo. Si stava purificando, liberandosi di tutto quel sangue che non sentiva suo.
Tu, tua sorella e Riccardo mi cercaste in piazza. Una volta vista la porta della libreria aperta, provaste a entrare, mi sentiste piangere.Quindi cerca nel cassetto di Elena, il taccuino verde con i tuoi paradossi, perché lì ci ho scritto tutti i discorsi che ho fatto con Hans. Lì ci sono tutte le soluzioni ai paradossi che ti tormentano tanto.
In quello stesso cassetto troverai, assieme al taccuino, i libri che Hans ci regalò. Quei libri che ogni dieci agosto, da ventisette anni, Adelmo, Elena, Riccardo e io rileggiamo. Bukowski mi mantiene in vita da ventisette anni. Senza Hans, senza il suo regalo, senza le parole che volle offrirmi, senza la sua comprensione di me, forse anche io non mi sarei sentito proprietario del mio sangue.
Quindi ti prego, a te che vedo con quegli occhi così tristi, con stampata nelle iridi l’immagine di un me piangente e spaventato, a te dico, leggi il libro che Hans sentì come tuo, perché aveva ragione. Perché ci sono persone come lui che possono capire gli altri e ci sono libri come quello che possono aiutare a essere un po’ meno infelici.Tu non hai capito me, ma sappi che se tu dovessi mai soffrire, io capirò te.Con affetto…

Francesca Biasone
Fu Adelmo a presentarcelo: “Vieni qui Hans, dai avvicinati, ti presento questi ragazzi!”
Hans si voltò un po’ guardingo, a pensarci bene quasi circospetto, ma con il senno del poi è facile parlare, in quel momento mi sembrò solo un ragazzo riservato e tutto preso dalla scelta dei libri da comperare. Si trovava davanti allo scaffale dei grandi classici, chiuse il testo che stava sfogliando e si avvicinò a noi con l’aria di chi stava rispondendo a un’esortazione solo perché l’educazione lo imponeva.
Gli porsi la mia mano, mentre lui rimase a fissarmi scrutandomi come se avesse la facoltà di vedere cose della mia faccia da sempre sfuggite a qualsiasi specchio. Quando poi si decise ad allungare la sua mano, raccogliendo la mia che quasi stava per ritrarsi, lo fece con un movimento cedevole. Ricordo bene la sua presa stanca, le sue dita lunghe e magre, il suo palmo privo di consistenza, ricoperto da un velo di pelle liscia come il vuoto. Mi parve di stringere la mano di uno scheletro.
“Mi chiamo Giulio, molto lieto.”
Hans annuì e continuò a sbrigare quelle presentazioni affettate, passando alla conoscenza di Adriano e di Claudia.
Aspettavamo, io e loro, di partire per la Grecia: i biglietti del traghetto appena prenotati in agenzia, l’appartamento pure, partenza prevista per il sette di agosto, dieci giorni sull’isola di Zante. A ottobre ci saremmo laureati, noi tre, amici come fratelli: dai banchi del liceo alle aule dell’università. Le tesi erano pronte, corrette e revisionate dai relatori, battute a macchina da noi medesimi.
Pensavamo al futuro come a qualcosa di agguantato, avremmo fatto dei concorsi o forse intrapreso il dottorato, qualcuno sarebbe andato a Londra per imparare la lingua, ma non ce ne preoccupavamo molto perché all’epoca il futuro era nostro, meritato, così come quella vacanza in Grecia.
“Di dove sei Hans?” gli domandò Adriano direzionando meglio l’unico ventilatore della libreria. “Sono di qui, di Roma.”
Adelmo si inserì dicendo che Hans di danese, oltre al nome, aveva la madre, ma era romano e nato a Roma come noi.
“E non ci vai mai in Danimarca?” gli chiese Claudia.
“Si, ci vado… cioè ci andavo …quando ero piccolo …in estate, a trovare i nonni.”
E rispondendo si faceva strada verso la cassa per pagare.
“Cosa hai scelto oggi Hans?” gli chiese Adelmo inforcando gli occhialetti da lettura.
Hans gli porse il libro: “L’idiota! Bravo Hans… lo sai che è questo, a mio avviso, il vero capolavoro dell’autore?”
“Non lo so… forse sì. Quanto devo?”
Hans poggiò i soldi sul piattino di ceramica, Adelmo gli diede qualche moneta di resto e il ragazzo, afferrato il libro, si accomiatò frettoloso: “Grazie Adelmo, ciao a tutti, piacere di avervi conosciuti.” E si dileguò in una scia di aria arroventata.
Ines, figlia mia, sai, quel ragazzo per metà danese aveva all’incirca la tua età di oggi, me lo ricordo come fosse ieri, il giorno in cui lo conobbi, quel pomeriggio del 1975. Era alto Hans, aveva i capelli lunghi di un biondo sbiadito, così come sbiaditi erano i suoi occhi e ognuno dei tratti perfetti che gli componevano il viso. E poi quella sua magrezza anomala, non era la magrezza di una persona magra, neppure quella di una persona malata, era la magrezza di un disfacimento carnale. Mi sembrò che quel giovane uomo fosse fatto solo di spirito, di un corposo soffio vitale che gli permetteva di stare in piedi, di parlare e, soprattutto, di acquistare libri.
“Che c’avrà per la testa quel ragazzo!” commentò Adelmo dopo che Hans se ne fu andato.
“Da quanto lo conosci?” gli domandai.
“Da circa due mesi: all’inizio veniva ogni quattro o cinque giorni, adesso lo vedo sempre. Viene qui il pomeriggio, a orari diversi. Entra, se ne va verso quello scaffale lì, guarda i titoli per qualche secondo, poi si prende un’agendina dalla tasca, ci segna sopra qualcosa, sfila il libro dallo scaffale e viene a pagare.”
“E cosa compra?” gli domandò Adriano accendendosi una sigaretta di tabacco appena preparata. “Solo classici: i francesi, gli inglesi, gli italiani, negli ultimi giorni ha iniziato con i russi.”
“Cosa fa nella vita?” chiese Claudia.
“Non l’ho capito principessa. Va sempre di fretta. Paga e scappa via, come oggi. Lo avete visto.”
Sì Ines, lo avevamo visto ed era stata proprio quella sua fretta a colpirmi. Più del suo aspetto stanco, più dei suoi modi schivi, la sua fretta portava in sé qualcosa che viveva separatamente da lui: una corda che lo trascinava, una voce a cui dover rispondere, un capo severo e imparziale ai cui comandi non fosse possibile sottrarsi.
Il pomeriggio seguente andammo presto nella libreria di Corso Francia. Quante chiacchiere, quante sigarette, quanti incipit leggemmo, fino a quando Hans varcò la soglia del negozio.
“Oggi più tardi del solito Hans!” lo salutò Adelmo con il suo piglio allegro e benevolo.
Lui annuì e si diresse al solito scaffale. Lo osservai, quel ragazzo catalizzava la mia attenzione in un modo così necessario. Esitò per qualche secondo davanti alle mensole di legno impolverato, si strofinò gli occhi con le dita e poi rimise a fuoco lo sguardo. Impresse un segno sulla sua agendina. Si avvicinò alla cassa con un grosso tomo in mano, più alto di quello del giorno precedente: I fratelli Karamazov…e L’idiota? Il libro comprato il giorno prima che fine aveva fatto? Lo aveva regalato? Aveva iniziato a leggerlo, ma non gli era piaciuto? Era il tipo che riusciva a leggere più libri contemporaneamente? Forse li comprava per allestire una bella biblioteca? Ines, io ero un buon lettore, lo sai: sono sempre stato un lettore superiore alla media, un lettore avido, eppure non considerai che Hans fosse passato all’acquisto de I fratelli Karamazov perché avesse già terminato di leggere L’idiota.
Fu Claudia a intuirlo e a chiederglielo. “Si”, rispose lui candidamente, “l’ho appena finito.” Notai i suoi occhi cerchiati di un blu livido, occhi lucidi di sonno. Mi parve sfinito.
“Hans, prendi un caffè con noi!”
Lui mi guardò allucinato… come se avessi bestemmiato un dio soltanto suo…
“No no, non posso, vado, devo andare.”
Io non ero intenzionato a cedere e gli altri mi supportarono.
“Solo un caffè Hans, fermati un minuto.” Corsi al bar accanto e feci preparare cinque caffè da portar via, sollecitando il barista a far presto. Rientrai in libreria temendo di non trovare più Hans, invece lui c’era, Adelmo e i miei amici furono bravi a trattenerlo.
Bevemmo il caffè. Oggi so che Hans quel pomeriggio era così stremato che non riuscì a porre la resistenza necessaria per scappar via. Credo anche che avesse bisogno di quel caffè, lo osservai berlo in un moto di ristoro, assaporandolo come se si trattasse di un nettare prodigioso e poi notai quel particolare che diede una svolta a tutto. Mentre si portava la tazzina alle labbra, vidi il suo anulare sinistro chiuso in un cerchietto d’oro luccicante. Era sposato Hans. E dov’era sua moglie? Perché non l’avevamo mai vista insieme a lui? Doveva essere lei il motivo di quella fretta marziana.
Sì Ines, era proprio lei che lo spingeva oltre i confini della resistenza e del tempo. Hans, braccato dalla nostra presenza e dalle nostre domande, ce lo confidò. Sua moglie lo aspettava a casa. Non poteva uscire con lui, il male che la inchiodava a letto la prosciugava di ogni energia.
“Sono per lei i libri che prendi qui?”
Lui sollevò il viso su Claudia e piantandole addosso gli occhi commossi, le rispose tutto d’un fiato: “Silvia avrebbe voluto fare l’università e insegnare la letteratura ai ragazzi, invece la necessità di lavorare per mantenersi gliel’ha impedito. Poi ci siamo conosciuti, nel ristorante nel quale lavorava. Sei mesi dopo eravamo sposati e lei decise di continuare a studiare: avrebbe scoperto tutti quei capolavori che conosceva solo di fama, ne avrebbe compreso i perché, i quando, i dove… avrebbe compreso il mondo… così mi diceva sempre. Dopo un anno cadde. Era domenica, si era alzata dal suo tavolino per prepararsi una tazza di tè, io sentii il rumore della ceramica che si infrangeva sul pavimento della cucina e fra quei cocci taglienti la ritrovai.”
Si alzò, di scatto, si era concesso troppo tempo, ci disse che dieci minuti erano troppi, era tempo che sottraeva a Silvia. Lei di tempo non ne aveva e i libri da leggere erano ancora tanti, erano troppi e lui doveva sbrigarsi. Silvia era debole, non riusciva neanche a sfogliarlo un libro e doveva farlo lui per lei.
Ines, Hans ci raccontò che quando i medici rivelarono a Silvia che il suo male la condannava a morte, lei pianse, si disperò perché non si può morire quando la vita è appena iniziata. Non ha senso nascere se si deve morire a venticinque anni, quando si è appena trovato l’amore, per un uomo e per i mondi infiniti racchiusi dentro i libri.
“Sarebbe stato bello poterli leggere tutti Hans, i grandi classici, quanta vita in più avrei conquistato… quanta bellezza…”
“Li leggeremo tutti amore mio. Io te lo prometto Silvia, li leggeremo tutti.”
Fu così che Hans iniziò a leggere per sua moglie e, leggendo, la scopriva rasserenata. Il volto sofferente le si distendeva in un’espressione di beatitudine. I romanzi celebri raccontati attraverso la voce del marito le donavano sollievo dai dolori del corpo, allontanavano il pensiero della morte.
Il giorno successivo Hans non entrò nella libreria di Adelmo. Gli ci vollero due giorni per terminare I fratelli Karamazov e quando tornò in libreria la sua faccia era un lenzuolo sudicio e stropicciato.
Comprò Anna Karenina. “Quanti libri ti mancano Hans?” “Tanti Giulio!”
“Dicci quanti, per favore.”
“Non li ho contati. Tutta l’opera di Tolstoj, Flaubert, Jane Austen, Oscar Wilde, Charles Dickens, Verga e poi lei vorrebbe ascoltare Marquez… e non te li ho elencati tutti Giulio. Adesso vado, torno da lei.”
“Come sta lei?”
“Sempre peggio, ma quando leggo sembra quasi felice, ascoltare le infonde coraggio, ma io devo sbrigarmi perché il tempo è poco, non so quanto resisterà ancora.”
“E tu Hans? Quanto resisterai tu?”
“Non è importante questo.”
“Sì è importante, se tu crolli come farete? Come rispetterai la promessa che hai fatto a tua moglie?”
“Non crollerò!”
“Stai già crollando, sei un fantasma Hans!”
“Ce la metto tutta io…cosa volete da me?”
“Aiutarti a leggere.”
“In che modo?”
“Leggeremo per tua moglie, a turno. In tre andremo più veloci, sarà meglio, sarà più facile.”
Hans si aggomitolò in un’espressione di sgomento. Cosa fare quando degli estranei ti offrono aiuto senza chiedere nulla in cambio? Come fa un essere umano bastonato dalla vita a dar fiducia, a credere che un altro mondo sia possibile. Come si fa a prestare fede? È una scommessa la fede e Hans, in quei pochi secondi di sgomento, decise di scommettere sul sì e accettò il nostro l’aiuto.
Quello stesso pomeriggio ci portò a casa sua, lasciandoci attendere nel salotto mentre spiegava a sua moglie quello che sarebbe accaduto, poi ci introdusse nella stanza da letto.
Ricordo il filo d’aria calda che attraversava la camera dei due sposi, uno scrittoio di legno antico, forse simile a quelli sui quali erano state scritte le storie che ci apprestavamo a raccontare. Ricordo il lettone vestito di lenzuola azzurre, sulle quali era adagiata lei, Silvia. Aveva i capelli sottili un po’ appiccicati sulla fronte sudata, il viso attento e il corpo raccolto in una forma composta. Ci salutò con un sorriso. Mi parve la Madonna.
Claudia iniziò a leggere Anna Karenina. Proseguii io. Dopo di me Adriano. Ci davamo il cambio ogni due ore circa. Leggemmo per giorni, fermandoci solo per l’esiguo tempo in cui Silvia si assopiva. Chi di noi non leggeva, si preoccupava di preparare i pasti e di scendere in libreria ad acquistare i nuovi libri. Leggemmo per lei, ma anche per lui che, in quel modo, riuscì a starle accanto e a godere a pieno degli scampoli di quel loro tempo.
Arrivò il sette di agosto e noi non partimmo per la Grecia. Non fu un sacrificio, Ines, la promessa di Hans alla moglie era diventa la nostra promessa. Era il senso di tutto.
E così leggemmo tutti i grandi classici, mentre Silvia ascoltava appagata, mentre Hans la guardava con la faccia che aveva ripreso le fattezze di un essere umano. Fu faticoso, ma indispensabile e quando capitava di incrociare il volto di Silvia, lei ci donava dei sorrisi che non appartenevano più a questa dimensione, erano immensi quanto la sua gratitudine, erano eterni come le pagine magnifiche che avevamo il privilegio di leggere per lei. Quei sorrisi sono rimasti bloccati nel mio cuore, figlia mia.
E giungemmo a Marquez. L’ultimo titolo che Hans spuntò sulla sua agendina fu L’amore ai tempi del colera. Qualche ora dopo aver ascoltato la storia dell’amore disperato e tenace di Florentino Ariza per Fermina Daza, Silvia spirò, con quel suo sorriso che divenne per noi l’annuncio dell’esistenza del Paradiso.
Ines cara, nel comodino della tua Elena troverai i titoli che Hans aveva elencato sul suo taccuino. I titoli che valsero una promessa esaudita. Una scommessa di fede. I titoli che regalarono la quiete a una giovane morente. I titoli che regalarono l’eternità alla nostra gioventù.

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