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Cronache da Ferroponte

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Saccheggiata dalla criminalità e tenuta in scacco dal malaffare, Ferroponte fa parte di quella zona disgraziata che è la Terra dei fuochi, in cui rifiuti sversati e poi ricoperti fermentano in morbi misteriosi e velenosi miasmi notturni. Un paese in cui troppo spesso, alla libertà, gli uomini preferiscono la sottomissione al potere. Dice don Raffaele, parroco e custode delle confessioni e dei segreti di tutti: a Ferroponte «servi non si nasce, si diventa».

Di certo è il caso di Ninuccio, consigliere comunale che decide, per amore di una donna, di vendersi a don Salvatore, boss che tutto vede e tutto dispone. Almeno finché la sua coscienza non si farà sentire…

PROLOGO

Ferroponte, nella piana di Terra di Lavoro, era nota per la produzione delle albicocche e delle patate. Nelle immediate vicinanze si coltivava la canapa, che si portava a macerare nelle vasche del pantano di Pezzalunga, dove si raccoglievano le acque ricche di calcare provenienti dai monti di Maddaloni.

L’unica attività industriale era una corderia, chiusa nel decennio successivo all’ultima guerra.

Oggi Ferroponte è uno dei tanti agglomerati dell’area metropolitana di Napoli che da borghi contadini si sono disordinatamente trasformati in luoghi costruiti troppo in fretta e senza regole, in questa terra disgraziata che una volta è stata la Campania felix.

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UN PANE DAVVERO SPECIALE

È vedova e fa il pane in una masseria alla periferia di Ferroponte.

Si è sistemata bene Rosina, con i forni a legna e il pane che smercia ogni mattina.

Ne fa due, tre infornate al giorno; col ricavato riesce a mantenersi e pure a mettere da parte qualcosa; abbastanza da costruire la casa per sé e per i due figli.

Tutto abusivo, s’intende, perché è così che è cresciuta Ferroponte.

Un agglomerato di case e palazzi dove prima era solo campagna.

Tutto abusivo e senza licenza.

Successe quando arrivò la ricchezza, a metà degli anni Settanta. Ma solo per pochi.

Per quelli che possedevano la terra, la campagna coltivata a patate o a frutteto di albicocche.

Quelli fecero l’affare tre volte.

La prima quando vendettero i terreni su cui si sarebbero dovuti fare i terrapieni per l’Asse Mediano, la superstrada che collega la provincia interna alla città. La terra fu caricata sui camion e al posto dei campi di patate e dei frutteti rimasero decine di fossati profondi fino a venti, venticinque metri.

Dall’alto, in elicottero, Ferroponte sembrava tutta una groviera, con poche masserie e qualche casa sparsa.

Facevano impressione quelle case.

Quando c’erano i frutteti, gli edifici s’intravedevano a malapena tra le piante; ora apparivano in tutta evidenza con le mura scrostate esposte al sole, circondati da fossati, in un luogo che non era più nulla, né campagna né paese.

La seconda volta, l’affare lo fecero quando vendettero tutto ciò che era stato scavato perché venisse riempito.

Per mesi, centinaia di camion continuarono ad arrivare a Ferroponte e a scaricare nei fossati di tutto: elettrodomestici usati, carcasse di auto e bestie morte, liquami, tettoie di eternit, tubi di amianto e di gomma, pneumatici e rifiuti organici.

E mentre il fossato si riempiva, i proprietari del fondo davano pure a chi glielo chiedeva il permesso di far razzolare lì intorno i maiali.

I suini sarebbero finiti al macello, poi venduti nei supermercati come carne da arrosto o insaccati.

Quando i fossati furono quasi pieni, i contadini di Ferroponte pensarono bene di farci una bella colmata di terra per ripiantarci gli alberi, magari quelli che c’erano prima.

Fu così che tutta Ferroponte tornò piena di alberi di albicocca, pesca e pera. Sembrava una green valley divisa in lotti geometricamente allineati ai piedi del monte.

Si era alla fine degli anni Settanta; poi sarebbe arrivato il decennio degli yuppie e della ricchezza rampante.

Don Salvatore, il boss della contrada, che di fiuto ne aveva parecchio, pensò bene di acquistarne molti, di quei nuovi terreni, pagandoli quattro soldi come lotti agricoli.

Quando ci furono le elezioni comunali, cominciò a oliare l’ufficio tecnico e l’assessore al ramo perché trasformassero quei lotti in terreni edificabili.

E qui ebbe l’illuminata, la trovata geniale: acquistare altri lotti di terra senza neanche pagarci una lira.

I proprietari, anche i più tenaci e maldisposti a vendere, don Salvatore – o chi per lui – li convinceva allo scambio: cedere la terra, su cui lui avrebbe costruito palazzi alti fino a quattro piani, in cambio di due, tre appartamenti.

Molti proprietari furono contenti di avere l’appartamento bello e fatto per sé o per le figlie da maritare.

Altri, meno sprovveduti, lo sentivano lontano un miglio l’odore di bruciato.

Don Salvatore, dal canto suo, ci trovava la doppia convenienza: dava lavoro in nero a muratori, carpentieri e a chiunque facesse il mestiere, diventando benemerito agli occhi della gente… e costruiva palazzi con poca spesa.

A tutti gli altri abitanti di Ferroponte, quelli che non possedevano la terra, rimase come unica possibilità di attaccarsi al treno della fortuna quella di avviare attività abusive.

L’attività di Rosina era fare il pane nel forno a legna che si era fatta costruire dopo la morte del marito, caduto da un’impalcatura che la ditta di costruzioni aveva montato, di notte e in tutta fretta, per colare il cemento e far trovare pronti al mattino pilastri e intelaiature.

Senza luce, solo con qualche lampara che a stento illuminava il cammino, Vituccio, il marito di Rosina, aveva messo il piede in fallo ed era cascato giù, crepando sul colpo.

Aveva lasciato la moglie vedova e sola, con due bambini da crescere e nessun sussidio.

Allora Rosina si era rivolta a chi comandava.

E don Salvatore s’era sentito in dovere di accontentarla, anche perché la ditta che stava eseguendo i lavori era la sua.

Le aveva fatto costruire un forno nel cortile accanto al basso dove abitava.

Rosina gliel’aveva spiegato bene che lei, essendo figlia di contadini, il pane lo sapeva davvero fare.

E mentre glielo spiegava don Salvatore altrettanto bene se la guardava.

Era ancora giovane, piccola di statura, bruna d’occhi e di capelli, formosa e piacente, la Rosina.

L’avrebbe accontentata certamente.

Ma lei avrebbe dovuto ricambiare riscaldandogli il letto una volta a settimana.

Così stavano andando le cose e nulla lasciava presagire che la rottura di un dente, il molare dell’arcata superiore del sindaco, sarebbe stata foriera dell’abbattimento di tutti i forni a legna di Ferroponte e dintorni e avrebbe mandato in rovina la lucrosa attività del pane fatto in casa.

12 January 2021

Recensione

Ecco una bella recensione di Cronache da Ferroponte, grazie a Nunzio Ingiusto. Qui il link: https://www.firstonline.info/ambiente-se-la-terra-dei-fuochi-e-ferroponte/
08 gennaio 2020

Aggiornamento

Un amico Stefano Pioli, accanito lettore ha scritto: Libro terribilmente nutriente, fluido e facilmente assimilabile, ed io l’ho appena finito di sorseggiare, centellinandolo, come si fa con un vin brulè, che dà l’idea del romanzo: una bevanda saporita, fumante, aromatica, speziata. Oltre alla cannella e ai chiodi di garofano, l’autore vi ha aggiunto una scorza di limone, per rendere acre quel sapore che poteva sembrare un po’ mielato, ma soprattutto per alleviare la maleodoranza degli eventi narrati. La grazia e la dolcezza sono gli ingredienti del romanzo, ma anche una grave tossicità che emana da ogni pagina, come dalla terra violentata di Ferroponte. La scorza d’agrume rappresenta il tentativo di rendere fruibile un racconto veritiero di eventi tragici e imperdonabili. La verità? “L’uomo chiama verità ciò che qualcuno ha deciso di chiamare così. Le verità sono illusioni. Tienitelo bene in mente!” – così garantisce alzando la voce ad hoc don Salvatore, l’astuto Boss cittadino. Questa è la sua Verità, di quelle che non ammettono repliche. E purtroppo isso tene ragione! Solo una Fede può garantirla, st’ambigua ancella del Potere… la Fede del Boss, per esempio, che ha un unico pregio: si sa da dove viene e si può contrastarla o assecondarla… ognuno scelga per sé. La terza possibilità, che è quella più frequente, è fare finta di niente. Che significa farsi i fatti propri. Aniello Milo ha scelto di raccontarli, i fatti altrui. Questa è la sua Verità. E non ha bisogno di falsità, di accordi sottesi, di avvocati delle cause ingiuste. A lui bastano i ricordi e quella che si chiama mitopoiesi, che è la capacità di interpretare la vita mitizzandone alcuni aspetti e alcune figure che l’hanno rappresentata. Questa è la Finzione di cui parlava Borges. È la Scrittura. Punto. Un passo significativo del libro: “Le parole sono creature viventi, sono capaci di farci immedesimare nelle emozioni che suscitano e di farci rivivere. Al pari dell’acqua che prima d’emergere e farsi fonte non rivela per quali vie sotterranee…” E le lacrime, scrive il Poeta, anch’esse sono parole, che meglio esprimono le emozioni e comunicano “l’indicibile”. Nel romanzo si parla di commistione fra l’uomo di malaffare e il politico: una volta era il camorrista a chiedere, ora è l’uomo pubblico a offrirsi, per avere in cambio quello che lo sostiene: il consenso che gli consegna il Potere! È uno scambio illecito, che legittima ogni abuso. Siamo in un paese, e non bisognerebbe mai cessare di pensarlo, in cui tutti i Poteri alla fine si accordano fra di loro. Quello che succede nel paese di Ferroponte non è che la pellicola in negativo di quello che si chiama Stato, e la sua democraticamente istituzionalizzata, e sapientemente truccata, fotografia. “…la politica non è solo un’arte ma è una sfida mortale quotidiana, la cui posta in gioco è il potere.” Ferroponte è anche l’immagine immonda di un paese che utilizza la bellezza per nascondere la monnezza, perché Qualcuno che Può ci lucri, a dispetto della salute e della felicità della gente. Sembra che non ci sia una via di mezza fra l’onestà assoluta e la mendacità. Come, forse, non ce n’è fra l’atto sessuale mirato a ingravidare e la prostituzione. Non può esserci una semplice e consapevole libido? No, questa è roba da signori! Da gente che può! Da padroni! Un’arma utilizzata da chi ha la coscienza sporca è quella che insudicia l’altrui: la calunnia, la più perversa delle arti. Che pure lo diventa, arte, quando ri-crea la realtà. Ma è un’arte sozza, che merita soltanto disprezzo. In questo mondo incivile, la saggezza può venire anche dalla parte più colpevole, quella del Boss, che tutto inquina. In un paese siffatto, solo chi ha il Potere pare avere il diritto di pensare, di giudicare, di usare la ratio, di scegliere. Purtroppo il disastro pare inevitabile: “Una società totalmente libera, forse, non è mai esistita a memoria d’uomo, anzi, c’è la certezza contraria: che la società non possa esistere senza costrizione.” Dobbiamo tuttavia abituarci a una vita, solo apparentemente, tranquilla, ogni tanto disturbata da un rumore improvviso, da uno sparo che, finché non tocca a me, è uno dei tanti eventi preventivabili, accettabili, direi quasi naturali. Questa è la nostra amata società e c’è chi osa ancora chiamarla civiltà. “Tutti sono d’accordo sulla lotta alla mafia ma pochi alla guerra contro la mafia.” – a volte pare che si colpisca il malaffare con la perizia dell’addetto alla potatura di un albero, che deve tagliare i rami ormai secchi, per agevolare la floridezza dei frutti del Potere. Il romanzo corale di Aniello Milo termina con un’immagine fatalistica. Il vento stormisce senza più presupporre una Storia dell’Uomo, priva sia di un ieri che di un domani. La morale che se ne trae mi rimanda alla memoria di un grande romanzo, “Il Gattopardo”. Solo il Potere sa come scrivere la Storia. Di fatto è lui l’Eterno, il Maledetto Scrittore. Stefano Pioli.
26 dicembre 2019

Aggiornamento

Non fumo, non bevo, non sniffo. Allora perché scrivo? Sono stato, più volte, giudice popolare e ne ho conosciuti di fatti ,anzi, di malefatte! Con il passare degli anni è maturata quest’opera, frutto di squarci folgoranti di un lavorìo carsico che silenzioso scorreva come magma contenuto e che, per il coagularsi alchemico delle circostanze della vita e delle sue forze interiori, è emersa assumendo le forme liberanti di un libro. Un libro in cui si rivela, a sé e agli altri, una parte del proprio itinerario intellettuale ed esperienziale. Amiamo ciò che ci manca e ci necessita e nell’epoca della necrosi tecnologica e dei suoi incantamenti massmediatici che addormentano/uccidono la realtà dell’anima, un’arte artigiana, tipica dell’uomo poietico consapevole della propria ricchezza interiore, qual è solo la scrittura e la sua attività creatrice, realizza tale possibilità. La Libertà esige il viaggio alla ricerca di se stesso. In ciò è racchiuso il senso e la necessità dello scrivere, come una delle espressioni metaforiche del viaggio nella propria esistenza trasmutante.

Commenti

  1. natale09

    (proprietario verificato)

    “Cronache da Ferroponte” non è una fiaba di un re e del suo reame. Ferroponte è sì un paese che sulle carte geografiche non esiste. Ma è un paese nel quale, in un’altra vita, ti sembra di esserci vissuto e forse di esservi stato protagonista, ma dalla parte giusta. Milo con certosina eleganza di linguaggio, chiaro e adamantino, delinea, attraverso un racconto fantastico, una realtà di vita sociale e politica che ancora oggi, purtroppo, si ritrova dalle nostre parti e, seppur in modo diverso, un po’ dappertutto. Milo si fa leggere tutto di un fiato per scorrevolezza e linearità di linguaggio, ma soprattutto per il suo fascino narrativo e per l’elogio di quella morale che sempre dovrebbe accompagnare la vita degli uomini. Prof. Natale Cennamo

  2. Aniello Milo

    grazie per il commento lusinghiero

  3. (proprietario verificato)

    Un bel libro! Scorrevole. Racconta la realtà di oggi. Lo consiglio!

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Aniello Milo
nasce l’11 febbraio 1957. Napoletano di origine, vive e lavora ad Amalfi dove si è trasferito nel 2014. Cronache da Ferroponte è il suo terzo romanzo.
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