Ferroponte, nella piana di Terra di Lavoro, era nota per la produzione delle albicocche e delle patate. Nelle immediate vicinanze si coltivava la canapa, che si portava a macerare nelle vasche del pantano di Pezzalunga, dove si raccoglievano le acque ricche di calcare provenienti dai monti di Maddaloni.
L’unica attività industriale era una corderia, chiusa nel decennio successivo all’ultima guerra.
Oggi Ferroponte è uno dei tanti agglomerati dell’area metropolitana di Napoli che da borghi contadini si sono disordinatamente trasformati in luoghi costruiti troppo in fretta e senza regole, in questa terra disgraziata che una volta è stata la Campania felix.
UN PANE DAVVERO SPECIALE
È vedova e fa il pane in una masseria alla periferia di Ferroponte.
Si è sistemata bene Rosina, con i forni a legna e il pane che smercia ogni mattina.
Ne fa due, tre infornate al giorno; col ricavato riesce a mantenersi e pure a mettere da parte qualcosa; abbastanza da costruire la casa per sé e per i due figli.
Tutto abusivo, s’intende, perché è così che è cresciuta Ferroponte.
Un agglomerato di case e palazzi dove prima era solo campagna.
Tutto abusivo e senza licenza.
Successe quando arrivò la ricchezza, a metà degli anni Settanta. Ma solo per pochi.
Per quelli che possedevano la terra, la campagna coltivata a patate o a frutteto di albicocche.
Quelli fecero l’affare tre volte.
La prima quando vendettero i terreni su cui si sarebbero dovuti fare i terrapieni per l’Asse Mediano, la superstrada che collega la provincia interna alla città. La terra fu caricata sui camion e al posto dei campi di patate e dei frutteti rimasero decine di fossati profondi fino a venti, venticinque metri.
Dall’alto, in elicottero, Ferroponte sembrava tutta una groviera, con poche masserie e qualche casa sparsa.
Facevano impressione quelle case.
Quando c’erano i frutteti, gli edifici s’intravedevano a malapena tra le piante; ora apparivano in tutta evidenza con le mura scrostate esposte al sole, circondati da fossati, in un luogo che non era più nulla, né campagna né paese.
La seconda volta, l’affare lo fecero quando vendettero tutto ciò che era stato scavato perché venisse riempito.
Per mesi, centinaia di camion continuarono ad arrivare a Ferroponte e a scaricare nei fossati di tutto: elettrodomestici usati, carcasse di auto e bestie morte, liquami, tettoie di eternit, tubi di amianto e di gomma, pneumatici e rifiuti organici.
E mentre il fossato si riempiva, i proprietari del fondo davano pure a chi glielo chiedeva il permesso di far razzolare lì intorno i maiali.
I suini sarebbero finiti al macello, poi venduti nei supermercati come carne da arrosto o insaccati.
Quando i fossati furono quasi pieni, i contadini di Ferroponte pensarono bene di farci una bella colmata di terra per ripiantarci gli alberi, magari quelli che c’erano prima.
Fu così che tutta Ferroponte tornò piena di alberi di albicocca, pesca e pera. Sembrava una green valley divisa in lotti geometricamente allineati ai piedi del monte.
Si era alla fine degli anni Settanta; poi sarebbe arrivato il decennio degli yuppie e della ricchezza rampante.
Don Salvatore, il boss della contrada, che di fiuto ne aveva parecchio, pensò bene di acquistarne molti, di quei nuovi terreni, pagandoli quattro soldi come lotti agricoli.
Quando ci furono le elezioni comunali, cominciò a oliare l’ufficio tecnico e l’assessore al ramo perché trasformassero quei lotti in terreni edificabili.
E qui ebbe l’illuminata, la trovata geniale: acquistare altri lotti di terra senza neanche pagarci una lira.
I proprietari, anche i più tenaci e maldisposti a vendere, don Salvatore – o chi per lui – li convinceva allo scambio: cedere la terra, su cui lui avrebbe costruito palazzi alti fino a quattro piani, in cambio di due, tre appartamenti.
Molti proprietari furono contenti di avere l’appartamento bello e fatto per sé o per le figlie da maritare.
Altri, meno sprovveduti, lo sentivano lontano un miglio l’odore di bruciato.
Don Salvatore, dal canto suo, ci trovava la doppia convenienza: dava lavoro in nero a muratori, carpentieri e a chiunque facesse il mestiere, diventando benemerito agli occhi della gente… e costruiva palazzi con poca spesa.
A tutti gli altri abitanti di Ferroponte, quelli che non possedevano la terra, rimase come unica possibilità di attaccarsi al treno della fortuna quella di avviare attività abusive.
L’attività di Rosina era fare il pane nel forno a legna che si era fatta costruire dopo la morte del marito, caduto da un’impalcatura che la ditta di costruzioni aveva montato, di notte e in tutta fretta, per colare il cemento e far trovare pronti al mattino pilastri e intelaiature.
Senza luce, solo con qualche lampara che a stento illuminava il cammino, Vituccio, il marito di Rosina, aveva messo il piede in fallo ed era cascato giù, crepando sul colpo.
Aveva lasciato la moglie vedova e sola, con due bambini da crescere e nessun sussidio.
Allora Rosina si era rivolta a chi comandava.
E don Salvatore s’era sentito in dovere di accontentarla, anche perché la ditta che stava eseguendo i lavori era la sua.
Le aveva fatto costruire un forno nel cortile accanto al basso dove abitava.
Rosina gliel’aveva spiegato bene che lei, essendo figlia di contadini, il pane lo sapeva davvero fare.
E mentre glielo spiegava don Salvatore altrettanto bene se la guardava.
Era ancora giovane, piccola di statura, bruna d’occhi e di capelli, formosa e piacente, la Rosina.
L’avrebbe accontentata certamente.
Ma lei avrebbe dovuto ricambiare riscaldandogli il letto una volta a settimana.
Così stavano andando le cose e nulla lasciava presagire che la rottura di un dente, il molare dell’arcata superiore del sindaco, sarebbe stata foriera dell’abbattimento di tutti i forni a legna di Ferroponte e dintorni e avrebbe mandato in rovina la lucrosa attività del pane fatto in casa.
natale09 (proprietario verificato)
“Cronache da Ferroponte” non è una fiaba di un re e del suo reame. Ferroponte è sì un paese che sulle carte geografiche non esiste. Ma è un paese nel quale, in un’altra vita, ti sembra di esserci vissuto e forse di esservi stato protagonista, ma dalla parte giusta. Milo con certosina eleganza di linguaggio, chiaro e adamantino, delinea, attraverso un racconto fantastico, una realtà di vita sociale e politica che ancora oggi, purtroppo, si ritrova dalle nostre parti e, seppur in modo diverso, un po’ dappertutto. Milo si fa leggere tutto di un fiato per scorrevolezza e linearità di linguaggio, ma soprattutto per il suo fascino narrativo e per l’elogio di quella morale che sempre dovrebbe accompagnare la vita degli uomini. Prof. Natale Cennamo
Aniello Milo
grazie per il commento lusinghiero
maria de giacomi (proprietario verificato)
Un bel libro! Scorrevole. Racconta la realtà di oggi. Lo consiglio!