Una Bianchi, certo, una Bianchi da corsa, oddio, non proprio da corsa, diciamo da strada. Nera, ancora lucida alla partenza da Milano. Una Bianchi coi freni a bacchetta e le gomme bicolori. Un turbine verso la campagna, fuori dalla confusione e dalla maledetta guerra, giù in città.
Mai stato meglio, pensava Antonio, mentre la Brianza gli si faceva incontro verde e odorosa di caprifoglio e gelso.
In quella vigilia di fine di agosto, il cielo era assediato da baldanzosi cumuli bianchi che, sospinti da un vento tiepido e svizzero, si gonfiavano allegri e sembravano giocare ai quattro cantoni.
Quanto gli mancavano i suoi figli, il Lino, smilzo e zazzeruto, con quei diciassette anni da poco compiuti, acerbi e promettenti, e la piccola Marina, quattro anni scarsi, sorriso tristemente allegro e occhi blu.
E quanto gli mancava l’Adele, un cespuglio di capelli rossi, come l’uva di Broni, gli occhi celesti e il viso spigoloso, con quella sbessolina impertinente. Era una donna semplice, Adele, sua moglie.
Il pensiero di rivederla con in braccio la piccola e di incrociare lo sguardo orgoglioso del suo ragazzo gli infondeva nuova energia e le gambe mulinavano sui pedali. Il record, questa volta, sarebbe crollato. Non c’era alcun dubbio.
La settimana non finiva mai. E anche se il lavoro ormai scarseggiava, l’impegno, per servire “come si deve” i clienti sopravvissuti alle ristrettezze di quel periodo, era rimasto immutato. E così il tempo dedicato ad ammorbidire il pellame e a inventare nuove forme.
La bottega di Antonio Bezzocchi, premiato artigiano di Verucchio, riceveva la luce da una vetrina che, nell’obliquo chiarore del sole pomeridiano, lasciava intravedere quell’uomo svelto, che cuciva con cura e decisione le tomaie, modellava i sottopiedi e i guardoli, tagliava con maestria il cuoio delle suole, tingeva e lucidava, come argenti da esposizione, le formidabili scarpe su misura che con pazienza e abilità prendevano forma dalle sue mani.
Solo scarpe su misura, non scarpe qualsiasi, opere d’arte da calzare soddisfatti, per la vita. Per tutta la vita.
In quel terzo anno di guerra, il cuoio, quello buono, era diventato merce introvabile, le pelli morbide un ricordo. L’ingegno s’era aguzzato almeno quanto i desideri si erano smagriti. Poche le scarpe nuove, in quei mesi grami, ma molte le aggiustature, le riparazioni, i recuperi. All’occorrenza, dalle vecchie calzature, dalle borse e perfino da qualche valigia, si riusciva a riconquistare abbastanza pellame per rivestire i piedi ancora esigenti delle signore.
Non bisognava più pensare che, solo qualche anno prima, nella bottega di via del Bollo, a un passo dal Palazzo della Borsa, il magazzino era pieno di pelli e, ai banchi, sgobbavano quindici lavoranti.
Dopo Monza, la strada iniziava a salire, con calma, senza fretta, un gradino alla volta, passando per Villasanta, Usmate, Lomagna, Osnago, Cernusco Lombardone su, su, verso il santuario della Beata Vergine del Carmelo.
Eccola lì.
Quell’ultima salita a schioppo accorciava il fiato e inspessiva le gambe, ma era un vero godimento tagliare dopo quello sforzo acuto, in piedi sui pedali, l’immaginario traguardo ai piedi della scalinata, sbuffando, con il cuore a martello.
Altro che Coppi, altro che Bartali.
Intanto si trattava di quaranta chilometri e passa, una tappa a cronometro assai impegnativa, pensava Antonio, che quella mattina, non aveva dubbi, avrebbe frantumato il record conquistato la settimana prima.
Un’ora e venti minuti, da uscio a uscio, ma, appunto, si poteva fare meglio, e meglio non si era mai sentito in vita sua.
Benché non fossero che le sette del mattino, il caldo, che durante la notte non aveva riposato affatto, si era già alzato, ben deciso a torturare i milanesi. Ne era convinto il Giovanni, che quella domenica, invece di arrostire nel letto, aveva deciso di scendere per strada e cercare, a suo modo, ristoro nel bar di Antonio.
Giovanni, un omone dal volto rubizzo che contrastava con la tuta blu che, probabilmente, usava anche come pigiama, ogni mattina, prima di iniziare il suo turno alla fabbrica dei vetri, passava davanti alla bottega di Antonio e non mancava giorno che facesse tintinnare il campanellino collegato alla porta per infilare la testa nella penombra e augurargli il buongiorno.
“Buongiorno a te, amico mio.”
La risposta di Antonio arrivava puntuale e cordiale con quell’accento romagnolo in filigrana.
Quella mattina, col naso quasi incollato al vetro bisunto del bar, Giovanni sorprese Antonio intento ad arrotolarsi fino ai gomiti le maniche della camicia bianca dopo aver fissato i risvolti dei calzoni con due mollette di legno e assicurato un piccolo involucro al portapacchi della bicicletta.
Uscì dal bar mentre l’amico inforcava la bicicletta.
“Ehi Bezzocchi, buona pedalata e stai attento alle rotaie.”
“E tu stai attento ai bicchieri. Ci vediamo domani, che vengo giù presto, col fresco, spero. Adesso vado che, se no, non arrivo più, lassù. Ho proprio voglia di una bella sgambata.”
“Salutami Adele e i ragazzi.”
“Contaci, tra poco più di un’ora te li saluterò!”
“E chi sei, la Locomotiva umana? Guarda che non sei più un ragazzo…certe battaglie lasciale ai giovani!”
“Sarà, ma oggi mi sento proprio come Guerra, mai stato meglio. A domani.”
“A domani, certo. Ciao, Antonio.”
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