31 dicembre 1983
Sono arrivata a Città del Messico stanotte, stipata nel cesso di un treno lento e marcio che non si decideva ad arrivare. I soldi mi bastano a malapena per mangiare, tra poco non saprò più dove sbattere la testa. Ormai mi muovo in clandestinità, nascosta negli anfratti più bui, nei posti più squallidi, con la cautela di una bestia che ha imparato a vivere nella paura. Se mi vedessi così mi ameresti ancora come un tempo? Riconosceresti tra le pieghe sudice del mio essere quella donna che un tempo amasti con tutte le tue forze e che ti ha lasciato andare senza levare le armi? Ora sto combattendo, contro tutto, contro me stessa, contro la voglia di perdermi nell’abbraccio accogliente della morte. Perché non c’è un solo giorno che non desideri scomparire piuttosto che pagare il supplizio della tua perdita. Nessuno parlava, ma avevo già capito. Hai lasciato le chiavi da lei, le hai dato un bacio affettuoso sulla guancia mentre piangevi e abbandonavi la tua vita insieme a me. Le hai imposto il silenzio, non vuoi essere trovato. L’hai fatto per salvarmi, perché quella notte siamo morti insieme, e ora ti hanno detto di sparire. E tra le tracce che ti sei curato di nascondere hai lasciato l’unica in grado di ricondurmi da te e che ora giace nella mia tasca rotta. Arrivo, amore, sto venendo a prenderti.
***
In treno ho conosciuto una donna, anche lei nascosta come me, con due bambini piccoli a carico, ricoperti di moccio e fango. Abbiamo diviso per quattro notti lo stesso letto di ferraglia, poggiate con la testa alla porta sfrigolante di questo bagno sporco. Segunda è povera e vedova, suo marito è stato ucciso in una sparatoria, nel suo piccolo paesino un tempo tranquillo e asfissiato dalla mafia. Parla solo spagnolo, ma riusciamo a capirci. I bambini hanno tre e quattro anni, un maschio e una femmina, la più grande, e hanno già gli sguardi svuotati di vita. Non piangono, non parlano, sembrano statue di cera pronte a sciogliersi al sole. L’unica volta che li ho visti cedere ad un moto spontaneo è stato quando ci scoprirono la scorsa notte. La porta del bagno si aprì sulle nostre teste scoperchiando in un instante il nostro tetto vagabondo. Ci svegliammo di soprassalto, la porta aperta da un calcio inaspettato, opera di un uomo in uniforme, che aveva deciso di terrorizzarci con una pistola puntata sulle nostre teste. Era un controllore, ma non di quelli che si vedono da noi, che ti svegliano con voce autoritaria per chiederti il biglietto, che si piazzano a far conversazione con le più carine, piuttosto uno di quelli che assomigliano ai criminali in giro per le strade, coi baffoni incolti e la pancia che straborda dalla cintura, un animale che ha mangiato troppo e che ha voglia di dettare legge. Eravamo state braccate e i bambini piangevano disperati sotto la minaccia di quell’arma che avevano visto per la prima volta abbandonata sul corpo del padre. Senza pensarci, tra le grida concitate dell’uomo e il pianto di Segunda, ho preso il mio zaino e mostrandolo in segno di resa, ho urlato “ho dei soldi, tengo dinero”. A quella frase il tizio si era guardato intorno per assicurarsi che nessuno lo vedesse e senza smettere di puntarci si era intascato i trecento dollari custoditi nel portafoglio di pelle nera, portandosi via anche quello. Eravamo in salvo. Avevamo pagato la nostra tangente e nessuno ci avrebbe più disturbato. Segunda corse ai miei piedi e piangendo, mi baciò le mani, la fronte, la guancia, come se l’avessi salvata da un’esecuzione ormai certa. I bambini fecero lo stesso, mi si avvicinarono dopo la madre, con quelle manine delicate mi accarezzarono i capelli, sondandomi coi sensi. Non mi avevano mai rivolto la parola. Ma quella sera fu speciale, mi riconobbero, mi abbracciarono. Piangemmo tutti insieme, ci sfogammo come mai prima, ognuno chiuso nel proprio dolore fuso in quello dell’altro. Prima di separarmi definitivamente da quel treno tre ore fa, Segunda mi ha abbracciato forte. Mi ha guardata negli occhi stanchi e lucidi tenendomi le mani. La vita ha sempre pietà delle persone buone. Seppellisci la paura nel tuo cuore e corri verso l’amore. L’amore non dimentica mai la strada di casa.
***
Marie ha scritto il nome del contatto su un biglietto che ho conservato nelle scarpe. Ha detto che devo fare attenzione. Ormai è una costante. Lui si chiama Eliás, è tutto ciò che sa insieme a un indirizzo. Il resto è vuoto. Se penso a tutte le aspettative che avevamo su questo viaggio, a tutte le risate che ci siamo fatti e che ogni notte mi tormentano l’anima. Non posso neanche permettermi il lusso di divagare, devo restare concentrata. Sono scesa via dal treno mischiandomi alla folla, con la testa bassa sotto un cappello all’americana. Erano giorni che non respiravo aria vera. Me lo godo tutto questo leggero venticello, respiro a pieni polmoni per eliminare il puzzo delle esalazioni di quel treno infernale, di quel dondolio senza sosta, di quella tazza lurida. Segunda ha ancora un po’ di cammino da fare, ancora un po’ d’inferno da sopportare fino ad Oaxaca, le ho lasciato il mio numero, se mai un giorno le andasse di chiamare, se mai ritornerò. Ho attraversato buona parte degli Stati Uniti, ho usato i voli finché ho potuto. Da due mesi a questa parte le uniche notti in cui non ho dormito in luoghi di fortuna sono state quelle a casa di Marie a Parigi e le due settimane in motel a cercare di dare un senso logico alle tappe di questa impresa. Avevo chiamato Marie qualche giorno prima della partenza, piangendo e inginocchiandomi alla cornetta nella follia del dolore, chiedendole di aiutarmi, di dirmi cosa sapeva, che stavo impazzendo, che avevo trovato il suo indirizzo su un foglietto spiegazzato nella tasca di una giacca.
–Tesoro non chiedermi questo…
–Marie ti supplico, se sai qualcosa dimmelo. Sai di quel vecchio viaggio, lo sai, dovevamo passare a trovarti era stata la nostra promessa, ti prego aiutami, devo ritrovarlo a tutti i costi, partirò in ogni caso, non ho più niente qui lo capisci, non posso stare ferma ad aspettare.
– Non vuole che tu lo segua, sai com’è la situazione, è per il bene di entrambi che io non posso…
– Allora è vero, sai qualcosa!
Non riuscivo a smetterla di parlare, di implorare. Le settimane precedenti erano state un tripudio di attimi di panico che mi confinavano in un perenne stato di crisi avanzata. Prendevo pillole, alcol, piangevo tutto il giorno, mi addormentavo sporca di vomito nel salotto, avevo distrutto tutta la pace di quella casa, quella pace simile alla morte dove mi mancava l’aria, dove mi mancava lui. Poi un giorno avevo aperto l’armadio e in un momento di disperata follia avevo scaraventato le sue camicie sul letto, le cravatte, le giacche che avevamo scelto insieme e mi ero immersa in quel marasma, nuotandoci dentro fino a sfinirmi, ripercorrendo a grandi bracciate i suoi giorni, tra le zaffate nostalgiche del cotone consunto, del lino che amava, dei jeans che aveva abbandonato come aveva fatto con me. Ero rimasta lì sotto per ore, sommersa fino al collo dalla slavina di ricordi che si avvicendavano negli occhi spalancati sul soffitto, inerme, come se quel peso riuscisse a restituirmi l’impressione di avere ancora un corpo, una sostanza. E fu allora che trovai il biglietto, nuotando con le dita in quelle tasche vuote. Senza saperlo avevo trovato una pista da seguire. Quando cominciò tutto non avevo idea di cosa mi sarebbe aspettato. Presi tutti i soldi disponibili, li divisi in sei portafogli che attaccai con delle spille da balia alla parete interna del grande zaino grigio da campeggio e lo riempii di qualche cambio, di cibo, di una sua foto. Non avevo bisogno di altro, avrei comprato tutto all’occorrenza. Le parole di Marie mi avevano aperto un mondo, avevano riportato in me la speranza.
– È vero, è passato da me. Avrei tanto voluto avvisarti ma mi ha fatto promettere..
Era bastata quella frase a confermare i miei primi sospetti. Sarebbe bastato seguire il piano, controllare tutto tappa per tappa, sperare che non si perdesse in variazioni, che non si cacciasse nei guai. Voleva essere trovato, lo sentivo. Prenotai il primo volo per Parigi, feci tutto da sola non chiesi niente a nessuno. Lasciai un biglietto a Clelia sul tavolo del salotto. Tornerò, promesso.
***
Marie venne a prendermi all’aeroporto. Mi trovò sconvolta da uno dei peggiori viaggi della mia vita. Da quando era successo, gli attacchi di panico erano aumentati, soffrivo terribilmente. Erano diventati parte integrante del giorno, folate improvvise di terrore che mi immobilizzavano dovunque mi trovassi e mi lasciavano inerme, con le gambe tremanti, il cuore impazzito, il sudore gelido e quella sensazione irreparabile di morte che mi sconvolgeva le viscere. Quando accadeva, me restavo stesa sul pavimento ansimando, torcendomi come un serpente agonizzante, in attesa della fine. Molte volte Clelia, vedendomi in quello stato, aveva provato a convincermi a tornare a casa ma di fronte all’ennesimo rifiuto, dopo un episodio assai grave, prese l’inevitabile decisione di trasferirsi lei da me, sperando che quella vicinanza sarebbe stata in grado di guarirmi. Purtroppo non bastò. Non sarebbe bastato un miracolo.
–Tesoro! Maia, sono qui!
Marie si fece lago nella folla degli arrivi, gridando e muovendo in aria la mano per farsi vedere. Avevo vomitato tutto il viaggio, con gli occhi fissi ad un tempo che non si decideva a scorrere, volando nel cielo della mia inquietudine, sotto i motori rombanti di quell’aereo spinto verso l’ignoto, sopra un mondo che non riconoscevo più. Ed ora ero lì, un involucro svuotato, davanti a quella che mi sembrava la donna più bella del mondo.
–Cara, non vedevo l’ora di incontrarti. Perdonami per non averti chiamato, avrei tanto voluto! Com’è andato il viaggio? Ti vedo molto stanca, dammi la valigia, lo zaino, ti aiuto, la macchina è qui fuori.
Era un vulcano. Lo era sempre stata. Un tempo l’avevo odiata come si odiano i nemici, quelli duri, quelli che ti lasciano perdente ad ogni sfida, che vivono solo per sminuire la tua esistenza nel mondo. Era stata la sua ragazza alle superiori. Erano stati insieme un anno, avevano fatto le loro esperienze, si erano amati per un po’ di quegli amori giovanili, spensierati, finché tutto non era finito così, candidamente, senza rancore, senza motivo. Ora la guardavo mettere in moto la sua bella macchina, in quella città sconosciuta, straniera, la città dell’amore, della moda, della bella vita, le sagome dei palazzi che si stagliavano all’orizzonte di un alba perfetta, quel cielo roseo di speranza, dove lei aveva finalmente trovato il suo posto nel mondo. Mi sembrava l’essere più fortunato della terra. Il mio posto non l’ho mai avuto, pensai, e immaginai me al suo posto, alla guida di quella station wagon rossa, con le buste della spesa ordinate sui sedili, la voce di mio figlio seduto al mio fianco, che mi racconta la sua prima giornata di scuola, le camicie di Cris da prendere in tintoria, la sua voce al telefono che mi dice ti tornare, che gli manco già anche se sono fuori solo da qualche ora. Immagino tutto questo, episodi felici in una vita parallela, mentre continua a parlare a briglie sciolte di lei, di me, di noi, mentre attraversa strade, viali alberati, il traffico della prima mattina, di quella città che si sveglia, che lavora, che inizia a vivere. Penso di essermi addormentata strada facendo, più di un’ ora di tragitto non rientrava nella mia lucida realtà.
–Scusa devo averti annoiata tesoro…
–Siamo già arrivate?
[…] Eravamo state amiche in un’altra vita, quando ridevamo sotto le stelle coi piedi piantati nella sabbia, quando il cielo si fondeva col fuoco nei nostri occhi giovani, nelle nostre risate intense.
–Vieni ti faccio strada!
Abitava nel quartiere di Marais, sulla rive droite, in un piccolo appartamento al secondo piano di uno di quei palazzi dai tetti mozzafiato, tutti perfetti, ordinati, bohemien, con tutti quei comignoli che sfidano il cielo. Mi fece strada oltre il portone intarsiato di legno scuro, su per le scale a chiocciola, con il ticchettio di quelle decolleté cremisi che faceva da ronzante sottofondo ai suoi discorsi vaghi. Poi ecco la sua porta, inconfondibile, con quel benvenuti all’italiana che non lasciava spazio a dubbi. Mi invitò ad entrare, a volte la serratura faceva i capricci ma ora si, ora c’era. E io? Dovevo capire se c’ero anch’io, ormai era tardi per tirarsi indietro. Varcai la soglia con una strana sensazione addosso, la pelle d’oca riaffiorava gelida sulle braccia sfregando contro il tessuto morbido della T-shirt. Lui aveva fatto lo stesso percorso, visto la stessa strada, gli stessi alberi, i semafori, aveva salito quelle scale, era entrato in quella casa con il suo passo leggero, allampanato, con quelle sue scarpe col cinturino di cuoio che a casa erano sparite dalla sua partenza. Stavo ripercorrendo le sue orme così come lui le aveva lasciate, chiare sull’asfalto, sulla moquette di quella casa dai divani grigi, dal tavolino basso in mezzo alla sala, con quelle tre candele arancio posate in un angolo. Fu la prima cosa che notai di tutta la casa. Quelle candele. Ricordo che le guardai a lungo. Chissà se erano state accese per lui, per creare atmosfera tra due ex che si ritrovavano, che forse si avvicinavano, si riscoprivano, memori dei tempi passati, dei baci consumati al sole della giovinezza. Marie continuava a parlarmi, voleva farmi vedere la cucina, era il pezzo forte della casa, ti piacerà di sicuro. Ma io, accecata dalle nebbie dei fantasmi passati, guardavo quel morbido sofà, quella lampada all’angolo sulla colonna di gesso a forma di ancella, quelle candele consunte e mi sembrò di vederli, lì, l’uno accanto all’altro in una di quelle sere in cui questa casa era stata il suo rifugio. Vedevo lei, con il suo trucco impeccabile, i capelli raccolti nello chignon elegante, la sua veste di seta blu sul corpo snello e invitante, intenta ad ascoltare le confessioni di quel giovane uomo che era stato il suo primo amore. Fu un colpo d’occhio doloroso, per quello che scatenò in me, per come la immaginai accarezzargli i capelli, adagiare quella testa così inerme e sola sul suo ventre di donna, cercare parole di conforto a quel lamento disperato che le raccontava di noi, di quell’incidente, della depressione, di quella storia che ormai non andava, che non c’era più. […] Poi gli occhi si spostarono per non cedere alle lacrime, agli abbagli dettati da quella gelosia immotivata e feroce, e fu un sollievo, perché a confutare tutto sovvenne la memoria, quell’ultima foto di noi tre scattata insieme l’estate di qualche anno prima, posata sulla libreria come una reliquia preziosa.
Martina Allegrucci (proprietario verificato)
“L’odore amaro degli ultimi incontri” è un ottimo romanzo d’esordio: una storia avvincente, ricca di colpi di scena e momenti drammatici. La protagonista Maia è il cuore del romanzo: fragile e appassionata, sognatrice e idealista e combattiva. L’empatia della scrittrice con Maia raggiunge una buona profondità psicologica e rende verosimili le relazioni con i personaggi. Consigliato ai sognatori e agli idealisti!
Claudia Stamile (proprietario verificato)
Totalmente rapita dalla storia di Maia e del suo viaggio alla ricerca della felicità perduta. Un romanzo di riscatto, di formazione, scritto magistralmente dalla penna di un’esordiente che sembra già aver capito i meccanismi delle grande letteratura. Assolutamente da scoprire e da consigliare per vivere emozioni senza tempo e senza età.
SEO (proprietario verificato)
Libro molto sorprendente. I capitoli brevi e l’intreccio tra passato e futuro rendono il ritmo incalzante, la storia scivola pagina dopo pagina seguendo le avventure di Maia, persa tra passato e futuro che rincorre l’amore della sua vita. I cambiamenti che accompagnano la protagonista sono quelli che accompagnano ognuno di noi. Mentre si sviluppa la storia si accende una crescente empatia che ci fa immedesimare sempre di più ad ogni parola. Assolutamente da leggere.
Domenico Marzolla (proprietario verificato)
Romanzo ben fatto, ben scritto. Scorrevole e accattivante, interessante soprattutto nelle linee temporali che si intrecciano tessendo una trama particolare. Molto profondo, toccante tanto da potersi quasi immedesimare con Maia (la protagonista). Diverse note di malinconia ma nel complesso direi decisamente consigliato
Arianna Galeazzi (proprietario verificato)
Un libro in cui ognuno di noi può trovare un pezzo di sé, che sia nella Maia studentessa o adulta, disillusa o ancora piena di speranza…un libro che ti porta in una dimensione in qualche modo già vissuta, in cui è facile immaginarsi o essersi già trovati in qualche fase della vita.Vengono così raccontate le passioni inarrestabili,i dolori immensi e i sogni infranti, ma, sopra ogni cosa, la ricerca continua di sé stessi attraverso l’altro…