Per via dei conflitto civile a Belfast, dagli anni ’20, appena si faceva buio, suonava una prima sirena che annunciava il coprifuoco. Si doveva chiudere tutto e correre a via. Non si poteva neanche stare in strada. – Proprio adesso che si comincia a guadagnare qualcosa! – Si rammaricava Michele.
Gli Irlandesi, cattolici o protestanti che fossero, non rinunciavano mai, neppure nelle peggiori condizioni, a farsi una bevuta assieme ad un cartoccio di fritto, nel tragitto per tornare a casa, specie di sabato, quando a chi lavorava, davano il salario. Ogni tanto capitava che passasse qualche vagabondo o famiglie con bambini piccoli. Compravano solo un cartoccio piccolo di patate da dividere in tanti. Michele che riconosceva fame e miseria, lo riempiva fino in fondo, e se era stata una giornata buona, il cartoccio lo regalava.
Quella sera il piccolo locale da poco allestito, con non pochi debiti con il solito cugino, era pieno di gente. Aveva mandato a casa prima sua moglie affaticata dalla gravidanza e rimase solo con il garzone a lavorare. Le cotture avviate, cantavano forte sul grande fornello e Michele non sentì né la prima, né la seconda sirena del coprifuoco. Ad un certo punto si accorse che il locale era deserto. Tutti, avventori e inservienti erano scappati, lui era l’unico in giro. Ormai non c’era tempo. Doveva andarsene via per non essere arrestato. Con tutto il grembiule, in maniche di camicia, abbassò la serranda di fretta e andò via, lasciando dentro l’unica giacca.
Corse trafelato fino a casa, rasente le strade nebbiose e gelide, per non incontrare la ronda di soldati inglesi pronti a manganellare chi a quell’ora non era a casa. Vinto dalla stanchezza e dal sollievo per essere arrivato, cadde addormentato.
Lo svegliarono di soprassalto nel cuore della notte le grida da basso e uno che picchiava forte alla porta.
– Miche’, svegliati! Ti si sta a brucia’ il negozio! Ci stanno i pompieri! – Era un connazionale, vicino di casa salito fin sulla sua porta. Lui, in un sonno profondo, non aveva sentito le sue grida.
Da lontano, mentre correva, vide tra nebbia e fumo, un bagliore venire dalla costruzione in legno e calcinacci, dove aveva il negozio. Per scappare aveva lasciato l’olio con pesce e patate sul fuoco, né aveva buttato l’acqua per spegnerlo sotto.
Il combustibile era schizzato fuori alimentando la fiamma, che lambendo le fascine di legna secca accatastata poco lontane, la carta di giornale per i cartocci di patate, aveva preso le assi del pavimento, scorrendo come una serpe infuocata verso i tavoli, le panche, il bancone fino al soffitto. Un disastro irrimediabile dal colore nero carbone e sapore amaro. Tutto era stato distrutto!
Aiutò anche Michele la catena umana di secchi che si era spontaneamente creata accanto ai pompieri, per spegnere il fuoco, che si smorzò più per le sue lacrime, che per l’acqua.
– Sono stati i Protestanti. Sicuro! – disse uno, e gli altri assentirono tutti. Michele, invece non fece una parola. Era tramortito ma non abbastanza per riflettere su questa triste circostanza.
Lui sapeva quello che era successo, era stata solo colpa sua. Meglio tacere per non avere altri guai, pensò con prudenza. Se si accorgevano che l’autore era stato lui involontariamente, avrebbe avuto conseguenze legali, carcere oltre il pagamento dei soccorsi allertati e eventuali danni a terzi. Non ebbe il coraggio di raccontarlo a sua moglie, sconfortata per l’incidente e per tutte le conseguenze che ci sarebbero state.
La polizia, il Corpo di Polizia Reale Irlandese, aprì subito un indagine. Non potendo stabilire come era stato appiccato il fuoco visto che tutto era andato in fumo, dato che il locale era di un italiano di Santa Romana Chiesa, preferirono per sicurezza, archiviare l’indagine, nel caso fossero stati davvero i Protestanti, quelli che comandavano, per non avere grane. D’altronde gli incendi erano all’ordine del giorno in quelle vecchie case di legno marcio intonacato, con fornelli a spirito improvvisati, lampade a petrolio, scaldini con braci.
Dalla sera alla mattina era finito tutto: speranze, sogni, fatiche sprecate. Quello che rimaneva erano i debiti e per quelli Michele non sapeva proprio che fare e in quelle condizioni non avrebbe mai potuto ricominciare e risollevarsi. Suo cugino per aiutarlo aveva sospeso le rate, ma i soldi doveva restituirli, e se pure avesse trovato lavoro, non sarebbe mai riuscito a coprire il debito passato. Non potevano sopravvivere. Non avevano risparmi, né potevano comprare biglietti per un ritorno in Italia da sconfitti per trovare una miseria maggiore di prima di partire. In quel caso sarebbe stata la fine.
C’era tra gli italiani anche un fondo minimo di solidarietà, con cui spontaneamente si tassavano per chi era tra loro in difficoltà. Michele ci pagava la pigione per non essere sfrattato.
Cominciò per lui la stessa trafila di tanti cattolici irlandesi, ai cancelli degli scali a supplicare “caporali” per un lavoro, inutilmente. Gli spintoni per arrivare avanti per farsi ingaggiare erano inutili, il suo fisico spariva vicino a quei giganti, pugili di contrabbando, omoni con muscoli possenti. Era magro e minuto, ma per il dispiacere e la fame era tanto deperito che i pantaloni gli scendevano per come gli andavano grandi.
Aveva tirato al massimo bretelle e sotto un gilè sdrucito portava la sola camicia, nonostante il freddo. Il pover’uomo sprizzava una disperazione ostinata nel chiedere lavoro nonostante i capoccia locali lo cacciassero via tutte le volte. Per questo lo deridevano e sbeffeggiavano gli altri spiantati in fila come lui, sentendosi minacciati dalla povertà di un emigrato italiano, in competizione con la loro. Ogni volta era la stessa umiliazione.
Il pensiero andava a sua moglie, al bambino che stava per nascere e alla situazione in cui si era ficcato. Lei si era fidata di lui, era partita, era venuta e ora poteva darle solo incertezza, miseria in un Paese ostile dove erano soli in una situazione senza via d’uscita.
Michele non tornava a casa fino a che non era sera, per non farsi vedere avvilito e vinto dalla Angiolina, proprio adesso che avevano preso con loro la piccola Silvia. In cuor suo sapeva di averla delusa. Lei non gli diceva niente, però lo evitata con la scusa della gravidanza. Sapevano entrambi che non era per questo. Nessuno dei due toccava l’argomento.
L’uomo, disperato, se ne andava alla foce, verso il mare, dove c’erano cantieri come quello degli Harland and Wolff, famoso per il Titanic, e altre attività marinare, con la speranza di trovare qualcosa da fare, ma niente. Nessuno lo voleva, neanche per caricare carbone. Preferivano i bambini per questo, costavano poco e gli operai erano solo protestanti. I pochi cattolici ammessi, facevano lavori da schiavi. Venivano scelti solo se erano possenti. Molti di questi per campare tiravano di box in partite clandestine, spesso truccate. Sapeva fare a pugni e si presentò in uno di quei scantinati dove si allenavano questi pugili improvvisati. Per come era arrabbiato avrebbe avuto l’energia di mettere a knockout un gigante, ma neanche qui ebbe fortuna. Avrebbe dovuto pagare allenatore, uso degli attrezzi e il corredo sportivo per cominciare. Capì che era una scusa, era un emigrato italiano e quella era una guerra tra poveri.
Dopo vari giri a vuoto, si sedeva sulla banchina per ore. Apriva una vecchia Bibbia, non quella di Don Antonio, che ormai in mille pezzi era rimasta sull’Altipiano di Asiago, dopo un’azione di guerra. Questa, invece, era stata il suo primo acquisto in Irlanda, in un mercatino dell’usato.
La leggeva, meditava, pregava. La brezza marina gli inebriava naso e testa. Era l’unico modo per non sentire la fame. Respirava, sospirava. Su quella spiaggia di sassi grigi e duri poteva piangere indisturbato. Gli ritornavano sempre in mente tutti i gesti di quel giorno, al rallentatore, sarebbe bastato un attimo, e nulla sarebbe successo. Era come se tentasse nella mente di fermare il tempo, riavvolgere una pellicola, tornare indietro, ma era inutile e vano. Il freddo pungente era la punizione per aver provocato stupidamente l’incendio e resisteva, mentre la camicia gli si inumidiva di bruma. Stavolta veramente aveva paura ma mica delle bombe o delle granate come quando era in trincea! Non si rassegnava a quella fine. Non poteva essere. Attendeva qualcosa, un segno. Non sapeva cosa. Fissava con lo sguardo il vuoto cercando risposte in un punto lontano, oltre l’orizzonte, ma la vista non poteva oltrepassare quel confine.
Lo faceva anche da piccolo quando cercava di scavalcare quel limite con gli occhi, al di là del profilo dei monti, non riuscendoci mai ma, se pur impotente, non riusciva a smettere di farlo. Come un naufrago s’infrangeva contro quella linea paradossale che imprevedibile sfuggiva pur avvicinandosi.
Nello sciabordio ritmico delle onde i vorticosi pensieri non trovavano soluzioni. Si allontanavano di poco con i frangenti, tornado, con la risacca, subito dopo nella mente per rompersi fragorosamente sugli scogli della dura realtà, riportandolo al punto di partenza.
Cercava, sulla riva disperatamente, di ritrovare quel caldo placido mare di amnio, pace di tutti i deliri dove non vi è alcun dolore nel non esser ancora nato. Questo significava il mare per lui, inconsapevolmente.
Leggere salmi, fino a che la luce del giorno e le maree lo consentivano, gli sedava l’ansia che lo assaliva. Il cuore gli gridava di restare lì, di non spostarsi dal bordo di quella riva, come se quello fosse l’unico punto, quello preciso da cui Dio potesse sentirlo.
Restava fermo e proteso sull’orlo di quei sassi fino a che l’acqua non gli lambiva le scarpe mentre nubi nere si addensavano minacciose.
– Signore, che senso ha avuto l’avermi salvato la vita tante volte? Mi hai portato fino a questo punto e mi abbandoni adesso? – urlava dentro una preghiera fatta di dolore e rabbia contro un cielo chiuso.
Nessuno rispondeva, neanche un sussurro al suo cuore. Sconsolato se ne andava quando stava per farsi buio, prima che le odiate sirene del coprifuoco si mettessero a strillare.
Bruno la Pietra
Uno e cinquanta potrebbe sembrare la definizione della misura di un’altezza umana.
E forse lo è, almeno nelle intenzioni dell’autrice.
Eppure, leggendo il libro di Antonietta Rea, quel dittico numerico ci si rivela come qualcosa di più di una geometrica identificazione, se ne ricava un simbolico e più pregnante significato come sedimento inevitabile della coinvolgente lettura.
Il titolo identifica in effetti, molto più estesamente che il suo aspetto fisico, le cinquanta vite di un uomo, in un racconto che per fortuna evita, come una coerente opera d’arte impone, lo sguardo compiaciuto e affettuoso che la penna della scrittrice, sua nipote, avrebbe potuto riservargli, privando noi dell’autenticità narrativa e preziosa di questo romanzo meraviglioso.
Michele Rea, con le sue cinquanta e innumerevoli vite, diventa, tra raffinate e straordinarie trame descrittive, figura archetipica e atipica. Si incunea nel mondo degli affetti, degli stravolgimenti storici, delle perversioni relazionali intra famigliari, negli amori possibili e in quelli solo immaginati, con tenacia garbata, con epica francescana, con una humanitas che lo rende per questo figura universale, appunto archetipo di un essere umano a cui dovremmo tutti fare riferimento, proprio in questi nostri tempi di incertezza diffusa e di inconsapevolezza teleologica.
E lo fa sfiorando, grazie al tocco lieve della narratrice, episodi fondamentali della storia a cavallo di due secoli densi di vicende irripetibili. Ci riporta tra brividi di angoscia e stupore alle vicende di Ciaula che scopre la Francia, invece del selenico e argenteo tondo, alle attese speranzose dei derelitti parcheggiati a Ellis Island come fauna produttiva, evoca in maniera asciutta e spietata l’atmosfera della prima guerra mondiale, descrive l’euforia esplosiva e furiosa della rivoluzione d’ottobre, la retorica altisonante e violenta del fascismo italiano, fino a condurci alla disillusione delle contraddizioni asfittiche e decadenti della provincia italiana negli anni della caotica industrializzazione.
Dal punto di vista emotivo Michele Rea interpreta, da una prospettiva pietosa, lo zeitgest novecentesco in maniera encomiabile sradicandolo però da quella storia cruenta e sanguinosa, fino a farne la versione sempre attuale di una eterna e anti-celebrativa Odissea, confermando l’intuizione che la storia (pubblica o privata non importa), fatta di passato e intrecciata col futuro, è sempre memoria e insieme profezia. Ritornanze, rimembranze, ripercussioni, sensazioni, emozioni appaiono come cristalli di quel passato che riflettono a noi una lettura più confortante del vivere.
Certo che formalmente lo scritto è da annoverare come esempio autorevole del bildungsroman di teutonica derivazione (forse un’inconsapevole influenza della alpestre nonna Angiolina), e rifugge senza paura la seduzione modernista dell’anacronismo spiazzante caro alla letteratura novecentesca, oltre che la strutturazione labirintica dei maestri sudamericani.
Eppure, anche dal punto di vista formale, il romanzo svela con il ritmo progressivo, lineare, ordinato e coerente questa sua semplice ma difficile qualità, obiettivo finale della buona letteratura, come ebbe a sottolineare il grande cieco bonaerense nel suo ultimo e splendido volume, il Manoscritto di Brodie: Ho cercato, non so con quanto successo, di redigere racconti lineari. Non mi azzarderò a dire che sono semplici; sulla terra non c’è una sola pagina, una sola parola che lo sia, giacché tutte postulano l’universo, il cui attributo più noto è la complessità. I miei racconti, come quelli delle “Mille e una notte” intendono distrarre o commuovere e non persuadere.
E una commozione straziante e allo stesso vivificante resta saldamente attaccata alle nostre anime dopo questa lettura, come un brandello della divisa sul reticolato di un campo di prigionia di un piccolo soldato italiano.
Bruno La Pietra
christiane tomolillo (proprietario verificato)
Un bellissimo libro che sto leggendo. Sono francese e questa storia mi tocca particolarmente perché mio nonno nato ad Arpino aveva la stessa eta’ di Michele, migrato a Lione anche lui. Alle radici ci si ritorna sempre.. Questa storia di vita splendidamente scritta è molto ricca di eventi, emozionati, e resilienza. La memoria degli avi, corragiosi nonni rimane un tesoro a salvaguardare. Grazie mille Maria Antonietta per la trasmissione e la speranza portata.
Fabiana Lancia (proprietario verificato)
Nel libro di Maria Antonietta Rea la storia di Michele ci prende già dalle prime battute e ci trascina in un passato ancestrale e selvaggio dove la sua figura si muove tra grandi e piccoli eventi mantenendo intatta la sua integrità e il suo candore. Dal paesino sperduto della Terra Del Lavoro alla Grande guerra passando per lo sfruttamento in una vetreria francese e il duro lavoro di mozzo sognando l’America e trovandola poi finalmente in Irlanda , la cattiveria degli altri non riesce a scalfire il suo animo puro .Seguiamo le sue vicissitudini soffrendo con lui quando il suo destino lo pone davanti a enormi sofferenze e ingiustizie e rallegrandoci quando la sua e l’altrui bontà hanno il sopravvento. Una storia che ci insegna che nonostante i soprusi e le avversità l’umanita’ può riscattare se stessa attraverso l’umiltà e la condivisione .
Stefano Pelloni (proprietario verificato)
Una sola parola: stupendo! L’ho letteralmente divorato in due giorni. Scritto divinamente, il libro narra la storia di Michele Rea , una storia fatta di sofferenze, tragedie ma anche di successi . Un esempio di come sia importante la memoria , di quanto sia nostro dovere parlare e narrare di chi ci ha preceduti. In una società odierna dove “tutto è dovuto” è importante fare capire alle nuove generazioni che i nostri genitori, nonni, i nostri avi hanno fatto tanto per noi ed è giusto non dimenticarli mai e non dimenticare il loro sacrifici- Mi sono commosso in più punti ed ho veramente versato lacrime genuine. Brava Maria Antonietta, mi auguro che il tuo libro veda la luce perché lo merita; veramente.
Stefano Maria Pantano
Nei brani disponibili in anteprima l’autrice dimostra familiarità con la scrittura e promette di prendere il lettore per mano fin da subito. È intrigante l’idea della costruzione della storia a partire da questi appunti e già l’incipit è abbastanza smaliziato da non farti scappare. Si fa capire che Michele sia il proprietario del negozio di Belfast da un pezzo di discorso diretto, senza spiegare niente. Il ritmo diventa presto coinvolgente, mantenendo le promesse. Molto buono il finale del brano che strizza forse l’occhio al Baricco di Oceano Mare. I pensieri diventano il ritmo della marea tra frangenti e risacca, interrompendo per un attimo la narrazione. Una storia di radici e di ricostruzione generazionale per ricordare un presente di privazioni e sacrifici a cui questa generazione tendenzialmente molle è meno abituata di un tempo, credendo che tutto le sia dovuto in un vuoto delirio esibizionistico di massa fatto di fotografie in bagno e labbra troppo gonfie che poco hanno da dire.
Roberto Martorano
https://youtu.be/https://youtu.be/-lo3Hr8NWRg
Lucia Catenacci (proprietario verificato)
Tragedie, ingiustizie e momenti di relativa tregua, accompagnano la vita di Michele che, per la bella persona quale è, riesce sempre a trovare la via “giusta” e riprendere fiducia nella vita.
È un romanzo, le cui vicende narrate con maestria dall’autrice, é sicuramente un libro che deve far parte della propria biblioteca!
Mirella Marchione (proprietario verificato)
Le avventure di Michele Rea hanno qualcosa di epico, nonostante l’apparente “piccolezza” di quest’Uomo: non puoi smettere d leggere, hai bisogno di sapere cosa gli succede. La scrittura è sorprendentemente fresca, vivace, tale da catapultarti in epoche remote, modulata di volta in volta per adattarsi ai cambiamenti epocali in cui Michele si ritrova, suo malgrado, a doversi a sua volta adattare. Insomma, questo romanzo è un piccolo gioiellino. Da non perdere.