Un po’ come la poesia. Unico atto umano, opera d’arte e mistero in cui la parola, nuda, assolve alla sua vera e profonda funzione. Raccontare, senza bisogno di farlo. In sostanza: parole che non necessitano di una storia, per realizzarsi. O almeno non di tutta la storia, non di tutti i dettagli, non di tutte quelle curiosità che rapiscono e che però, alla fine, spostano in altri luoghi e allontanano dal senso.
Che fine farà il protagonista? Lo scoprirete, per carità, ma in fondo anche chissenefrega. Quel che ho cercato di fare è portare chi legge a chiedersi, piuttosto: Che cosa ha voluto dirmi?
INCIPIT
Prendete una vita. Un’esistenza. Partite da lì. Che sia capitata per davvero o meno fa poca differenza. Partite da lì: dai colori che ha sfiorato, dagli odori, dai profumi e dalla puzza che ha respirato. Da tutto ciò che ha buttato giù. Partite da lì, e da tutte le sfumature che le sono passate accanto, mentre spingeva per venire fuori. Mica per arrivare a un punto, quello sarebbe troppo. Prendete una vita, un quarto d’esistenza e chiedetevi se basterà. Una vita, un quarto d’esistenza che respirando a singhiozzo ha spinto, per diversi istanti, col solo scopo di venire fuori. Mica per arrivare a un punto, mica è detto che sia stato così. Magari solo per vivere, appunto. Per svilupparsi. Bruciare. Per mandare tutto affanculo. Prendete una vita e osservatela, ficcatevici dentro. Prendete auto e orari impossibili, prendete pochi anni, ricordi, indecisioni, sguardi fissi nel vuoto, autostrade, freddo, sudore, promesse, sesso, viaggi, avventure, paesaggi inventati, sogni, bugie. Prendete un quarto d’esistenza e bruciateci una sigaretta accanto. A volte basta un po’ di tabacco aspirato in fretta per partire. Per tornare. O magari anche solo per stare a guardare.
Partite da lì. E chiedetevi se basterà…
UNO
Il vento accarezzò l’auto prima che tutto si riavvolgesse, assolvendo per l’ennesima volta il compito che la sorte aveva riservato a quell’estranea bava d’aria. Un compito infame, in effetti, che poi altro non era se non quello di stare accanto – un po’ spettatore e un poco complice – alla strada tracciata da Karl Muller.
Si rischiava di impazzire, a pensarci sopra, specie dopo un’analisi dettagliata della scenografia che avvolgeva quell’attimo di mondo. Un quadro ricco di elementi ambigui, di dati inconfutabili e pregno dell’inconfondibile sapore della sconfitta. Eppure tanti particolari del dipinto, scolpito in silenzio nella notte ghiacciata, avrebbero in un primo – e poi in un secondo e infine in un terzo momento – potuto ingannare gli occhi del mondo e del più attento degli osservatori.
C’era, sulla tela, un’auto bianca dentro una città alta. Una metropoli solida e priva di fascino quanto la bellezza – non fascino, solo dura e grandiosa bellezza – di cui trasudava. Nell’auto bianca, sedute e indossate, stavano poi due giacche diametralmente opposte per consistenza e valore. Pesante, economica e grigia la prima, di spalle a un cappotto nero costato troppo, molto tempo addietro. C’era, nell’economico calore, perfino un tassista turco, portato in giro dall’auto, dalla giacca grigia e dall’unico mestiere percorribile dopo una vita di enigmi, che non potresti scoprire mai neppure frugandoci dentro. Un tassista turco di cui l’uomo non seppe e non saprà mai storia, nome e cognome.
E c’era, nell’assurda logica della beffa, perfino un mery kristmas, pronunciato dal turco con una r sola. Un augurio così lontano, nel suo spiegarsi spigoloso, dai buon natale di rito, da sembrare quasi il solo mery kristmas autentico in quello spicchio di raggio di città.
L’uomo sotto il cappotto sorrise. E lo fece senza parlare. Prese in mano la stilo, una Parker ricaricabile del 1972. Le iniziali marcate in oro sulla base dell’oggetto – una K e una M – per un attimo fecero bussare alla porta dell’uomo il ricordo del giorno in cui Karl Muller divenne il dottor Muller. Ma non c’era tempo per pensare, tanto che l’uomo tracciò solo un semplice cerchio attorno a un punto fissato su una carta topografica. La pronuncia del turco rivenne allora a galla per l’ultima volta, prima di annegare in un silenzio che per le strade della notte aveva imparato, nel tempo, a essere un po’ spettatore e un poco complice. Una pronuncia secca, essenziale, del tutto necessaria: «Bulowstrabe, sir. We’ll arive in ten minuts».
Karl Muller non si era mai sentito così libero in tutta la sua vita.
Matteo Rovere (proprietario verificato)
Grazie a te @Antonello Saeli. Di cuore.
Anonimo (proprietario verificato)
Narrazione lucida e immediata, come lama di coltello inattesa. Parole che giocano a inseguirsi sul foglio, costruendo nuovi orizzonti, ribaltandoli poi per costruirne di nuovi, in un puzzle che si compone poco alla volta, in mezzo a descrizioni che suonano spesso come poesia. Grazie per l’esperienza, Matteo. E’ stato un viaggio interessante.
Giulio Cataudella
Supporto questo progetto senza garanzie sul risultato del lavoro finale. Matteo merita fiducia. Matteo merita il giusto supporto per raggiungere il suo traguardo. La garanzia più grande è la sua professionalità.
Giulio Cataudella
Supporto questo progetto senza garanzie sul risultato del lavoro finale. Matteo merita fiducia. Matteo merita il giusto supporto per raggiungere il suo traguardo. La garanzia più grande è la sua pofessionalità.