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Novellando del buon tempo

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Novellando del buon tempo è una raccolta composta da due racconti sospesi tra la realtà e il mondo delle fiabe.

Nel primo si narra l’avventura rocambolesca del colbacco Ciov, depositario della cultura del suo padrone e abbandonato in una notte ventosa sul ponte della Moscova. 

Nel secondo, il giovane Nedo, riceve in eredità dal padre un compito arduo e pericoloso, mai tentato da nessuno prima d’ora: trafugare la Corona ferrea, un manufatto preziosissimo che si trova all’interno del Duomo di Monza. Il Destino però non resta a guardare e scombina tutti i suoi piani…

Due racconti scritti da un nonno per i nipoti, ma in grado di parlare al lettore di ogni età e, sotto le spoglie di un mondo fantastico, di toccare le corde più vere dell’animo umano.

Un colbacco di nome Ciov

Un bel giorno, Vladimir K.J. decise di fare un regalo al suo fedele colbacco Ciov.

Cosciente di essere giunto alla fine di una lunga e illuminata vita terrena, l’illustre scienziato russo, insignito d’ogni possibile onorificenza – fra cui il Premio Nobel per la medicina – autore di una cinquantina di volumi che spaziavano per tutti i campi dello scibile umano, convenne che non gli restava di meglio che riversare nel solerte custode dei suoi pensieri, il suo colbacco, tutta la sua sapienza.

Quella che in un primo tempo gli era parsa un’idea bizzarra, il capriccio di un vecchio stufo di ritenere la propria concezione della vita l’unico punto di riferimento plausibile, col passare dei giorni aveva preso sempre più corpo, fino a manifestarsi come la cosa più naturale del mondo. 

Chi era più meritevole del suo inseparabile colbacco, fedele complice delle sue incessanti elucubrazioni, di ereditare tutto il suo sapere? Naturalmente, non si parlava di un colbacco qualsiasi, ma del testimone accorto dell’attività che si svolge in quel meraviglioso scrigno che è la testa di un uomo. E che uomo!

Quello stesso giorno, prima di compiere il passo definitivo, l’illustre scienziato – com’era solito fare per le cose importanti – si recò di buon’ora per un consulto alle tombe della moglie e dell’unico figlio, caduto eroicamente durante l’ultima grande guerra, e lì, raccolto in preghiera, ricevette il conforto sulla bontà della sua scelta.

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Pertanto, verso l’imbrunire, con l’andatura sciolta dell’uomo in armonia con se stesso, si trovò ad attraversare la Piazza Rossa diretto verso il gran ponte sulla Moscova. Là si sarebbe compiuta la consacrazione, il definitivo passaggio di proprietà: tutto il suo sapere si sarebbe riversato all’interno dell’accondiscendente colbacco.

Era una notte fresca e stellata e nell’aria aleggiava un promettente sentore di primavera. Avvolto in una morbida pelliccia, Vladimir K.J. si arrestò nel bel mezzo dell’immensa Piazza Rossa e si guardò intorno. L’area era deserta, una condizione insolita che ebbe il merito di suscitare nel suo animo una sottile inquietudine. Si sentiva l’unico essere vivente al mondo, lasciato solo sulla terra a sostenere il peso di un esperimento che nessuno aveva mai osato compiere e che, presumibilmente, mai più sarebbe stato tentato in futuro. 

Cercò di immaginare quale novità avrebbe procurato questo mutamento alle sue facoltà intellettive. Il primo pensiero andò ai membri del Circolo dell’Accademia delle Scienze di cui era presidente onorario. Sarebbe stato ancora in grado di tenere testa ai discorsi dotti che abitualmente si tenevano in quell’ambiente? Quale scompiglio avrebbe creato, in quel luogo austero, l’enunciazione delle imprevedibili ispirazioni di cui si sarebbe impossessata la sua mente? Questo improvviso pensiero gli procurò un tuffo al cuore: come si sarebbe sentito lui, Vladimir K.J., nel ritrovarsi con un’identità nella quale non si fosse riconosciuto? E come l’avrebbe presa l’esimio, e suo intimo amico, professor Ivan Ustinov? Ai suoi occhi si materializzò la sua imponente figura che sentenziava dall’alto dei suoi centoventi chili di sapienza e affabilità: «Geniale, assolutamente geniale!». Per dare poi libero sfogo al suo pancione di scuotersi a più riprese, sollecitato da una fragorosa risata. L’incondizionato assenso del suo amico Ivan Ustinof, unito alla constatazione che si sarebbe una volta per tutte sbarazzato dei logori panni del sapiente saggio, costantemente padrone di se stesso, debitamente rispettoso delle convenzioni, gli fecero tornare il buon umore. Con un’alzata di spalle scacciò ogni residuo dubbio e riprese con maggiore slancio il cammino. 

Istintivamente si portò la mano al capo e, nell’accarezzare con riconoscenza il manto peloso, avvertì qualcosa d’inconsueto. Tante volte l’aveva avuto tra le mani nel corso degli anni, ma soltanto ora lo percepiva come cosa viva. Sensazioni colpevolmente ignorate riaffioravano alla mente acquistando il sapore di una rivelazione. 

Gli era capitato, durante le abituali riflessioni, di avvertire qua e là vaghe esortazioni, timide offerte di suggerimenti, alle quali, vuoi per la loro apparente stravaganza, vuoi perché fermo nei suoi principi, non aveva dato peso. Ora scopriva che quelle interferenze, quei richiami discreti rimasti inascoltati, provenivano dal suo colbacco.

S’intenerì nel constatare quanta riservatezza albergasse nell’intimo del suo fedele amico e si rammaricò di avere contribuito, dall’alto della sua presunzione, a soffocarne l’ispirazione, a tarpargli le ali.

Mi rifarò, pensò con decisione Vladimir K.J. Ah! Se mi rifarò! Lo farò volare più in alto di quanto non abbia mai osato sperare. Subito dopo aver espresso questo proposito, sorrise divertito al pensiero di quale indirizzo avrebbero preso certe sue teorie se affidate all’interpretazione di un colbacco.

Assorto in queste meditazioni, aveva percorso il gran ponte fino quasi all’altra sponda della Moscova. Ritornò sui suoi passi e si fermò al centro del ponte deciso a passare all’azione. 

Giudicò l’atmosfera ideale per il suo progetto e il vento, al cui abbraccio intendeva affidare il suo amico, soffiava generoso.

Emise un profondo respiro nella speranza di rallentare il tumulto che gli martellava in petto. L’occasione era ghiotta per cimentarsi in un aulico discorso, ma per quanto si concentrasse, delle belle parole che si era preparato per il grande evento non ricordava nulla. 

«È tutto quanto possiedo,» disse sforzandosi di dare alla voce un tono adeguatamente solenne «un’arma potente che può essere usata tanto per il bene che per il male. Te l’affido, mio fedele ambasciatore, fanne buon uso. E se un giorno riterrai opportuno liberartene, bada di consegnarla in mani degne.» Ciò detto, si sbarazzò di tutto il bagaglio delle sue nozioni trasferendolo dalla sua testa all’interno del colbacco.

È fatta, pensò e si dispose in modo da favorire l’opera del vento che di lì a poco non tardò a manifestarsi con un’intensa folata. Istintivamente si portò le mani al capo: il colbacco era ancora lì. Si commosse al pensiero che ciò dipendesse dalla resistenza che il suo fedele amico opponeva al vento, poi, più realisticamente, si convinse di averlo calato troppo sulle orecchie. Giusto il tempo di scalzarlo delicatamente di qualche centimetro e una nuova folata, ancora più violenta della precedente, lo investì avviluppandolo in un vortice che l’avrebbe scaraventato a terra se, con un provvidenziale scatto istintivo, non si fosse avvinghiato con tutte le sue forze al sostegno di un lampione.

La furia durò un’eternità e quando si placò, un piacevole venticello giocava a scompigliargli i radi capelli bianchi.

«Addio, mio testimone di mille avventure, ora tocca a te. È un’impresa senza precedenti, nessun aiuto, nessun suggerimento ti potrà essere di conforto. Vai per il mondo, mio valoroso ambasciatore, fatti onore. Ti guidino l’umiltà e l’amore verso il prossimo, e la mia benedizione ti accompagni nell’arduo cammino.»

Seguì una fase di stallo, della quale approfittò per valutare i mutamenti suscitati dalla sua nuova condizione. La sensazione era, pressappoco, pari a quella che può provare una gallina che s’è appena liberata dall’uovo e, proprio come una gallina che s’è appena liberata dall’uovo, prese a cantare. Lui, che non aveva mai cantato in vita sua, intonò un’antica ballata russa di cui ricordava sorprendentemente le parole e, mentre cantava, le sue dita scorrevano agili a pizzicare le corde di un’immaginaria balalaica.

Piano piano, ma in modo sempre più percettibile, si sentiva rinascere a nuova vita. Una sottile brezza gli spumeggiava nella mente aprendogli orizzonti così sconfinati da indurlo, oltre che a cantare gioioso, a cimentarsi in audaci passi di danza.

Levò gli occhi al cielo. Le stelle e la luna gli parvero cresciute a dismisura rispetto all’ultima volta che gli era capitato di osservarle. Quando era stata l’ultima volta? Non se lo ricordava. Costantemente ripiegato in se stesso si era scordato di guardare al cielo. Il proponimento di occuparsene in futuro lo fece sorridere.

Nella piena certezza di avere agito per il meglio, pervaso da una contenuta euforia, senza voltarsi indietro, si allontanò.

2021-08-28

Aggiornamento

200 copie del libro "Novellando del buon tempo“ sono state preordinate! Il libro sarà quindi pubblicato. Grazie di cuore a tutti quelli che mi hanno aiutato a realizzare il sogno del mio papà.

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Umberto Dalla Chiesa
È nato ad Abbiategrasso nel 1934. Ha imparato più dall’esperienza e dai libri che ha letto assiduamente nel corso della sua lunga vita che dalla scuola, presto abbandonata. Appassionato di teatro, ha scritto alcune commedie, vicine per lo stile al teatro dell’assurdo. Nell’ultimo periodo, si è dedicato alla scrittura di racconti che rispecchiano una visione del mondo più aperta all’esistenza del bene e del trascendente, avendo scoperto “la divina alchimia del dolore che diventa amore”. 
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