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7 x 3 – Viaggi dentro un mondo

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Consegna prevista Maggio 2024

“7 x 3 – Viaggi dentro un mondo” è un libro con il quale si spazia in 21 percorsi di “scoperta”.
Di sé, degli altri, di situazioni all’apparenza lontane nel tempo e nello spazio e che in realtà fanno parte di un vissuto collettivo che ci riguarda molto più di quanto pensiamo.
In ciascuno di questi viaggi il lettore può cogliere aspetti che a tratti lo meravigliano, incuriosiscono, avvincono e suscitano anche, talvolta, orrore e distacco. Più spesso sono i colori della vita che lo attraggono, le sottili sfumature che rendono un semplice viaggio in traghetto, o una passeggiata per sfuggire alle interminabili attese in un affollato ristorante, un’esperienza indimenticabile.
L’attenzione per aspetti essenziali della vita di ciascuno di noi: l’amore, il dolore, la morte, l’avventura, rende questi racconti coinvolgenti anche su aspetti profondi dell’esistenza e offre, al lettore/alla lettrice, uno specchio nel quale riflettersi, per potersi distanziare e/o riconoscersi.
Buona lettura!

Perché ho scritto questo libro?

Avevo scritto questi racconti… e quando ho trovato, per “caso” e senza che ne andassi in cerca, una casa editrice che mi è piaciuta, mi sono detta: è quella giusta, invierò loro il manoscritto. È stata l’unica cui l’ho spedito. Avevo sentito qualcosa accendersi in me.
Ho scritto questo libro per mettere in campo i miei talenti, per dare il mio contributo e offrire un servizio agli altri. Per trovare pienezza interiore e vivere lasciando il segno in questa vita.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Mi chiamo Sarah. Vengo dalla città di Ur. Mio padre appartiene alla tribù di Terach. Stiamo viaggiando verso Carran.  Ur, la mia bella città. Il triangolo tra il Tigri e l’Eufrate e mio padre ha dovuto e voluto andarsene. […]

“Mia madre mi ha fatto sedere nell’angolo più buio della tenda, lei davanti a me. “Sai cosa significa questa pancia?” “Mangio troppo, lo dice sempre nonna!”

“Sei incinta, aspetti un bambino, ti ricordi Rebecca?”

“No, non ricordo niente” avrei voluto gridarle, “so che mio padre mi voleva bene ed ora non mi vede più”. Due lacrime mi sono scese per le guance. In silenzio.

“Dimmi chi è stato”.

Mi scuoteva forte, come fossi una canna del deserto battuta dal khamsin. 

“Chi è stato? Rifat, non è vero? Se non parli vado subito da suo padre”.

Rifat è un ragazzo della carovana, figlio di un cugino di mia madre. Mio compagno in qualche segreta e innocente avventura intorno all’accampamento. Undici anni, asciutto e muscoloso, lo sguardo altero. Una sera mi ha dato un bacio sulla guancia. Era l’ora del tramonto, dietro le case di Nippur e il rosso del cielo si è trasferito sulle mie guance. Niente altro, ma mia madre aveva visto. Mentre ricordavo quel tramonto, un altro, più magnifico e infuocato, si è sovrapposto nella mia memoria e il ricordo di quella sera mi ha investito come un lampo di luce.” Questo uno dei dialoghi più significativi tra Sarah e sua madre, nel racconto che apre questa raccolta. Una vicenda che segnerà per sempre la vita di questa famiglia, soprattutto di Sarah, durante un viaggio, compiuto sull’onda di attese e profezie, dal fertile triangolo tra il Tigri e l’Eufrate, per dirigersi in Palestina, 4000 anni fa. E che avrà conseguenze sulla vita di Elise, a Philadelphia, nell’età contemporanea…

“Ma i due ragazzi erano ignari di essere nel leggendario bosco di Le Fablier. Passavano momenti spensierati ad osservare le ranocchie che gracidavano lungo i ruscelletti. Claude era bravissimo a prenderle e più volte aveva finto di baciarle nella speranza, diceva a Babette, che diventassero principesse. Una sera durante quel gioco i loro visi si sfiorarono. E provarono un turbamento che li spaventò.

Così, niente fu più come prima.”

Un’altra storia di iniziazione alla vita adulta, che si svolge in Francia, nel secolo XVI, e che ha come protagonista Babette, un’esile contadinella che si trova a vivere, suo malgrado, una delle esperienze più oscure nella storia della civiltà europea.

“Andare in bici le piaceva così, al naturale. Nessun vetro o portiera o abitacolo. Le cose parevano animarsi di una vita più vera che viste dai finestrini di un’auto e non scivolavano via frastornate dal forte vento o dall’elevata velocità, come da un motore o da un treno in corsa.

Il mondo dalle due ruote era molto più bello, pensava Sabine. Le sembrava di vivere dentro le case che sfiorava, di essere amica della gente che incontrava. Non c’era molto tempo per i convenevoli, le frasi fatte e posticce con cui si salutano le persone. In bici coglieva un attimo nell’espressione di un volto, di una scena familiare. La vita aveva l’immediatezza che respira un bambino, e lei poteva essere sé stessa.”

Questi i pensieri di Sabine in merito all’andare in cerca di avventure, talvolta audaci e potenzialmente molto pericolose, in sella alla sua bici. Come questa:

“Quando la invitò a salire al piano di sopra, le gambe iniziarono ad avvisarla che il suo sistema corporeo era all’erta, ma la curiosità ebbe la meglio così affrontò le scale. Uno spettacolo mozzafiato le si parò davanti. In un altro stanzone anch’esso del tutto nero, decine e decine di coltelli con lame affilatissime, piccoli, grandi e grandissimi brillavano alle pareti.

“Certo che lavora tanto” disse Sabine, affrettandosi a scendere gli scalini.

“Tagliano bene sai, sono indistruttibili”.”

Cosa accadrà alla nostra spericolata protagonista?

“L’elefante si muoveva sulla palla con goffa eleganza, all’aperto. Sullo sfondo i tendoni di un circo. Aveva l’aria felice. Sembrava contento di svolgere quell’esercizio. La bambina roteava il biglietto d’auguri del suo terzo compleanno tra le mani paffute

Non sapeva, non poteva sapere tutto quello che avrebbe significato quel piccolo rettangolo tridimensionale e colorato. Magicamente vivo. Non sapeva che sarebbe diventato una preziosa merce di scambio.”

Questo l’incipit de “La morte del padre”.

Che, dopo varie vicissitudini continua: “E, non si sa come, dal suo rovistare in mezzo a quel cumulo di masserizie un giorno era uscito fuori un libro. Un libro che la bambina, appollaiata su una sedia polverosa, in perfetto silenzio, si era messa a leggere. Narrava di un uomo grande e grosso che per qualche motivo non voleva che i bambini giocassero nel suo giardino.

La piccola si perdeva in quella storia e le pareva che proprio lì, tra quelle quattro pareti polverose, si stesse consumando un prodigio. Si apriva un canale pieno di polvere luminosa e d’improvviso le sembrava di essere precipitata, proprio lei, l’insignificante Elisa M., in mezzo a quel giardino e che quel grosso uomo la riguardasse da vicino. Viveva senza saperlo una sorta di esperienza fuori dal proprio corpo e solo con molta fatica, non di rado richiamata da qualche urlo dei genitori, rimetteva i piedi su quel pavimento sporco e polveroso”.

E ancora: “Allora il giovane uomo afferrò l’ombrello e frugò tra i cassetti di cucina. Ne estrasse tanti strofinacci quante erano le stecche. Li cinse ad ognuna di esse. Aprì l’ombrello e lo fece roteare per la stanza.

Quel caleidoscopio di colori che girava frullando, quali ali di ipotetici gabbiani, calmò la piccina.

In estasi davanti a quel variegato spettacolo che l’uomo aveva messo in piedi per la figlioletta che sbraitava. La madre, di ritorno dal lavoro, li trovò così, in estasi.”

Fino ad arrivare ai passaggi finali: “Pregava. Anche a voce alta. Gli faceva talvolta ascoltare preghiere registrate che lo cullassero. Come una ninna nanna. Perché lui, seguendo il filo delle parole, distogliesse il pensiero dai lugubri cani neri che lo inseguivano, e trovasse un po’ di pace.

A volte la preghiera non serviva e solo la dolce melodia del canto lo acquietava, forse per i ricordi sereni che portava con sé.”

“Correva l’anno 1830. Si era in febbraio.

Una pia donna che si recava alla messa mattutina sentì un debole pianto provenire da una massa di panni avvoltolati.

Svelta si recò dal monsignore del duomo, prima che iniziasse la funzione. Non c’era nessuna indicazione sopra. La creatura doveva essere nata da pochi giorni, forse ore.

Fu battezzata durante la messa stessa e chiamata Martina, in onore del santo cui la cattedrale era dedicata.

La madre, che si era strascinata e nascosta dietro una colonna, seguì tutto, con il cuore che le andava a brandelli. Poi si dileguò nella città scheletrita dal gelo invernale, e che ancora dormiva nel sonno della notte. […]. “Ma la gente di Vorno fece ben presto a sapere tutta la verità e ai primi dell’anno, il 3 gennaio 1849, in molti erano ritti dietro gli scuri delle finestre.

A veder passare per la strada Andrea insieme a “quella dello Spedale”, con un carretto che conteneva le sue poche masserizie.”

“Una berlina di lusso nera le si fermò al fianco. Ne discese il fratello di un suo conoscente che, sfrontato come al solito, le chiese se poteva prestargli la sua piccola BMW bianca.

Non dimenticherà mai quella scena.

Il viale alberato e coloratissimo, le larghe mattonelle sul marciapiede con incisi fiori e arzigogolate simmetrie, la lussuosa berlina nera, tirata a lucido, tra due alberi.” Inizia così “Insolite visioni”, in cui una correttrice di bozze diventerà, suo malgrado, una detective in erba:

“E fu allora che lei lo vide.

Era seduto sul sedile posteriore, a destra, il volto incollato al finestrino.

Un volto pallido e diafano, occhi celesti pieni di un dolore infinito.

La guardava muto, come uno spettro, un essere di cui nessuno ha memoria, immobile ed etereo.”

In “Un’amica, una vita” un bambino affronterà un avvenimento che segnerà in profondità la sua esistenza: “Guarda, guarda chi arriva, c’è Sophie!”.

E io, coi miei passi ancora malfermi, trotterellavo, le manine tese verso di lei.

Quando andavamo fuori, a passeggiare e giocare, era una vera festa.

Una danza di colori le nostre corse. Sfavillio di luce il cielo.”

Ma… chi è Sophie?

Armenia, primavera 1894.

Sto giocando tranquilla nel cortile dietro casa mia.

Abito nella regione di Sassun vicino al lago Sevan.

È così bello qui da noi. Le acque del lago davanti alle pendici neroazzurre dei monti, si colorano di riverberi damascati quando arriva l’ora del tramonto.

Io e mio fratello Faakhir ci occupiamo delle capre ogni giorno.

Mio padre fa il falegname, mia madre cuoce pane e dolciumi per il nostro villaggio.

È costituito da un’ottantina di famiglie. Ci conosciamo tutti.

All’improvviso una nuvola appare all’orizzonte, un enorme esercito a cavallo, che avanza veloce verso il nostro paese. Chiamo babbo e mamma che sono in casa a lavorare.

Arrivano in fretta. Il terrore sui loro volti. Mio padre farnetica alcune parole:

“Svelta, svelta, Tsoghine, sono gli Hamydie…”.

Ma non c’è scampo. Faccio appena in tempo a nascondermi in una fossa melmosa, accanto a casa. Afferro una canna lacustre, vuota, per respirare, come tante volte ho fatto, sdraiata sulle placide sabbie del lago, quando la canicola estiva ci spingeva, io e mio fratello, a diventare indolenti anguille.”

“La chiamavano Rosalinda. Era una bambina bella come il sole e con una voce oltremodo musicale. Quando chiamava parenti o amici sparsi per i prati e i boschi circostanti la piccola baita in cui viveva, non lo faceva urlando, come in genere tutti facciamo, ma con la sua caratteristica intonazione, riconoscibile a più di un chilometro di distanza: “PaaAooOooloOo, CAateeEeriIiiNAaaa“ e via dicendo. Era divenuta quasi una leggenda nel piccolo paese dove abitava, tanto che le madri e i padri arrabbiati per le urla dei figlioli, rimproverandoli dicevano loro: “Guarda che così ti scambiano per la Rosalinda”, oppure: “Hai una voce che sembri la Rosalinda…” e i piccoli si chetavano subito, tanta era l’ignominia che ricopriva quella particolare bambina.”

Una bambina che però, a dispetto di tutto e di tutti, troverà la sua meravigliosa strada.

E andiamo “Alla Purignana”, dove una dolce donna anziana, insieme ad animali, boschi e sorgenti d’acqua intesse relazioni piene di magia con che le sta intorno: “Prese le capre dalla stalla, partivamo.

“Stai attenta Gioia, non stare sul ciglio della strada che quelle ti buttano giù con uno zuccotto”.

Un sorriso e una risata dolce e malandrina, subito coperta dal dorso di una mano portata mollemente alla bocca, accompagnavano in modo lieve e divertito quella raccomandazione.”

“Una lanterna rossa ad olio, mezzo scrostata, pendeva ad un angolo della casa. Sembrava essere lì da millenni, quando ancora il mare lambiva la montagna e quella costruzione era un faro.

Una rete alla finestra celava in parte il contenuto della stanza, al pianterreno. Vi si indovinavano scorte alimentari, un tavolo, il televisore, sedie.

Fuori una panchetta sgangherata accoglieva diversi sacchi di spazzatura, disposti con amore.

Si percepivano fiochi rumori e cadenze lontanissime di musica che parevano venire da secoli remoti.

Esistevano davvero o erano frutto della mia immaginazione?” E siamo arrivati a “La casa del ceramista” …

“L’elicottero stava lì, placido, in mezzo alla pista. Un enorme e compatto ragno elaborato nelle sue finiture, di acciaio grigio e splendente.

Mise il naso e gli occhi fra le grate del cancello, chiuso da un catenaccio. Lo ammirò.

Non aveva mai visto un elicottero così da vicino.

Dispiaciuta per non potersi avvicinare ancora, si mise a raccogliere alte margherite, che crescevano spontanee lì accanto.

Poi vide un’altra entrata, spalancata. Il cartello recitava: “Vietato l’ingresso” e una casa rimessa a nuovo con un’auto accanto testimoniavano la presenza di possibili guardiani.

Ma non ne fece un problema. Quando sentiva il “fuoco sacro” arderle dentro, non c’era ostacolo di sorta che temesse.”

“Il mozzo del traghetto le offrì la mano, mentre si accingeva a salire.

Un ragazzo bellissimo. Capelli biondi un po’ spettinati. Faccia da uomo di mare già vissuto, che sa quello che vuole e sa come ottenerlo. Corpo statuario e abbronzato. Sguardo di cielo.

Le sorrise. […] Lei, già abbronzata per essere a metà vacanza, shorts e canottiera di lino bianco e leggero con fiorellini neri sparsi qua e là. Alta e snella, guance piene di un vivido fuoco. Capelli castano dorati sparsi al vento. Sguardo vivace. Bella come il sole.

Mentre era intenta a scrivere una cartolina, il capo chino a pensare, se lo vide spuntare su come un fungo, da terra. Davanti ai suoi occhi un fumo profumato che si spandeva inanellandosi nell’aria, in mano un piatto di rossa pastasciutta.

Il sorriso aperto, il volto forte eppure delicato, che la guardava con occhi espressivi, deliziati.”

Che cosa accadrà su “Il traghetto”?

E con questo, miei cari lettori, siamo arrivati alla fine di questi viaggi…

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Letizia Puccinelli
Nata a Lucca, vivo ora sulle colline lucchesi. Dopo la laurea in Scienze dell’Educazione e un percorso di 9 anni, in Italia e in Francia, nelle costellazioni familiari guidate da Marie-Thérése Bal-Craquin, mi occupo di percorsi di benessere attraverso la meditazione e la ricerca dell’“Yo soy”. Mi dedico all’arte in varie forme: pittura, incisioni, scultura e ho allestito alcune mostre in spazi privati. Amo la musica e mi diletto nel suonare e cantare, oltre che nel ballare. Amo le passeggiate in montagna e adoro nuotare. Oltre ai fiori, alle piante e agli animali di cui possiedo diversi esemplari, in particolare tre gatte, diamantini, canarini e cocorite. Oltre che un gallo che si chiama Rossino. Amo seguire un percorso di spiritualità e sono certa che l’Amore sia lo scopo principale della vita di tutti noi su questa terra.
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