“Sto preparando un infuso ai semi di finocchio, cardamomo, limone, zenzero e chiodi di garofano. Solo tu puoi dire che puzza” le rispose Bea in tono esasperato.
“Bleah!” la prese in giro la ragazza “Comunque sono in ritardo e ho bisogno di una doccia!”
“Ecco spiegata la puzza!” la derise a sua volta l’amica.
Camilla si avviò verso il bagno alla velocità della luce e trovò l’altra coinquilina in biancheria intima che si stava truccando.
“Ciao Liz” la salutò mentre si spogliava e buttava i vestiti nella cesta dei panni sporchi.
“Ciao my darling” le rispose l’altra uscendo dal bagno.
Venticinque minuti dopo riemerse dalla stanza in una nuvola di vapore, vestita, profumata e pettinata, pronta per la serata.
“Non ti truccare troppo” le disse Liz sottolineando la quasi totale assenza di make up sul volto di Camilla.
“A differenza di te non ho appuntamenti galanti, cara la mia Lisbeth Emily Smith!”
“Mai dire mai tesoro. L’uomo della tua vita potrebbe essere dietro l’angolo”.
Camilla prese la borsa da dove l’aveva lasciata poco prima, tolse il suo quaderno degli appunti, salutò le due amiche e se ne andò da sola verso l’incerto destino.
“La cuisine de Vincent” era uno dei ristoranti più famosi del Quartiere Latino ed era anche uno dei pochi dotato di maxischermo per vedere la finale dei mondiali. E lei si stava dirigendo proprio lì, con un mix di ansia e agitazione.
Davide non aveva idea di quello che stava per accadere. Aveva pianificato di passare la serata nella cucina del ristorante dove lavorava come aiuto cuoco, e di seguire la partita dalla tv posizionata all’angolo alto di fianco alla grande dispensa. Invece solo poche ore prima il suo capo, Luc Dupont, gli aveva lasciato il timone del ristorante per correre in ospedale da sua moglie che stava per partorire. Come se non bastasse Martin, il suo migliore amico da quando era approdato in terra francese nonché collega, era ancora in malattia a causa di una forte infezione batterica presa durante il suo ultimo viaggio in Tanzania. Così Davide si ritrovò da solo a gestire un ristorante, nella serata per i francesi più importante dell’anno, con due uomini in meno e una miriade di gente che voleva da mangiare prima che iniziasse il match. Si stava preannunciando un disastro, ma lui non era certo un ragazzo che si lasciava intimorire facilmente, si legò la sua bandana nera sulla nuca, emise un respiro profondo per trovare la giusta concentrazione e prese in mano la situazione.
***
Camilla arrivò a Place de l’Estrapade in metro e dopo un breve viaggio sprovvisto di aria condizionata, il vestitino di seta nera che indossava le si era appiccicato sulle cosce. La piazza era gremita di persone davanti al maxischermo. Nelle prime file si potevano notare tutti ragazzi poco più giovani di lei e adolescenti, le famiglie e le persone più anziane occupavano i vari tavolini di bar e ristoranti.
Entrò dentro al ristorante per cercare posto e notò sulla parete sinistra, accanto all’entrata della cucina, un’enorme riproduzione del “Ramo di mandorlo fiorito” di Van Gogh. Mentre era assorta ad osservare il quadro, un cameriere le si avvicinò per portarla al tavolo che aveva prenotato con largo anticipo.
La partita era iniziata da pochi minuti quando le venne servito un delizioso manzo alla borgognona. Camilla pensò che era una serata perfetta: era a Parigi, nella città che aveva sempre sognato, stava facendo un tirocinio in una nota rivista francese d’arte, aveva delle coinquiline adorabili e l’Italia si stava giocando la finale dei mondiali dopo ventiquattro anni. Purtroppo per lei questa piacevole sensazione durò poco più di diciannove minuti, il tempo che servì agli Azzurri per pareggiare il risultato.
“Excusez-moi ma non ho ancora finito di mangiare” disse Camilla al cameriere che improvvisamente le portò via il piatto ancora mezzo pieno.
“Mi segua per favore” le disse lui. Camilla si accorse che era lo stesso che l’aveva accolta all’arrivo.
Lo seguì con aria perplessa fin dentro al ristorante ed esitò per qualche secondo quando il cameriere le indicò l’entrata della cucina. Non era mai entrata in una cucina di un ristorante e non sapeva perché si stesse trovando lì in quel preciso momento: voleva solo mangiare e godersi la partita.
Si guardò intorno per scrutare l’ambiente, contò circa undici persone che si urlavano tra loro, ma non stavano litigando, si stavano dando le indicazioni a vicenda. La prima sensazione che ebbe fu quella di spiare una squadra che stava giocando la sua partita all’interno di una cucina. Intorno a lei c’erano scaffali, elettrodomestici, credenze, fornelli in acciaio inossidabile, le pareti erano di un colore simile al rosa salmone e in un angolino trovò una postazione apparecchiata con il cibo che aveva ordinato.
“Vorrei che continuassi la tua cena qui dentro” le disse una voce profonda, in perfetto italiano dalla cadenza romana.
Camilla girò la testa in direzione della voce e il suo sguardo rimase agganciato per qualche secondo a quello di Davide. Lo squadrò per pochi minuti. Era alto almeno venti centimetri più di lei, molto probabilmente le arrivava alle spalle, aveva un corpo tonico e asciutto. La divisa da chef lo fasciava perfettamente mettendo in risalto il suo petto ampio e le cosce muscolose. Ma la sua faccia era la parte più affascinate, aveva le mascelle scolpite da un sottile strato di barba bruna, le labbra carnose erano delineate, nella parte superiore, da dei baffi ben definiti e curati che, alle estremità, tendevano ad arricciarsi verso l’alto. Il suo naso era perfettamente dritto e i suoi occhi erano neri come due pozze di petrolio, sottolineati da leggere occhiaie bluastre e da folte sopracciglia corvine. I capelli erano corti in stile marine e teneva legata sulla nuca una bandana nera. Nonostante la sua massiccia fisicità non avrà avuto più di venticinque anni, pensò Camilla.
“Ma… ma io preferirei cenare fuori” gli rispose, esitante.
“Ascoltami, se ti ostini ad esultare in quel modo e ad inveire contro i francesi, sarebbe bene per la tua incolumità proseguire la tua cena qui dentro. Inoltre potrai guardare la partita da quella televisione lassù.”
Fece per rispondergli ma le mancò il fiato quando lui sfoderò il suo miglior sorriso a trentadue denti, e lei non poté far altro che cedere.
“Ok”.
Davide la osservava mentre finiva la sua cena e imprecava contro la piccola tv, e non poteva fare a meno di sorridere. Lei lo aveva colpito, gli sembrava così spontanea, così genuina che aveva voglia di saperne di più. E poi era la prima persona italiana che conosceva a Parigi da ben sette anni, cosa da non sottovalutare.
Più tardi, quella sera, il ristorante si era svuotato, i parigini si erano riversati tutti al centro della piazza per seguire i calci di rigore. Davide aveva chiuso a metà la saracinesca del locale e si apprestava a terminare le pulizie della cucina; erano rimasti lui, Marc, il responsabile di sala, che stava ultimando la sistemazione dei tavoli per il giorno dopo, e Camilla.
“So che stai chiudendo, ma posso restare fino alla fine della partita?” gli aveva chiesto lei poco prima, con la sua aria innocente.
“Non ho il coraggio di mandarti là fuori ad esultare o imprecare, non vorrei averti sulla coscienza” rispose lui sorridendole.
Fabio Grosso stava per battere l’ultimo rigore, sperando fosse quello decisivo. Camilla incrociò le dita e chiuse gli occhi per non vedere, Davide si appoggiò un canovaccio a scacchi bianco e azzurro sulla spalla e andò di fianco a lei. In fondo era italiano anche lui, e come tutti i suoi connazionali aspettava quel momento da molto tempo.
Trattennero il fiato non appena il calciatore azzurro iniziò la sua rincorsa verso il dischetto.
“Sììììì!!!!!!” gridarono all’unisono, abbracciandosi come se si conoscessero da tempo, ma in realtà erano due estranei che stavano condividendo un momento di pura esaltazione.
“Oddio mi sono ricordata che devo pagare la mia cena” affermò Camilla non appena si riprese dall’esultanza.
“Non ti preoccupare, offre la casa”.
“No, sul serio, voglio pagare” lo pregò frugando nella borsetta.
Davide le afferrò il braccio “Allora facciamo così: io ti offro la cena e tu mi offri da bere” le propose.
“Ti aspetto qui fuori” gli disse timidamente, ma in realtà avrebbe voluto fare i salti di gioia.
Quando lui la raggiunse, pochi istanti dopo, lei gli fece notare che ancora non sapeva il suo nome.
Lui scoppiò in una fragorosa risata “Davide, ma puoi chiamarmi Dave.”
“Io sono Camilla”.
Capitolo uno
“I’m a Barbie girl, in a Barbie world Life in plastic, it’s fantastic…”
La stanza era ancora buia, degli impercettibili raggi di sole trapassavano le persiane, il che significava che era già mattina. Sabato mattina, per la precisione.
“…you can brush my hair, undress me everywhere, imagination, life is your creation…”
Un cellulare stava suonando all’impazzata, Camilla si rigirò nel letto cercando a tastoni il telefono, la sua mano toccò qualcosa di caldo e morbido.
“Buongiorno Vincent” salutò il cane accucciato accanto a lei.
“…Come on Barbie, let’s go party!”
“Preso!!” afferrò il telefono e senza aprire gli occhi rispose alla chiamata. Tanto sapeva già di chi si trattava, solo una persona poteva avere una suoneria del genere: Ginevra.
“Che diavolo è successo?”
“Tanti auguri a me, tanti auguri a me…” intonò dall’altra parte della linea la voce allegra di sua sorella.
Camilla guardò la sveglia sul comodino, segnava le sette e venticinque.
“Cioè mi chiami a quest’ora, di sabato mattina, sapendo che dormo ancora, solo per farti gli auguri da sola?” rispose tra sonno e irritazione.
“Volevo che tu non ti dimenticassi di farmi gli auguri e volevo anche ricordarti che stasera siete a cena da noi.”
“Lo so. E comunque ti avrei chiamata più tardi, ovvero quando mi sarei svegliata” rispose sarcastica.
“Comunque ti ho chiamata per un consiglio. Stasera vengono anche il fratello di Giulio con la sua fidanzata, la stilista, e io non so che mettermi per non sfigurare. Sai è pur sempre la mia futura cognata” Ginevra sembrava afflitta.
Camilla si mise seduta sul letto e con la mano libera accarezzò Vincent.
“Prima di tutto, tu saresti bellissima anche con una sacco della spazzatura, quindi smettila di farti le paranoie; e poi se devo proprio darti un consiglio dovresti metterti quel vestitino rosso a fiori che comprammo insieme da Luisa Spagnoli con gli stivali marroni, quelli senza il tacco.”
“Sapevo di poter contare su di te. Devo scappare, Adele si è svegliata. Ci vediamo stasera alle otto. Ciao Milli.”
“A stasera, ciao Gina.”
***
Dopo aver fatto colazione e dato da mangiare a Vincent, il bulldog francese di due anni, Camilla si mise una vecchia tuta e scese a portare fuori il cane.
Uscì dal portone del palazzo dove abitava, a Trastevere, e venne subito risucchiata dallo spirito romano. Quando, poco più di dieci anni fa, ritornò dalla Francia con un importante tirocinio sulle spalle e il cuore a pezzi, Camilla non ne volle sapere di ritornare a vivere con i genitori nell’attico di uno dei più prestigiosi palazzi del quartiere di Roma Prati; così il cugino di una sua vecchia amica le affittò ad un prezzo vantaggioso il suo attuale appartamento. Si innamorò subito del quartiere, secondo lei rappresentava l’essenza di Roma e della romanità. Lì, la gente era autentica, vera, genuina e gentile. Le persone non fingevano di essere qualcuno che non erano e i suoi vicini le volevano bene.
“Buongiorno Teresa!” esclamò salutando l’inquilina del terzo piano che stava stendendo il bucato alla finestra.
“Ciao bella” rispose la vicina “ho appena fatto la marmellata di mele, se dopo passi te ne dò qualche barattolo.”
Il momento che Camilla amava di più della giornata era la mattina presto, quando portava fuori Vincent prima di andare al lavoro. Le loro lunghe passeggiate prevedevano una prima tappa nella Piazza di Santa Maria in Trastevere, si sedevano sugli scalini della fontana dove lei mangiava la sua brioche appena sfornata e il cane attendeva che le cadesse qualche briciola. Dopodiché salivano per il lungo Tevere e appena superata Villa Farnesina attraversavano i giardini del Gianicolo. A volte, quando Camilla aveva più tempo a disposizione, arrivavano fino alla Terrazza per contemplare la città dall’altro, in religioso silenzio.
Quella mattina, però, quel momento di pace venne interrotto da una chiamata in arrivo sul suo cellulare.
“Ettore, è successo qualcosa?”
“Buongiorno amore mio, ti prego non odiarmi ma non possiamo pranzare insieme” le disse il fidanzato tutto d’un fiato.
“Ma è il nostro anniversario” gli rispose delusa.
“Lo so, ma ho un’emergenza al lavoro. E poi è il nostro quarto anniversario, il che significa che ne abbiamo già festeggiati tre e ne celebreremo ancora chissà quanti altri, quindi non morirai se per un anno non lo festeggiamo.”
“Quale sarebbe l’emergenza?” Camilla era basita dalla risposta del fidanzato.
“Ti ricordi che ti avevo parlato della “Ivanov airlines”, la compagnia aerea di Yuri Ivanov, il magnate russo cliente dello studio? Il punto è che si trova costretto a vendere le azioni prima di dichiarare la bancarotta. Mio padre vuole sia me che mio fratello alla riunione che ha convocato per pranzo, quando Ivanov arriverà in città” le rispose Ettore.
“Ok” rispose semplicemente Camilla, oramai era abituata a sentirsi la seconda scelta del fidanzato. Non ricordava nemmeno più quando fu stata la prima volta che lui la mollò da sola ad un pranzo o a una cena a causa di un’emergenza. “Oggi è anche il compleanno di mia sorella, siamo invitati a cena per le otto. Cerca di esserci, per favore.”
“Farò del mio meglio” si limitò a risponderle.
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