Carlo Gonzalo tirò fuori dalla giacca un disturbatore di onde radio, lo accese e lo posò sul tavolino al centro, tra i divani rosso Ferrari. Poi pregò i presenti di tirare fuori i cellulari e privarli delle batterie.
Adesso possiamo parlare— disse rivolto all’Ottavo Re di Roma. Mano Morta aveva recuperato una bottiglia di Bourbon e riempito otto bicchieri con ghiaccio, passandoli a tutti.
I fratelli Gonzalo, e noi— disse zio Re — hanno, anzi, abbiamo — puntualizzò — un grosso problema a Milano. Nella zona dei Mercati Generali, i nigeriani fanno la voce grossa e rompono i coglioni con la loro roba velenosa da due soldi, la loro merda sintetica che vendono a cinque euro a dose. Hanno sbudellato tre dei nostri ragazzi. Non si accontentano più di intossicare le loro prostitute e i loro drogati, vogliono fare il salto di qualità ed entrare nel nostro mercato con la coca sintetica che i cinesi producono in Africa. Non è possibile che la passino liscia, altrimenti che cazzo di Re di Roma sarei? I nostri amici rischiano di impaurirsi e passare, armi e bagagli, con i negri e i gialli. Gli altri, i marocchini, gli albanesi, i rumeni, i serbi, stanno vedendo come va a finire, intanto fanno melina, in sostanza se ne fottono, tanto per loro cambierebbe poco o nulla. Anzi forse avrebbero più mano libera per i loro traffici.
Alzò le spalle e si scrollò di dosso questi pensieri, facendo un respiro profondo. Poi disse rivolto a tutti noi:
Bisogna dare una lezione magistrale a questi bastardi. Una lezione che non devono dimenticare per tanto tempo, per almeno qualche generazione. I fratelli Gonzalo sono qui per fare pulizia insieme a noi, per proteggere i nostri accordi e gli interessi comuni!
T’immagini un nigeriano col tuo Porsche— disse zio Mezza Minchia, rivolto al Banana, — che sgomma e si scopa le più belle fighe che sgambettano nei nostri locali? O un cinese che mette in palio tre milioni, per la mano più esperta del London?
Il Banana ebbe un brivido lungo la schiena e nel basso ventre. Guardò Mano Morta, me e Orso Yoghi come a dire “questo non può accadere mai, vero?”. Voleva essere rassicurato che mai sarebbe successa una catastrofe simile. Ricambiammo lo sguardo con intensità. Non ci piace vedere soffrire gli amici. Poi ruotò la testa di pochi gradi: — Non può succedere mai, vero?— disse con convinzione rivolto all’Ottavo Re di Roma.
Ragazzi, — ho detto al Banana, a Mano Morta e a Orso Yoghi — sapete cosa fare, coordinatevi con i nostri amici— e ho guardato i Gonzalo per indicarli. L’Ottavo Re di Roma ha sorriso e mi ha dato una pacca sulla spalla. — Ottimo nipote— ha sussurrato piano al mio orecchio.
I Mercati Generali hanno una vita strana, un mondo tutto loro. Vivono di notte. S’illuminano grigi di neon e si riempiono di vita e verdure, di parole e legumi, di prezzi, grida e odori quando tutto il resto del mondo sogna. Sempre così, dalle due di notte fino alle sette del mattino, poi tacciono. Si assopiscono e riposano per alcune ore.
Ed è così che li trovarono Mano Morta, il Banana e i fratelli Gonzalo. Deserti. Silenziosi. Parcheggiarono le moto sul retro del box ventisette, quello in cui di solito i cinesi giocano a shogi per rilassarsi dalle fatiche della notte precedente e ricaricarsi per quella che deve venire. Due giocavano e tre guardavano, attenti, i pezzi che si muovevano sulla goban lamentandosi o accalorandosi per le mosse dei compagni. Diego Gonzalo, senza tanti complimenti, diede un calcio alla porta del box, che si spalancò, ed entrò sparando ai due giocatori con uno SPAS-12 Beretta. Dietro di lui Mano Morta si mise, calmo, alla sua destra, regalando raffiche di 762 agli spettatori della partita. L’operazione durò, in tutto, meno di tre minuti. Non ci fu nemmeno bisogno di controllare se i proiettili avessero fatto il loro dovere dopo la sventagliata finale di Kalashnikov di Mano Morta, che sferzò come la Bora, i corpi già distesi a terra. Terminato il lavoro salirono sulle moto, tenute calde dal Banana e da Carlo Gonzalo, e ripartirono. Si fermarono dopo appena dieci chilometri in un piccolo supermercato di prodotti esotici made in Africa. Mano Morta scese dalla moto e si sfilò il casco, mentre la proprietaria apriva il negozio. Entrò e puntò la canna della pistola alla testa della donna, sparò e la ragazza volò all’indietro meravigliata. Poi andò dritto verso due uomini di mezza età e un’altra donna grassa in fondo al corridoio, formato da due scaffali pieni di scatolette scritte in arabo, continuando a sparare. I fratelli Gonzalo e il Banana aspettavano fuori, facendo un poco da palo, un poco da spettatori. Mano Morta controllò che non ci fossero testimoni scomodi. Entrò in un piccolo ufficio in fondo al negozio e strappò via due CD Video dal registratore. Poi si voltò e si diresse verso l’uscita. Si fermò sulla porta e sorrise ai compagni. Infilato il casco, salì sulla Suzuki 750 verde del Banana, dandogli una piccola pacca sulla spalla per confermare la sua soddisfazione. Tutto era andato bene. Diego Gonzalo, già sceso dalla moto, aveva cosparso il supermercato e i cadaveri di benzina, poi aveva dato via al fuoco che sigillava il secco messaggio, come ceralacca.
Il Beechcraft King Air F90 si è sollevato di colpo dal mare, carezzando la sabbia dorata di spiagge tropicali e ha volato radente le cime di una foresta di kapok. Ha virato poi a Oriente, inoltrandosi nella foresta. Abbiamo provato una piccola vertigine e ci siamo stretti di più ai sedili. Ho smesso di leggere il giornale e ho sollevato lo sguardo aspettando svanisse la sensazione di disagio. L’ho riabbassato subito accecato dai raggi del sole, poi sono tornato a guardare fuori dall’oblò l’insolito spettacolo. Sono rimasto incollato all’orizzonte per qualche minuto e ho pensato all’argomento dell’articolo. Il presidente degli Stati Uniti annunciava cinque miliardi di dollari d’investimenti in Africa. Per l’occasione erano stati invitati alla Casa Bianca numerosi leader di Paesi africani. Gli USA avevano deciso d’investire una montagna di dollari, per contrastare l’invasione cinese in quel continente. Ho pensato che il Presidente della maggiore potenza militare ed economica mondiale, non avrebbe dovuto trascurare un argomento così importante: l’Africa. Provavo a ragionare da leader. Mi chiedevo che minchia avessero fatto, fino a qual punto, i consiglieri economici della Casa Bianca. Probabilmente si erano crogiolati tra un happy hour e l’ altro, bevendo e mangiando da Dio, sniffando coca sudamericana e facendosi di fumo, ridendo e cazzeggiando con le belle fighe che fanno sempre da complemento al potere, mentre gli analisti cinesi, tra un piatto di riso e un bicchiere d’acqua minerale, facevano lavorare computer e cervelli a mille per espandere l’economia del proprio Paese e conquistare aree geografiche sempre più grandi. Sostanzialmente, per fottere un’America sonnolenta e un’Europa sprofondata nel suo problema di migrazioni e crisi economica. Forse si erano giocati il mondo ai dadi. Ai cinesi era toccata l’Africa, gli americani avevano vinto il Medio Oriente. Le briciole ai servi. Forse era così. Ho ripreso in mano il giornale e mi sono rimesso a leggere parecchio incazzato per la conclusione cui ero giunto. Sento di essere profondamente occidentale. Di far parte integrante di questa grande famiglia nutrita e allevata dai fratelli americani a Coca-Cola e programmi televisivi spazzatura. Di più: sento di essere profondamente italiano e americano insieme, non cinese, non africano. Sono un occidentale del cazzo, felice di esserlo. Punto. Li prenderei volentieri a calci nel sedere, se potessi, quei quattro debosciati di analisti del Pentagono.
Mano Morta è incollato al finestrino, due sedili più indietro, e si gode il panorama. La foresta equatoriale è uno spettacolo di luce e colori al sorgere del sole. Schiaccia sempre più il naso contro il finestrino e, con gli occhi sbarrati, cerca di non perdere una sola immagine del film che si proietta al di là dell’oblò. Sotto di lui il blu smeraldo di una cascata si fonde col verde intenso di un prato di mangrovie. Si strofina le mani dall’emozione. Il Banana è perso nella musica hard rock che spara decibel a morire dalle cuffie, tenute incollate alle orecchie come se fossero una sua parte indissolubile. È passato meno di un mese dalla dura lezione impartita a cinesi e africani che volevano fregarsi la fetta di torta criminale della mia Famigghia. Adesso ci tocca un viaggio di piacere. Spiaggia, mare, coco frio, margarita per una settimana a spese di zio Ottavo Re di Roma e di tutta A Famigghia.
II – Rizieri, anno 1919
L’ultimo nato nella famiglia del Cavaliere di Vittorio Veneto Antonino Improta è Rizieri. È nato a Natale, giusto un anno dopo che il Cavaliere è tornato dalla Prima guerra mondiale. Maria l’ha partorito come nostro Signore Gesù Cristo: al freddo e al gelo. L’ha scaldato con un piccolo braciere e col respiro delle capre del suocero. Questo gennaio il gelo si è fatto sentire in Aspromonte, ha paralizzato le dita delle raccoglitrici di olive e ha coperto di ghiaccio i ruscelli e i tappeti di foglie rosse dei boschi di castagno. Ruggero è nato alle tre del mattino senza dare nessun disturbo. “È nato quasi da solo. Mancava poco che non me ne accorgessi” dice Maria a chi le chiede, ricordando quel parto.
Lo stupore è stato grande quando si sono accorti che portava dei segni sul corpo: due croci in rilievo sulla pelle di entrambe le spalle e un prolungamento del coccige. In pratica una piccola coda che spunta alla fine della schiena. La levatrice, preoccupata, ha chiamato subito il Cavaliere Antonino, per sentire se non fosse il caso di far venire Don Fulgenzio, per una benedizione veloce, prima di azzardare ogni altra pratica del suo mestiere: lavare e asciugare la creatura, per porla in braccio alla madre. Il Cavaliere, solo un poco sorpreso, che di code, corna, croci e sangue ne aveva già visti fino alla nausea, ha osservato il bambino e dopo averci pensato su due o tre secondi ha pronunciato queste parole: — In casa mia oggi è nato un Cavaliere di San Giorgio, un Cavaliere Errante. Lo chiamerò Rizieri, come Rizieri d’Altavilla. Lavalo, asciugalo e dallo a sua madre— ha ordinato alla disorientata levatrice. — Per oggi non c’è bisogno di preti in casa mia— ha continuato, mentre gli occhi gli brillavano di una luce speciale. Anche Maria ha considerato Rizieri come un dono di Dio. L’ha baciato e se l’è messo al seno per la prima poppata.
La notizia del figlio di Antonino e Maria, nato con le stigmate da cavaliere sulle spalle, e in più con la piccola coda, si era diffusa subito nel paese e in tutta la vallata. Don Fulgenzio, dopo qualche indecisione, era andato a far visita alla famiglia del Cavaliere di Vittorio Veneto, curioso di esaminare la nuova pecorella del suo gregge che, di lì a poco, avrebbe dovuto benedire in un battesimo cristiano. Voleva entrare in quella casa perché, solo così, anche il minimo sospetto di un intervento del maligno, sarebbe sparito dalla mente dei dubbiosi. Anche dalla sua. Si chiedeva: “Può un’espressione del maligno entrare nel mio gregge benedetto?”, e “No, non può!” si rispondeva secco. Dunque gli pareva giusto che la Chiesa, attraverso il suo umile servo, verificasse l’eventuale presenza del male. Era la piccola coda a non convincerlo del tutto. Così rimuginava dentro sé: “Passi per le croci, sono il segno della sofferenza di nostro Signore, e questo mistero lo capisco. Ma la coda, la coda, che relazione ha con nostro Signore? Devo andare a vedere. Devo trovare una spiegazione. Una risposta”. Così si era deciso a bussare alla porta della famiglia Improta, esattamente venti giorni dopo la nascita di Ruggero. Maria aprì la porta e non si stupì di vedere il faccione di Don Fulgenzio. Lo aspettava da giorni. Il prete si accomodò nella piccola cucina dov’era sistemata la culla del bambino. Ruggero, sentiti dei rumori, puntò gli occhietti vispi sul prete e, afferrate le sbarre d’ulivo della culla, si alzò in piedi. A quel gesto ci mancò poco che, il rubicondo uomo di Dio, stramazzasse al suolo per la paura e l’emozione. Traballando, come certi uomini all’uscita dall’osteria, si fece il segno della croce due o tre volte, e si puntellò con la schiena allo stipite della porta d’ingresso, non riuscendo a spostare lo sguardo spiritato dagli occhi curiosi del bambino. Maria e il Cavaliere lo afferrarono di peso per metterlo a sedere sulla seggiola vicino al fuoco. Ruggero, da parte sua, finito il momento della novità, si lasciò cadere sul sacco di foglie di mais che gli serviva da materasso, e rivolse l’attenzione alle cose cui danno retta i bambini di quell’età: piedi e mani. Sul tavolo c’era la bottiglia di vino rosso, quello delle occasioni migliori, il pane, il formaggio e il salame affettato che Maria preparava per chiunque venisse a farle visita. Il sacerdote cominciò a divorare salame e pane, formaggio e pane e a tracannare vino. A un certo punto, col viso più rosso del solito, si rivolse a Maria e, dopo aver svuotato un altro bicchiere di Greco Nero, si mise a parlare continuando a triturare salame: — Sapete che questo vostro figlio non può sopravvivere? Non si è mai vista una cosa del genere da queste parti e, in verità, da nessun’altra parte, che io ricordi—. Dopo aver ingoiato un altro boccone, continuò: — Certo, qualcosa si è tramandato, sciocchezze, storie per creduloni. San Giorgio e Orlando avevano queste stigmate. Croci da Cavaliere che vengono fuori sulle spalle insieme a una piccola coda. La forza e il coraggio di questi uomini provengono dalle croci che li rendono diversi da tutti gli altri. Questi esseri sono dei predestinati. Orlando, San Giorgio, Agolante. Tutti Cavalieri Erranti con la croce sulle spalle, quella di nostro Signore. Certo, anche Satana ha la coda, però, in principio, era un angelo. Comunque, sono idiozie. Quelli erano altri tempi, i tempi del bene. Adesso non è il tempo del bene, ma del male e tu, che vieni da una guerra, — rivolto ad Antonino — lo sai bene. Come puoi pensare che questa creatura sopravviva? Capite adesso! Come può questo bambino sopravvivere contro il volere del male, nel tempo in cui il demonio è il signore del mondo?
Queste ultime parole, le disse ingoiando un’altra fetta di pane e salame e, per mandarla giù, trangugiò l’ultimo bicchiere di vino. Non un prete, ma un giudice che legge una sentenza di morte contro un innocente appena nato. Questo sembrò Don Fulgenzio, improvvisamente, al cavaliere Antonino e a Maria. Il Cavaliere di Vittorio Veneto Antonino Improta, scuro in volto, guardò la moglie e poi la feritoia del muro dove custodiva la baionetta di venticinque centimetri, con la quale aveva scannato in guerra tanti austriaci e ungheresi , e scattò dalla sedia. Fu più svelta Maria. Intuite le intenzioni del Cavaliere, che avrebbe giustiziato sul posto lo sventurato sacerdote, guardò Don Fulgenzio che, a sua volta, conoscendo il carattere del Cavaliere, si era già messo in allarme: si tirò su la tonaca e guadagnò l’uscita, veloce come il lampo. Nella fretta battè la testa contro lo stipite della porta e continuò a correre sbandando a destra e sinistra. Maria gli gridò dietro di non mettere più piede in quella casa, per i giorni che gli rimanevano da prete e per quelli che gli rimanevano da vivere come uomo. Il Cavaliere gli consigliò di pregare molto per la salute di Rizieri: — Prete, la tua vita adesso è legata a quella di Rizieri— urlò.
Fante Francesco era molto affezionato al piccolo Rizieri: gli faceva da madre e da padre. Quando Maria e Antonino erano al lavoro, praticamente tutti i giorni comandati e non, Francesco rimaneva a casa dal mattino fino al ritorno dei genitori, accudendolo e appagando i bisogni del fratello. Il legame col passare del tempo diventò speciale. Francesco era lo scudiero di Ruggero: il compagno d’armi, l’amico inseparabile. A sua volta, anche Rizieri, per quanto piccolo, era legato al fratello maggiore. Seguiva con gli occhi ogni suo movimento e, con quello sguardo, lo cercava nel momento dei bisogni infantili: la fame, la sete, il sonno, il gioco.
Rizieri, a dispetto delle sue stigmate, morì a due anni per una polmonite. Non valse a nulla la corsa di tre ore del Cavaliere Antonino dal medico. Se l’era messo sulle spalle, dentro lo zaino della guerra, e aveva corso a perdifiato nella notte. Si era messo a correre sotto la pioggia, con un cappellaccio a falde larghe che copriva Ruggero, infagottato dietro. Sentiva il caldo del male del bambino sul collo, sulle spalle, nel cuore. Il respiro del giovane Cavaliere Errante si faceva pesante e rantolante, e lui correva più forte. Arrivato dal medico, bussò forte, sempre più forte, fino a quando il portone non si aprì. Posò lo zaino sul divano dell’entrata, senza più fiato. Ansimava per la corsa e la paura. Il medico guardò lo zaino e il bambino ormai esanime. Provò a ridargli la vita, inutilmente.
Un medico è un uomo, non un Dio— disse poi deluso ad Antonino e a sé stesso — Non si può fare più niente, siete venuto troppo tardi.
Il Cavaliere Improta abbracciò il figlio senza dire una parola e se lo portò stretto al petto fino a casa. Fatti i funerali, Antonino impugnò il fucile e andò a cercare Don Fulgenzio. Non aveva dimenticato quello che il prete aveva predetto: “Questo bambino non può sopravvivere”. Queste parole gli martellavano in testa giorno e notte. Non lo lasciavano riposare, non lo abbandonavano mai. Decise di risolvere la faccenda a modo suo. Non era vendetta quella che cercava, era soltanto un mantenere fede alla parola data, perché si ricordava anche le altre parole: “Prete, tu campi finché vivrà il bambino, prega per lui”.
Forse quello non era un buon prete, non sapeva pregare o non aveva implorato abbastanza il suo dio. Forse non credeva che il Cavaliere Antonino Improta fosse capace di mantenere la sua parola e di scannare un prete. Lo cercò ovunque, per giorni, senza trovarlo, poi si sedette fuori dal paese ad aspettarlo, tanto alla fine doveva passare. Lo aspettò per un mese intero, mentre tutto il paese cercava di dissuaderlo. Alla fine cedette alle parole sensate della moglie: — Antonino, abbiamo altri cinque figli, se te ne vai in carcere moriamo tutti di fame, non ti rendi conto?—. Le parole della moglie gli lavorarono nel cervello come una talpa che si fa la tana, fino a che non riusciurono ad abbattere il muro di rabbia e a riportarlo alla ragione. Questo accadeva a un mese e venti giorni dalla morte di Rizieri. Don Fulgenzio fu comunque spostato di sede per qualche tempo. Trasferito in città, a Reggio, perché si sapeva che un ripensamento poteva sempre esserci nella testa di un essere umano, specie in certi momenti di disperazione. “Il cervello è sottile come un filo di capello” soleva dire Don Fulgenzio dopo l’episodio, come per affermare che la pazzia è sempre in agguato nell’uomo, che anche un episodio da niente può, improvvisamente, accenderla. Dopo un anno abbondante il prete ebbe la rassicurazione di poter tornare alla sua parrocchia. Gli era stato promesso dal Vescovo in persona che nulla gli sarebbe accaduto: “Ho avuto la parola di uomo d’onore da Antonino Improta, Don Fulgenzio. E questo a me basta”, aveva risposto il Monsignore ai dubbi del prete sul rischio che correva la sua salute ritornando in paese. Con la morte di Rizieri era morta la possibilità di riscatto della nostra Famigghia, della nostra terra.
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