«A maggio parto, faccio il giro del mondo».
Ecco la mia risposta alla classica, e a volte banale, domanda ‘Come stai?’, in una serata qualsiasi di aprile, dopo aver preso posto al tavolo di un nuovo ristorante di Modena che volevamo provare.
Ormai le mie amiche si aspettano di tutto dai miei racconti di questo periodo pazzo della mia vita, simile una serie Netflix, ma questa volta sto dando il meglio di me, e io stessa, ora che l’ho detto ad alta voce penso: ‘Ma che cosa stai facendo?’.
Non perché non ne sia capace, ho già fatto la valigia per partire all’avventura in altre occasioni, ma questa volta è diverso. Forse proprio perché è esaltante e decisamente fuori dalle righe allo stesso tempo: sto mettendo un punto, per iniziare un nuovo capitolo.
Dopo aver lasciato un lavoro che sulla carta avrebbe portato molte persone che conoscevo a fare carte false per essere al mio posto (tanto che anche i recruiter per le nuove posizioni a cui applicavo mi facevano tutti la stessa domanda: «Come mai vuole lasciare il Suo lavoro?», senza sapere che la risposta onesta sarebbe stata «In realtà l’ho già fatto, e non avete minimamente idea del casino che c’è dietro lo sfarzo della facciata».), aver lanciato una startup per scontrarmi, dopo un anno di attività frenetica, con dati che promettevano grandi possibilità, ma con una gran mancanza di fondi e quindi averla chiusa, dopo aver lasciato Milano perché avevo rotto col mio ex e non avrei potuto permettermi un affitto nella scintillante City, e dopo aver passato gli ultimi mesi a cercare un nuovo lavoro senza successo, ora avrei chiuso la valigia per partire.
«No va beh!» esclama Raffi alla mia destra, battendo le mani e scoppiano a ridere allo stesso tempo. «Nenni, sei un idolo!» continua tra le risate.
«Veramente?» fa eco Fede, guardandomi sbalordita, ma in fondo non poi così tanto.
«Eh si, o almeno, se non voglio perdere i soldi del biglietto, ormai devo partire!» rispondo, mettendomi a ridere anche io.
«Ma parti da sola?» continua Fede.
«Si».
«No va beh!» da destra le risate raddoppiano.
«Ommammamia, ma i tuoi cosa dicono?»
«Ve lo dirò, appena lo dirò anche a loro».
«Non glielo hai ancora detto?» adesso anche Fede comincia a ridere di gusto.
«NO VA BEH, IO VOLO VIA!»
A questo punto stiamo tutte ridendo fino alle lacrime.
«Lo so, sono una figlia pessima, avrei dovuto almeno accennarlo prima di prendere il biglietto». ammetto, «Visto che ormai sono tornata a fare la figlia mammona che vive con i genitori..».
«Va beh, che c’entra, è solo momentaneo, e poi con tutto quello che hai fatto ed imparato in questo anno, solo chi non capisce pensa che tu sia una nullafacente». mi interrompe Fede, mentre Raffi ritorna seria per un attimo ed annuisce convinta. «Però si, ecco, magari un accenno potevi farlo, visto che hai detto che parti a…maggio?» mi chiede, guardandomi con fare interrogativo.
«Il 6 maggio». confermo io.
Silenzio. Uno, due…
«Ma è tra venti giorni!»
«IO STO MALE!»
Le risate ripartono, raddoppiate.
«Ma perché non glielo hai detto?»
«La verità? Perché sono sicura che non capiranno, anzi forse non mi capisco neanche io!»
«Ma tu perché parti?»
Ecco le domande scomode, ma giuste, di Fede. Raffi smette di ridere, anche se ha le lacrime agli occhi.
Già giusto, perché?
Perché ho quello che nessuno con un lavoro fisso può permettersi di avere, tempo da investire su di me, lontano da una scrivania; con tutto quello che questa cosa significa, nel bene e nel male. Ho il tempo di fare quello che amo, e quello che amo fare da sempre è viaggiare. Non so da dove arriva questo spirito nomade un po’ folle, probabilmente in una vita precedente sono stata un comandante di vascello, una gitana o forse tutte e due, ma la bellezza di sedersi su un aereo sapendo di poter incontrare di lì a, relativamente, poche ore nuovi volti, nuovi luoghi, nuove culture è sempre stata impagabile per me; ma, nell’ultimo periodo, da quando ho chiuso con la startup, ho avuto anche il tempo di pensare e rimuginare troppo e questo mi ha portato in un loop insensato di accuse verso me stessa da cui è ormai tempo che io esca; ma non riesco a farlo da sola, rimanendo nel solito posto.
Perché ho ancora soldi da parte e investirli in un viaggio, in qualcosa che mi farà fare esperienze uniche; e questo per me ha totalmente senso, poi avrò il tempo di risparmiare con il nuovo lavoro.
Rispondo così, poi mi fermo un attimo e continuo, ammettendo ad alta voce quella che è una gran verità e allo stesso tempo una mia paura.
«E poi perché sto vivendo una vita che non è la mia. In realtà non so quale sia né come dovrebbe essere la mia vita, ma di sicuro non comprende quello che sta succedendo adesso, o almeno non ventiquattr’ore al giorno».
Sospiro. «Mi sento anche ingrata, perché i miei mi stanno aiutando e sono tutti fantastici, e sono sicuramente io a non andare bene. È giusto quello che fanno loro, stare tutti insieme come una grande famiglia, in una routine tranquilla e che scorre bene da lunedì alla domenica, soprattutto ora che c’è anche mio nipote, ma io non ci riesco».
«Va beh, Nenni, è normale. Vivi fuori casa da più della metà dei tuoi anni, sei stata all’estero, hai fatto diversi lavori di cui anche l’imprenditrice, e poco importa se non è andato tutto come volevi». dice Raffi alzando un pò la voce, oltre all’indice che sventola di qua e di là, in risposta al mio accenno di obiezione che, evidentemente, mi si leggeva in fronte. «Avete percorsi diversi. Poi a casa si sta bene, ma per un pò. Se penso di dover tornare a vivere con mia madre, MI VIENE MALE».
«Si, esatto, neanche io potrei farlo». fa eco Fede.
Già mi rilasso un pò: allora non sono pazza io, o solo io.
«Poi questa cosa che, anche se ho passato il processo di selezione e hanno confermato che mi vogliono assumere in ben tre posti differenti, nessuno di loro mi ha ancora mandato il contratto, è assurda». continuo. Sentivo che non era stato un caso che non si fosse mosso nulla fino a quel momento, ma non riuscivo a capire perché, cosa tutto questo voleva insegnarmi.
«Non so spiegarlo bene neanche a me stessa,» continuo, «ma sembra come se stessi continuando a sbattere contro un muro di gomma messo lì da qualcuno che vuole impedirmi di tornare a fare quello che facevo prima, perché non è più giusto per me. Ora l’ho capito, cosa non è più giusto per me, ma ancora non so cosa sia giusto invece. Così parto. È assurdo, eh?»
‘Lo faccio anche per scoprire quella piccola bambina leggera, vitale, sognatrice, ma sola e poco apprezzata che è dentro di me.’ Questo non lo dissi, spiegarlo avrebbe richiesto troppo tempo e avrebbe guastato il clima.
«Oh sì, lo è, ma io ti capisco molto bene!» dice Raffi e Fede annuisce.
«Poi non hai una relazione, quindi puoi fare quello che vuoi!» aggiunge Fede.
«O meglio, hai una vita sentimentale attiva su vari fronti, ma non hai niente che ti costringa a scendere a compromessi». precisa Raffi, facendo l’occhiolino. «A proposito, abbiamo novità?»
«Non mi è servito chiedere, ragazze, ma come immaginavo, non sono l’unica oca del recinto».
«Ma quale oca, al massimo sei un’anatra che migra e quando ti va entri nel recinto, sei Guendalina Bla Bla». sbotta Raffi. «Ovviamente, solo similitudini auliche per noi». si canzona da sola, bevendo un sorso di vino, per aver citato gli Aristogatti.
«Guarda che Guendalina era un’oca». la corregge Fede, tornando a ridere.
«Era un’oca?» chiede Raffi, allontanando il bicchiere dalle labbra. «Va beh, licenza poetica, la nostra Guendalina è un’anatra. Guendalina, Adelina e zio Reginaldo». dice indicando in fila me, lei e Fede.
«Ma perché a me la parte dell’uomo?» chiede Fede.
«Prenditela con la Disney, che non ha trovato un’altra OCA femmina!» risponde Raffi.
E ci rimettiamo a ridere.
«Ok, ma dove andrai di preciso?»
«Parto dal Vietnam, poi Giappone, faccio scalo a Los Angeles per tre giorni, Messico e dopo Costa Rica. Poi vado a Boston per salutare Ele» aggiungo guardano Fede, perché è una nostra amica comune, per la precisione una ex compagna di classe. «Facendo scalo a New York per altri tre giorni».
«F-A-N-T-A-S-T-I-C-O!» esclamano in coro.
«Che invidia, vorrei farlo anche io, o venire con te! Insomma è il viaggio della vita!» dice Raffi con gli occhi che brillano.
«Sarà fantastico, conoscerai un sacco di persone, vedrai posti stupendi, come ti invidio». le fa eco Fede. Guarda il cielo, persa nei suoi pensieri per qualche istante, poi mi fissa inevitabilmente negli occhi «Però ecco, sì, ai tuoi devi dirlo».
‘Sì,’ penso, ‘devo dirlo ai miei’.
- Scalo a Doha
Cammino sotto le volte metalliche e altissime dell’aeroporto di Doha, sentendomi decisamente piccola. Ma non è solo la dimensione dell’architettura e quelli che sembrano chilometri per arrivare al mio gate; sto di nuovo sentendo la stessa sensazione che provavo facendo i bagagli ieri sera.
Già che mi fossi ridotta alle ultime ore per fare la valigia era stato strano, così come percepire una strana agitazione che mi controllava: era come se una parte di me volesse togliere i vestiti da dentro la valigia e rimetterli a posto, come se la mano destra volesse disfare ciò che stava facendo la sinistra.
«Assurdo, dai, non vedevo l’ora di partire per questo viaggio, cosa mi succede?’ continuavo a ripetermi, ma più mi dicevo che era ridicolo, più dovevo alzarmi, lasciare la valigia e finivo per spostare vestiti a caso dall’armadio al letto e poi di nuovo nell’armadio.
Ancora mi ritrovavo a chiedermi se fosse solo una fuga perché non riuscivo a trovare la mia strada.
Ci avevo messo molto più tempo del solito per arrivare a chiudere le zip, sistemare lo zainetto accanto alla valigia cabin size e il passaporto nella tasca del marsupio. Mi succedeva sempre, prima di un grande viaggio, di avere un attimo di freno, come quando arretri e trattieni il fiato prima del passo finale che di da lo slancio per saltare e buttarti nel vuoto, appeso alla corda elastica del bungee jumping; però era sempre stata una sensazione momentanea, l’avevo sempre percepita come parte della marea che, come mi aveva spinto a comprare il biglietto, ora ricaricava la molla per farmi mettere in viaggio.
Questa volta però non sembrava la marea, ma la scogliera su cui si frangono le onde, ruvida e solida.
Non avevo voluto pensarci, così mi ero detta che sarebbe sicuramente andata meglio l’indomani, e mi ero messa a dormire, anche perché in effetti si era ormai fatto tardi.
La sveglia aveva suonato presto, ero partita velocemente, con poco tempo per pensare, avevo preso tutti i mezzi possibili, tranne la bicicletta: auto, autobus, treno e di nuovo autobus per arrivare a Malpensa, per poi ritrovarmi su un volo fino a Doha. Ed ora sono proprio qui, ad aspettare l’ultimo aereo per Ho Chi Min che ha anche un’ora di ritardo, quindi il tempo per rimuginare è decisamente troppo, troppo lungo.
Ed eccola che è subito tornata, la stessa sensazione. Ma questa volta non ho nulla da fare per evitare di farci i conti. Così sollevo la testa e guardo il soffitto, mi sento piccola.
È come se una parte di me non volesse davvero partire, non volesse mollare gli ormeggi, la pensasse esattamente come mia madre. Cosa stavo facendo? Cosa pensavo di fare in giro per il mondo, senza lavoro, senza stipendio, da sola, a sperperare i soldi che avevo messo da parte? Non era una cosa da fare, non era quello che ci si aspettava da me. Chi ero io per uscire dagli schemi?
Forse il punto era proprio questo, non mi ero mai permessa di uscire dagli schemi davvero, quindi tutto non poteva che essere molto strano. Si, sono sempre stata la pecora più nera del recinto, ma non sono sicura di aver mai preso una direzione che fosse totalmente mia. In effetti, non sono sicura di sapere ancora quale sia la mia direzione, e questo, devo ammetterlo, mi terrorizza un po ‘: come è possibile non sapere quale sia la mia direzione a quasi trentaquattro anni?
Mi fermo di scatto, tanto che il tizio dietro di me mi sbatte contro.
«Ehi! Attenta!»
«Scusami, ero persa nei miei pensieri e non ho considerato che mi sono fermata di colpo in mezzo ad un aeroporto». gli rispondo, aiutandolo a raccogliere il passaporto e le altre carte che aveva in mano.
Lui si sistema lo zaino in spalla e mi guarda. È un ragazzo dagli occhi azzurri ed intelligenti e i capelli rossi; mentre mi osserva, vedo il suo cipiglio mutare in un sorriso molto tenero.
«Non ti preoccupare, succede a chi è un pò indeciso». mi risponde.
«Indeciso?» ripeto, rimanendo interdetta e un pò indispettita. Cosa ne sapeva lui? Poi non ero indecisa, io. Oppure in questo momento si?
«Scusami, non voglio fare la figura del saccente, ma mi sembra che tu sia un po’ incastrata in questo momento. Come chi ha deciso di percorrere un sentiero, ma per un attimo ne ha perso la traiettoria, non vede più come continua». risponde lui, sempre sorridendo, e prendendo il passaporto che gli porgevo.
Cosa ne sapeva lui?
«Niente, forse non né so niente, ma i tuoi occhi mi ricordano i miei qualche anno fa, quando ho deciso di mollare tutto e di seguire la mia passione, fare fotografia. Tuttora ringrazio di aver avuto questa passione da sempre, perché solo questa mi ha permesso di mantenere la rotta, di non ritornare indietro sotto tutte le pressioni sociali che avevo. In fondo chi è così scemo da lasciare un lavoro super ben pagato ed il posto fisso per seguire la sua passione?»
«Beh, forse io». gli rispondo.
«Ecco, vedi? Non mi sono sbagliato».
«Solo che non lo so quale sia la mia passione».
«Forse perché ancora la devi scoprire, quindi il tuo percorso è più difficile del mio, a quanto pare, ma ti dico quello che hanno detto a me: se sei su un sentiero e sei circondato dalla nebbia, e diciamo che puoi vedere solo fino ad un metro dal tuo naso, cosa puoi fare per uscire dall’impaccio?»
«Mmmh.. difficile, se vedo solo la prima parte del sentiero».
«La prima parte è già qualcosa, anzi è tutto. È quello di cui hai bisogno per iniziare. Pensaci, in fondo per iniziare non hai bisogno di vedere la fine, basta vedere l’inizio, e se nella nebbia continuerai ad avere un metro di visione, beh, quando farai un passo allora potrai vedere un passo più lontano, e chissà, procedendo sul sentiero magari la nebbia si dirada. E nel viaggio potresti trovare la tua passione. Non cambia niente se resti ferma». mi dice sorridendo.
«La tua nebbia si è diradata?»
«Direi di si, ma questo non è il punto. Che senso ha fare il percorso se sai già cosa troverai alla fine?» mi dice facendo l’occhiolino. «Chiediti piuttosto cosa ne penserebbe la te stessa tra dieci anni? Starebbe meglio all’idea di essere rimasta nella zona di confort, dove stanno tutti, pasciuti e tranquilli, o di averci provato, magari anche sbagliando e essendosi fatta male?»
Gli sorrido.
«Non credo ci sia una risposta uguale per tutti, ed è bello per questo». continua. «La mia è stata la seconda, e sono già caduto diverse volte, ma diamine se mi piace! Non è facile essere la pecora nera, la società poi tende a respingerti perché fai tremare lo status quo, la metti in crisi. Ma non ci vuole molto ad abituarsi ad essere il bastian contrario, e secondo me anche tu non avrai troppe difficoltà. Ormai sei in ballo, non ti fermare adesso».
Mi sorride e continua per la sua strada.
Lo guardo andare via e lo perdo di vista dopo pochi passi; provo ad allungare il collo, ma non lo vedo più, come se fosse sparito nel nulla. Cosa era appena successo?
Un perfetto sconosciuto mi aveva appena dato una lezione di vita sotto tra i gate di un aeroporto, toccando più di un nervo scoperto. Ma aveva ragione, la me tra dieci anni non rimpiangerebbe mai di aver provato, di essersi buttata, di aver cercato di cambiare le carte in tavola. Rimpiangerebbe solo di essersi allineata di nuovo allo standard, di essere tornata indietro dopo tutta la fatica spesa per arrivare fino lì, dopo essersi messa finalmente di traverso.
Punto di nuovo gli occhi sui numeri dei gate; il primo che vedo è il 54.
Il mio è il 32, mi aspetteranno altri chilometri da fare a piedi prima di raggiungerlo, probabilmente.
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