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A piedi scalzi (a pedi scauzi)

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Consegna prevista Luglio 2026

In un’Italia devastata dalla guerra, la campagna attorno alla valle del Crati diventa teatro di sopravvivenza e sottili giochi di potere. La giovane Caterina osserva con occhi attenti la miseria e la speranza, mentre Severino, soldato reduce dall’Africa, cerca il suo posto in una patria lacerata. Giovanni cresce in un mondo di tradizioni secolari e povertà, in un paese dove il destino sembra già scritto. Intorno a lui, le donne lottano per la famiglia e gli uomini per la sopravvivenza. In una Calabria dura e autentica, tra speranza e rassegnazione, tra resistenza silenziosa e compromessi pericolosi, il destino di un paese si intreccia con quello di uomini e donne a piedi scalzi nella polvere della storia.

Perché ho scritto questo libro?

Il libro nasce dal desiderio di riportare alla luce la storia dimenticata del campo di Ferramonti, luogo sospeso tra dolore e speranza. Diverso dagli altri, fu anche spazio di umanità e solidarietà. Ho voluto dare voce a chi è stato cancellato dalla memoria e raccontare la Calabria povera e ferita dalla guerra, dove dalla miseria e dalle ingiustizie nacquero i semi del brigantaggio e, nel tempo, le radici della mafia che ancora oggi segnano quella terra.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Andiamo Giovà.

Giovanni saltò in piedi sul portapacchi posteriore della bicicletta. Il padre gli porse la borsa.

Piglia chista.

Gino mise gli altri attrezzi nel cestino appeso al manubrio. 

Avevano appena terminato di preparare i fuochi che sarebbero stati sparati la sera, a Torano Castello. Avevano posato dei tubi di acciaio per terra, lunghi circa un metro, disponendoli in verticale a distanze regolari. I tubi, che erano molto pesanti, li aveva trasportati sul posto il padre di Carmelo, Giuseppe, che aveva un piccolo trattore ed un rimorchio. Giuseppe aveva chiesto a Gino della serenata. Annuzza, tutto sommato, sarebbe stata un buon partito per il figlio, ed era curioso di sapere com’era andata. Gino, a onor del vero, aveva solo un vago ricordo degli avvenimenti della sera prima. Si limitò a dire che la ragazza non aveva aperto la finestra, ma che spesso le donne facevano così e che ciò non corrispondeva, dunque, ad un vero e proprio rifiuto. Ci sarebbe stata speranza.

I tubi, che avevano la funzione di mortaio, erano stati riempiti da Giovanni e suo padre con i fuochi che avevano preparato il giorno prima. Erano orientati in modo da essere perfettamente visibili, una volta sparati in cielo, dal centro abitato di Torano Castello. Nonostante Giovanni lo avesse fatto decine di volte, Gino aveva spiegato al figlio, di nuovo, come andavano accesi. In fondo al tubo metallico c’era una piccola apertura, dalla quale usciva una piccola spoletta, ovvero un elemento a lenta combustione che avrebbe funzionato da temporizzatore. 

Devi accendere questo, gli aveva detto il padre indicando la spoletta, con il fiammifero, e fare attenzione che abbia preso. Sennò u botto non parte. Hai capitu? Si si’ sicuru chi è accisu, passi a chillu dopu. E devi fari prestu, sennò u botto scoppia ca si’ ancora vicinu! Hai capitu?

Giovanni aveva annuito. Ormai lo sapeva fare bene. Sapeva che era pericoloso, ma gli piaceva e non gli faceva paura come andare a tirare su la corrente in paese. L’unica cosa che gli dispiaceva era che non riusciva mai a vedere lo spettacolo come gli altri. E sapeva anche perché il padre glielo stava spiegando. La Festa di San Francesco da Paola, a differenza della Festa di Santa Maria del Buon Consiglio, che si festeggiava solo a Sartano, si celebrava sia a Torano Castello che nella frazione; quindi, si sarebbero dovuti dividere i compiti. A lui sarebbe toccato Sartano, ovviamente, mentre il padre avrebbe sparato da Torano. Saliti in bicicletta, ora stavano facendo ritorno proprio al paesello, perché anche lì avrebbero dovuto preparare i mortai con le cariche entro sera. 

Giuseppe aveva già lasciato i mortai sulla collinetta appena fuori dal paese. Gino li prese ad uno ad uno e li dispose ordinatamente scegliendo con cura come orientarli. Una volta terminato il lavoro più duro, diede indicazioni al figlio su come riempirli. 

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Finisci e poi vai a casa. Io aju da ndà da don Nicola. A mamma ‘u sa. Statti accuorto.

Gino risalì sulla bicicletta e si diresse verso il casale dei Cavalcanti. Avrebbe dovuto tagliare i capelli a don Nicola e riparare le scarpe della moglie per la festa della sera. Non impiegò molto ad arrivare, perché la strada, polverosa e senza pietre, era tutta in discesa. Prima di entrare nel cancello della tenuta si fermò per frugare nella borsa degli attrezzi ed essere sicuro di avere tutto. Temeva, per la troppa fretta, di aver dimenticato qualcosa a casa o nel sacchetto dei fuochi che aveva lasciato a Giovanni. Non sapendo in cosa consistesse la riparazione, aveva deciso di portarsi dietro tutto l’occorrente. La forma di legno, una pinza, il punzone, la tenaglia per gli occhielli, un punteruolo, la lesina, la liscia, la raspa. Ma, generalmente, gli interventi più comuni che eseguiva erano sulle suole, usurate o rotte. Controllò che ci fossero colla, martello, chiodi e piccoli pezzi di legno, ma soprattutto il bisegolo, che gli sarebbe servito per lisciare e lucidare il taglio delle suole. C’era ogni cosa. Percorse il lungo viale che lo separava dalla casa padronale. Sull’uscio lo attendeva don Nicola.

Buongiorno don Nicò, come state?

Staiu bboni Gino, vo’ nu bicchieri e vino?

La sera era arrivata. I fuochi d’artificio stavano per iniziare. Tutto il paese era accorso per poter ammirare lo spettacolo pirotecnico che avrebbe chiuso i festeggiamenti della giornata. C’era don Nicola, con i capelli tagliati e pettinati all’indietro, accompagnato dalla moglie, che indossava uno splendido abito a vita stretta e gonna ampia e lunga che arrivava alla caviglia, lasciando in vista le scarpe appena riparate. Il trucco pesante era abbinato a gioielli raffinati, orecchini pendenti ed una collana di perle. C’era Carmelo, che s’era appostato nei pressi di Annuzza, la quale però chiacchierava allegramente con le amiche, fingendo di non averlo notato. C’erano i danesi, curiosi come sempre, accorsi per vedere come questi meridionali idolatravano i loro Santi protettori. C’era donna Rita e c’erano il brigadiere Santoro e l’appuntato Scalzo, in borghese. E c’era Elvira, arrivata insieme alle sorelle Concetta e Rosina, e al cognato, Vincenzo. Tutti i figli, tranne Giovanni, erano con loro.

Clara, guardandosi attorno, riconobbe Sophie, la bimba danese che abitava vicino a loro. Era cresciuta, anche se ancora non camminava. Aveva gli occhi chiari e i capelli biondissimi. Ogni volta che la vedeva le tornava alla mente l’inverno passato, quando durante una nevicata vide i genitori metterla sul balcone, a pancia in su sopra un tavolino. Faceva molto freddo. La bimba agitava le gambine e le braccia, apparentemente a disagio per quella sensazione che, per lei, doveva sembrare insolita. Ma non piangeva. Le aveva dato l’impressione che, gradualmente, si stesse abituando al freddo, mentre i fiocchi di neve le bagnavano il viso e gli occhi. Clara aveva chiesto alla mamma se anche lei fosse stata messa fuori dalla finestra durante una nevicata, quando era piccola. No, le rispose la madre. Clara aveva concluso che, allora, doveva trattarsi di un’usanza dei danesi. 

Vennero sparati i primi fuochi d’artificio e dalla folla si levarono grida di gioia. I bambini, con il naso all’insù, guardavano estasiati. Nel cielo notturno, i fuochi iniziarono a danzare come stelle cadenti. Scintille di luce esplodevano in un abbraccio di colori. In lontananza, agli scoppi di Sartano, facevano eco quelli del capoluogo Torano, poco distante in linea d’aria, esplosi dal papà Gino. Le scie luminose tracciavano sentieri immaginari sulla tela notturna. Un balletto di luci e ombre, in cui ogni esplosione faceva rimbalzare il cuore nel petto degli spettatori, specie se piccini. 

Clara, nonostante fosse rapita dallo spettacolo, riuscì a trovare il tempo di scrutare rapidamente i fratelli. Li passò in rassegna ad uno ad uno, controllando che ci fossero tutti. Lo faceva spesso. Solo guardandoli in faccia riusciva a capire se fosse tutto a posto. Aveva sviluppato un senso di protezione verso di loro che non l’avrebbe mai abbandonata, nemmeno da adulta. Rosa teneva in braccio il più piccolo, Francuzzo, che avrebbe ereditato dal padre la passione per la musica. Chi lo avrebbe mai detto? Rosa, invece, sarebbe stata l’unica a portare al nord un po’ di Calabria, con i suoi dolcissimi turdigghi e i maccheroni fatti cu ‘u filu di ferru. Immacolata, invece, la Calabria l’avrebbe proprio dimenticata. Che a sposare uno di Sartano non ci pensava proprio. Lina, che sarebbe per sempre rimasta la più piccina, stringeva forte la mano del fratello maggiore, Mario, che non vedeva l’ora di aiutare anche lui suo padre al lavoro. Ida, con gli occhi fissi verso l’alto, era assorta nei suoi pensieri. Si immaginava come sarebbe stata da adulta, forse indipendente e con una sua famiglia. Magari qualche figlio. 

Elvira, invece, proprio non riusciva a godersi lo spettacolo. Ad ogni scoppio si immaginava il suo Giovannino che si allontanava dal mortaio, dopo aver dato fuoco alla miccia. Pregava in silenzio che non gli accadesse nulla. Non vedeva l’ora che i botti finissero. 

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Massimiliano De Rose
Sono ingegnere con una lunga esperienza nella progettazione e direzione di opere pubbliche, dove unisco competenza tecnica e attenzione per l’innovazione. Nel corso degli anni ho collaborato con enti e amministrazioni, partecipando come relatore a convegni dedicati alla sostenibilità, all’etica e al rischio idrogeologico. Oggi sono impegnato in un progetto sull’impiego di sensori biometrici per il monitoraggio delle risposte umane e lo sviluppo di nuove forme di interazione uomo-macchina. Sono autore di romanzi e racconti e ho avuto la fortuna di ricevere alcuni riconoscimenti letterari. Sono anche un grande appassionato di sport: pratico ciclismo e ho allenato squadre di futsal, sia giovanili che nazionali. La mia attività professionale e personale è guidata da interesse per la tecnologia, lo sport e la comunicazione come strumenti di crescita e relazione.
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