Non so quante volte alle nove di sera gli ho domandato: «Papà, dove vai? È sera, perché non rimani ancora qui con noi a giocare?».
Sapevo cosa mi avrebbe risposto, ma i miei soldatini messi tutti in fila per l’occasione aspettavano che qualcuno li buttasse per terra simulando un bombardamento, e lo specialista di turno era mio padre, il mio eterno compagno di giochi.
«Non posso, devo andare a lavorare.» E i suoi occhi, sempre belli e luminosi, si riempivano d’amore per noi e si inumidivano immediatamente. «Però tieni i ranghi compatti. Mi sa che il bombardamento stavolta sarà fatto più avanti, anzi, penso proprio che i nemici passeranno con i lanciafiamme!»
I lanciafiamme! pensavo.
Voleva dire che sarebbe passato poi con l’accendino strinandomene qualcuno, io avrei strillato come un ossesso e mia madre ci avrebbe sgridati entrambi (come al solito), trattenendo a stento una sana risata.
Ma ora doveva andare e il suo modo per “scappare” era arruffare i capelli miei e di mia sorella e dare un bacio con relativa palpata di sedere a mia madre.
Io non giocavo quasi mai a lungo, anzi, spesso andavo a letto presto. Non tanto perché fosse una regola di casa, ma perché sapevo che in questo modo le ore sarebbero passate veloci e che al mattino lo avrei rivisto.
E così verso le sei io ero inevitabilmente sveglio, sperando che la porta della mia camera si aprisse, come ogni volta.
Dopo quella lunga e interminabile attesa, vedevo mio padre sospingere lentamente la porta della camera e riporre la giacca il più delle volte bagnata dalla pioggia – una giacca verde militare – e l’immancabile colbacco russo, un vecchio regalo che lo accomunava a tutti i “compagni” di lavoro e non.
Io naturalmente ero sveglio, ma facevo finta di dormire.
Non chiedetemene il motivo, anche ora me lo domando: forse perché così quei momenti mi sembravano più magici e forse perché non volevo che pensasse che io fossi sveglio per colpa sua.
Poi lui si avvicinava e cominciava ad accarezzarmi la testa. Quelle mani così grosse, callose e forti quando mi toccavano i capelli erano di una leggerezza e di una sensibilità inimmaginabili. A stento mi trattenevo dal saltare su e abbracciarlo, ma volevo che continuasse così per sempre.
E mentre mi accarezzava, io inspiravo, profondamente.
Odorava di fumo, di acciaio, di sudore misto a fatica (ancora adesso se chiudo gli occhi posso sentirne il profumo) e io l’amavo per questo, anzi, lo adoravo.
Poi scompariva nella sua camera e sapevo che l’avrei rivisto solo nel tardo pomeriggio, quando sarei tornato a casa da scuola.
Ma ciò mi bastava. Era un piccolo rito, sì, ma per me era il modo migliore di cominciare la giornata, la mia giornata da bimbo.
Ancora non sapevo quanto in futuro quel momento mi sarebbe mancato.
IL RISVEGLIO
Quel giorno era cominciato come tanti altri prima.
La sveglia, puntuale come un assassino, era suonata alle sei. La stanza era ancora buia e dalla tapparella semichiusa filtravano i primi timidi raggi di sole della tiepida e imprevedibile primavera modenese.
I trilli continuarono imperterriti, finché una mano sbucata dalle lenzuola abbatté la sveglia con un colpo degno di un karateka.
«Vaffanculo!»
Era la solita frase con cui Stefano inaugurava la giornata lavorativa.
Al suo fianco, Barbara, la sua compagna. «Sveglia, amore… Su, possibile che non riesci a dire altro la mattina?»
Dalle lenzuola provenne un grugnito e la faccia di Stefano sbucò da sotto il cuscino.
«Perché, perché non ho sposato una donna ricca che mi può mantenere?»
«Be’, a dire il vero,» replicò lei «noi non siamo sposati e perciò sei ancora in tempo…»
«E chi trovo che mi sopporti?» mormorò lui sorridendo. «Meglio tenerti buona…»
Detto questo si scrollò di dosso le lenzuola e si avviò verso il bagno. Si mise davanti allo specchio, con i palmi delle mani appoggiati al lavandino.
«Eccomi qua, nello splendore del mattino: trentacinque anni, un appartamento da pagare con un mutuo decennale, una compagna fantastica e brontolona, un lavoro tutto sommato dignitoso anche se non propriamente artistico…»
Dalla camera una voce. «Stefano, parli da solo o sei semplicemente impazzito?»
«L’uno e l’altro… Anzi, parlo da solo proprio perché sono completamente impazzito!» urlò Stefano, mentre continuava a guardarsi allo specchio del bagno. Poi mormorò: «Buona giornata… di merda».
La colazione era la solita: tè per lui e caffellatte per lei, il tutto accompagnato dall’immancabile torta allo yogurt, manicaretto essenziale e sublime di cui Barbara andava fiera.
«Sei pronto per affrontare quest’ultimo giorno della settimana?» chiese lei sorridendo.
«Eh sì, l’unica consolazione è che per i prossimi due giorni potremo riposarci».
«Se non decidiamo di andare al mare» si affrettò a puntualizzare lei.
«Al mare, in montagna, in mezzo alla via Emilia… Qualunque luogo che non sia quello di lavoro è riposante. Non sei d’accordo?»
«Sì, come al solito hai ragione.» E gli diede un bacio sulla guancia. Poi, guardando l’orologio: «Ehi, dobbiamo andare! Sono le 6:35 e se ritardiamo altri cinque minuti sai quando arrivo a lavoro? Mai più!».
Si vestirono in fretta e furia e poi, una volta usciti, si salutarono velocemente salendo nelle rispettive auto e partendo in direzioni opposte.
La giornata era appena cominciata.
VERSO IL LAVORO
Il volume della musica all’interno dell’auto era assordante. I rintocchi della campana di Hells Bells degli AC/DC erano di parecchi decibel superiori a qualsiasi altro rumore nel raggio di chilometri.
Stefano, alla guida della sua Punto, viaggiava con la solita tranquillità – la guida da zio, come la chiamava la sua compagna –, cantando a squarciagola. Non amava guidare velocemente e questo era uno dei motivi per cui la mattina partiva presto. Non voleva correre, e quando ne era costretto si innervosiva in maniera ciclopica, con evidente alterazione del suo carattere solitamente mite e tranquillo.
L’unica sregolatezza che si concedeva in auto era, appunto, la musica, che veniva sparata a tutto volume, senza alcun ritegno. Dato che solitamente ascoltava rock o heavy metal, il frastuono era totale e comunque facilmente intuibile da chi stava fuori e vedeva una macchina tremare con alla guida un pazzo con i capelli lunghi che scuoteva febbrilmente la testa.
«Vai, Angus! Dacci dentro con la chitarra!» cantava urlando, mentre gli assoli e i riff dei fratelli Young scuotevano la poca aria all’interno dell’abitacolo.
Hell’s bells
Yeah, hell’s bells
You got me ringing hell’s bells
My temperature’s high, hell’s bells…
La campagna della provincia modenese scorreva velocemente ai lati della strada e Stefano, pur mimando assoli di batteria o schitarrate esagerate, coglieva ugualmente con lo sguardo ogni sfumatura, ogni campo coltivato, ogni casa colonica abbandonata. Tutto quello che rappresentava progresso o modernità veniva scartato a priori dai propri sensi, quasi come da un sensore automatico.
Amava il tragitto che lo portava al lavoro, e per un motivo molto semplice: in quella mezz’ora aveva la possibilità di perdersi nei propri pensieri senza dover concentrarsi per forza su qualcosa di specifico; questi potevano fluttuare liberamente in ogni dove, in ogni angolo della sua mente, dato che la guida era automatica.
E così, mentre davanti ai suoi occhi passavano campi e campi, lui si vedeva ora sdraiato sotto a un albero in una giornata d’estate, ora in una stalla ad accarezzare una mucca, ora seduto in mezzo a un prato a leggere un libro e a godersi le fusa di un gatto.
Poi arrivava il momento di attraversare il fiume Panaro.
Il vecchio ponte lo affascinava. Ancora conservava la foto della nonna sorridente davanti alle quattro gigantesche torri che prima della guerra vegliavano il fiume a ogni lato del ponte Sant’Ambrogio. Durante l’ultimo conflitto mondiale una bomba se le era portate via e nessuno si era preso la briga di ricostruirle. E così una piccola parte della storia degli avi della sua famiglia era scomparsa per sempre, pensava con suo rammarico, quasi come fosse colpa sua.
Questo era anche il punto di partenza dei suoi lunghi giri del sabato mattina in mountain bike. Parcheggiava sotto il ponte, indossava casco e scarpette ciclistiche, gonfiava le ruote e poi via, scappava seguendo l’ansa del fiume fino ad arrivare ai primi paesi della collina, Vignola in testa, per poi attaccare l’Appennino. Trascorreva ore e ore da solo pedalando e faticando; lui soleva dire che la bicicletta era l’unico modo per fargli fare fatica divertendosi.
Ma la mattina i suoi pensieri in cima a quel ponte duravano solo pochi attimi…
Poi arrivava in città.
Al cartello di Modena il suo umore cambiò radicalmente. Già, lì iniziava la città e di conseguenza anche lo stress, le code, i casini quotidiani e il lavoro. Lì i pensieri si interrompevano bruscamente lasciando il posto all’istinto omicida dell’uomo al volante in un centro abitato.
Al primo semaforo trovò il solito extracomunitario: un simpatico senegalese che attendeva che qualcuno si facesse pulire il vetro in modo da avere in cambio qualche moneta e anche, forse soprattutto, una parola, uno scambio di calore umano sempre più raro nella società odierna.
«Ehi, amigo, vuoi pulire il vetro?»
Stefano abbassò il finestrino e allungò una manciata di euro al ragazzo. «Tieni, amico, il vetro è a posto, me lo pulirai la prossima volta.»
«Grazie, grazie, buona giornata.»
«Anche a te.»
Un colpo di clacson provenne dalla macchina dietro, così Stefano abbassò il finestrino e urlò all’indirizzo del guidatore: «Ehi, stronzo, il clacson ficcatelo su per il culo… Se hai così tanta fretta, fai come me, parti prima al mattino!».
Poi ripartì in sgommata in mezzo all’ilarità del senegalese, che applaudì divertito dalla scena.
I suoi pensieri ripresero vigore. Cretino! Non capisco il perché di tutta questa fretta. Se ci agitiamo e corriamo, arriviamo prima alla morte e io, sinceramente, vorrei arrivarci il più tardi possibile e magari anche bello riposato. Ti immagini che faccia farebbe la stronza con la falce se le dicessi: “Ah, eccoti, bastarda! Sai, è stata una noia aspettarti e ho un così grande sonno”? Le sbadiglierei rumorosamente in faccia e le chiederei: “Ma dove cazzo sei stata finora?”. Sono convinto che tornerebbe indietro e mi lascerebbe lì!
Intanto era arrivato nei pressi di un’edicola; non di una qualsiasi, ma quella del suo amico Andrea. Ogni tanto, a seconda dell’umore o dell’ispirazione, si fermava a comprare un quotidiano. Quello molto probabilmente era un giorno di ispirazione, infatti accostò.
Quando lo vide, Andrea sorrise.
«Ehilà, Stefano, come butta?»
«Bene, questo venerdì mattina è partito meglio del solito. Nonostante ieri sera abbia fatto un poco tardi, il risveglio almeno non è stato assolutamente catastrofico.»
«Meglio del solito? Ma guardati, sembri uscito da un frullatore!»
«Sì,» rispose Stefano «di solito mi alzo che sto di merda, oggi invece sto solo da schifo!»
I due si misero a ridere fragorosamente attirando l’attenzione delle persone che si trovavano nelle vicinanze, curiose di sapere cosa ci fosse di tanto divertente alle sette del mattino.
Andrea riprese la parola indicandosi gli occhi: «Guarda qui, non ti sembrano due braci?».
«Troppe canne ieri sera, eh?»
«Ma va’ a cagare!» Poi abbassando il tono… «Ieri sera è venuto Gigi il punk, è appena tornato dall’Olanda con un carico di… qualità. Dovresti provarlo, ma tu non fumi, sei fuori di tuo. Beato te che risparmi e vai solo a seghe e Lambrusco…»
Poi prese il quotidiano della città e lo gettò addosso a Stefano. «E dimmi, che si dice in ditta?»
«Le solite puttanate. Soldi non ve ne diamo perché c’è la crisi, e bla bla bla. Non riesco proprio a capire: se vendiamo trattori, dicono che i soldi li reinvestono e perciò non vediamo un euro; se non li vendiamo, allora c’è crisi e perciò nessun euro neanche così. Sinceramente mi sembra che i nostri imprenditori siano una bella manica di stronzi…»
«Eh sì, triste vicenda. A volte anche a me viene voglia di mandare in culo tutto, l’edicola, gli amici, e poi scappare…»
«Sì, ma per andare dove?» gli fece eco Stefano. «All’estero? In questo modo anche tu diventi un esule, un extracomunitario, e di questi tempi mi pare di capire che non convenga molto, in nessuna parte del mondo. Oppure rimani in Italia? Vendi l’edicola e poi vai a lavorare da un artigiano che ti pagherà poco e ti farà sputare sangue? Be’, ti dico che io preferisco stare dove sono. E poi, a dire la verità, il mio lavoro non mi dispiace.»
«Sì, hai ragione. Il problema vero è che siamo attorniati da teste di cazzo.»
«La mamma dei cretini è sempre incinta, no?»
A questo punto i due si misero a ridere nuovamente e si diedero il cinque in stile rapper.
«Sei un bastardo, ma proprio per questo mi sei simpatico» urlò Stefano.
«E tu sei un capellone e un metallaro di merda, e per questo motivo ti parlo volentieri!» gli fece eco l’altro. Poi indicando la macchina di Stefano, dalla quale usciva il frastuono della musica: «AC/DC, eh? Hells Bells. Album Back in Black, anno 1980. Cazzo che album!».
«Eh sì, oggi sono in vena di ascoltare il lontano ruggito dei dinosauri.»
«Alla faccia dei dinosauri!»
«E se domani arrivassi con i Metallica, tu che ne dici?»
Andrea roteò gli occhi al cielo e poi urlò guardandosi intorno: «Sì, sì, i Metallica! Vieni con Kill’Em All, che è il mio album preferito!».
«Col cazzo! Il migliore è Ride the Lighting!»
«Ma fammi il piacere! Vuoi mettere la potenza di Seek & Destroy?»
«E tu vuoi mettere il riff di For Whom The Bells Tools?»
Andrea chiuse gli occhi e mimò un chiaro gesto di autoerotismo. «Mmhh.»
«Ok, ho capito, domani Anthrax e così sia! Direi di ciucciarci Spreading the Disease, alla faccia di chi ama la tecno!»
«Amen.»
Stefano si allontanò dall’edicola sorridendo e una volta in macchina mostrò il dito medio all’amico.
«Buona giornata!»
«Crepa!»
E aprì il giornale.
Alessandra Marangio (proprietario verificato)
Non è il primo libro che leggo di Stefano. In questo suo ultimo lavoro ritrovo una sua caratteristica che rende la lettura appassionante. Lasciatevi trasportare dalla narrazione che si fonde tra biografia e romanzo… il confine è così sottile che non capirete più dove realmente siete…vi renderete conto che non vi sta raccontando la sua vita ma piano piano sta entrando nella vostra…. un susseguirsi di emozioni ..un vortice di sentimenti… complimenti Stefano, ogni volta che termino la lettura di un tuo racconto spero che presto ne arrivi un altro!
Gianluigi Pagani (proprietario verificato)
“Un amico caro organizza una raccolta fondi metodo Bookabook per pubblicare un libro. “Ma certo…”, gli rispondo, più che altro per fare un piacere a lui. La scorsa settimana mi è arrivato il volume e, cappero, è proprio un bel libro. Ho fatto bene a sostenerlo. Racconta una storia di vita vera, con un bello stile facilmente leggibile, e con tante persone che assomigliano a quelle del mio paese. Forse i nomi sono diversi, ma i caratteri e i personaggi sono uguali. Il tutto nel miracolo economico italiano del primo dopoguerra. Bravo l’autore che ha scritto il libro non con la penna ma con il cuore… nel ricordo di un amato papà, alle sei di mattina, con la giacca militare verde ed il colbacco russo.
Teresa Morisano (proprietario verificato)
Di scorrevole lettura, fa rivivere intensamente un tempo ormai passato, descrivendolo perfettamente ed esaltandone l’autenticità. Storie vere, intrinseche di emozioni che riportano il lettore proprio lì dove l’autore vuole che sia. Consigliato!!!
Maria Antonietta Rea (proprietario verificato)
“Secco, diretto”, letto in un sorso, agile, veloce, duro, vero, giusto, profondo, tenero, nostalgico, commovente, necessario come una medicina amara, testimonianza per non dimenticare, eternare per amore, affetti e un mondo scomparso che il nostro tempo pare aver rinnegato.
Donatella (proprietario verificato)
Grazie di questo racconto che testimonia di un passato degno di essere ricordato, perché luogo delle origini, degli affetti e degli insegnamenti. Un racconto ricco di suoni, colori, odori, parole, azioni, gesti e persone che mi hanno tanto emozionato per la loro autenticità. Consiglio vivamente di leggere il romanzo, per ricordare quello che e’ stato e perché le storie altrui ci arricchiscono e in qualche modo ci appartengono. Complimenti all’autore, grazie!
Giovanni Sonego (proprietario verificato)
Ma se raggiungiamo prima l’obiettivo, il libro arriva prima? Magari in settembre invece che in novembre?