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Acqua e luna

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Consegna prevista Dicembre 2023

“…ora eravamo rimasti soli, io dolorante e lui, colmo di rabbia, in ginocchio difronte a me, in una posizione innaturale ringhiandomi contro…”
Credere alla razionalità o lasciarsi sopraffare dalla paura: in un tetro paese del centro Italia degli anni trenta qualcosa sconvolge la vita di tutti i giorni. Tutti sanno di cosa si tratta ma nessuno ha il coraggio di rivelare cosa sia. Alcune cose accadono e nessuno può fare altrimenti… sino a quando i racconti di creature notturne non prendono forma e iniziano a spingersi nelle strade e nei vicoli del piccolo borgo, la cui unica difesa è la locale caserma dei Carabinieri Reali.

Perché ho scritto questo libro?

Scrivere questo libro è stato come rivivere le fasi della mia infanzia quando, i racconti delle persone anziane sui fatti misteriosi che gli erano accaduti, terrorizzavano i miei sogni. Nonostante ciò non mi era possibile farne a meno, dovevo conoscerne tutti i dettagli.

ANTEPRIMA NON EDITATA

1.

Tutti noi conosciamo storie strane di paesi antichi, dove tutto quello che altrove è inverosimile, diventa realtà. I custodi di questi racconti sono spesso vecchi, usualmente ignoranti, eppure…eppure i loro occhi non mentono, la loro voce è chiara, nitida come i ricordi che la accompagnano.

Chi racconta questi avvenimenti non teme di essere schernito perché quello che viene detto lo sanno in molti; altri hanno vissuto la stessa esperienza ma la troppa paura non li fa esporre. E’ inutile domandare oltre quanto raccontato perché di più non si sa, trovare giustificazioni plausibili senza la consapevolezza che l’essere umano è limitato nei sensi e nella percezione di dimensioni metafisiche.

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Ci si può spostare di centinaia di chilometri da nord a sud, da est a ovest, valicare confini regionali e addirittura nazioni; possono cambiare i termini linguistici e qualche sfumatura culturale, ma i contenuti sono pressoché identici. E allora mi domando, è solo frutto di ignoranza e superstizione oppure qualcosa di vero c’è?… e ancora, quanto corrisponde a verità e quanto è frutto della paura? Perché la scienza non si è mai confrontata con queste oscure ed inquietanti manifestazioni, spesso denigrandole e classificandole come fantasticherie popolari.

È sufficiente dichiarare un fenomeno non vero solo perché non è stato correttamente immortalato? Non si vede quindi non esiste? Neanche le onde sonore sono visibili all’occhio umano eppure la maggior parte delle persone sa che un suono si propaga nell’etere attraverso onde invisibili. Pensiamo alla capacità dei non vedenti di percepire ostacoli senza ausilio di mezzi meccanici attraverso un senso non ancora identificato! Quante persone richiamano il sesto senso per intuizioni e percezioni non spiegabili altrimenti?

Viviamo in un modo materiale, costretti in un corpo materiale ma non siamo solo questo, una parte di noi, la più autentica, è fatta di energia immateriale: ci affidiamo sempre più spesso ai cinque sensi organici tralasciando i sensi spirituali che in ere lontane erano alla base della sopravvivenza dell’individuo.

Se accantonate per un attimo i costrutti del mondo attuale e vi abbandonate al sentire dell’anima, forse vi sarà possibile accettare ciò che racconterò in seguito, magari non riuscirete a formulare una tesi al riguardo, come me del resto, ma avrete una questione su cui riflettere con la consapevolezza che tutto ciò che leggerete corrisponde a fatti realmente accaduti e da me vissuti, mai divulgati ufficialmente per volere di altri, timorosi del giudizio altrui.               

2. Febbraio 1930.

Ricordo molto bene il febbraio del 1930, mentre con un treno regionale mi addentravo nel cuore della Lucania, terra a me sconosciuta, quasi straniera. Nel mio stesso vagone, riservato all’intera compagnia dei Reali Carabinieri, altri commilitoni, provenienti da zone diverse dell’Italia, scrutavano il paesaggio ricoperto dalla neve.

In molti tacevano, forse per la stanchezza del trasferimento, forse per la tristezza di aver lasciato qualcuno a casa …. ma per me era differente; ero impaziente di arrivare a destinazione e finalmente iniziare a lavorare, non importava dove, perché ero sicuro che sarebbe stata un’avventura comunque. Io che provenivo da una città come Firenze trovavo interessante sperimentare altre realtà. Sognavo, in fondo al mio cuore, l’Africa del Nord, ma la mia assegnazione, un piccolo sperduto paese di montagna, se pur meno esotica, non appariva meno audace del deserto libico. Nel 1930 eravamo tutti italiani ma valicare un confine regionale voleva dire ritrovarsi comunque in una terra straniera, con una lingua sconosciuta parlata da estranei. Qualche minuto prima di ogni fermata, il Brigadiere, aggraziato come un trombone, urlava il cognome dei carabinieri arrivati al Comune di assegnazione; più il treno si addentrava tra boschi e montagne, più i paesi erano piccoli; più i paesi erano piccoli meno carabinieri scendevano dal convoglio. Sul mio foglio di viaggio c’era scritto “Comando Stazione Reali Carabinieri di Rioscuro” e, per non perderlo, lo avevo ripiegato con cura nel Libretto del Militare, controllando di tanto in tanto se fosse ancora lì. Man mano che passavano le ore, gran parte della compagnia era giunta a destinazione, tanto che i pochi rimasti godevano dei posti lasciati liberi, stendendo le gambe rattrappite dalle troppe ore trascorse in treno; qualcuno si era abbandonato ad un profondo sonno, altri avevano lo sguardo perso nel vuoto. In quell’atmosfera surreale che sembrava non avere una fine, come un tuono a ciel sereno, sentii chiamare il mio cognome: “Carabiniere Rossini! Pronto a scendere, di corsa!”. Era la aggraziata voce tonante del Brigadiere che annunciava il mio arrivo alla stazione di Rioscuro.

Il treno rallentò considerevolmente e mi apprestai a prendere il mio borsone con la massima celerità possibile. In fretta scavalcai gambe e borse, salutando chi incrociavo nel treno; il Brigadiere era in fondo al vagone, sempre impettito, con il suo sguardo disgustato. Poggiava sempre la mano sinistra sulla fondina di cuoio come se stesse per affrontare un bandito, senza rilassarsi mai. Giunsi davanti a lui che era quasi appoggiato con la schiena alla porta della carrozza: “Ricordati di consegnare il foglio di viaggio in caserma, presentati come si deve, e almeno fai finta di essere un vero carabiniere…sembri uno scolaro il giorno della recita, maremma boia!”, così mi salutò prima che potessi rispondere “comandi”…

Il convoglio era quasi fermo ma dal finestrino della porta non si vedevano né case né fabbricati, solo alberi appesantiti dalla neve. Finalmente il rumore stridente dei freni si vece più intenso e il paesaggio smise di scorrere; aprì la porta e un’aria gelida mi investì il viso e il corpo.

Lanciato il borsone a terra, scesi gli scalini di metallo per poi affondare gli stivali nella neve. Mi sistemai frettolosamente il cappello, una controllata veloce alla fondina e già un fischio preannunciava la ripartenza del treno. Mi spostai di qualche metro dai binari e guardai i miei compagni continuare il loro viaggio, troppo stanchi per fare anche un cenno di saluto con la mano.  Voltatomi, mi accorsi che la stazione di Rioscuro altro non era che un piccolo fabbricato in pessime condizioni, apparentemente abbandonato. Mi avvicinai scoprendo che si trattava di un unico locale con al centro due panche di legno, il solo arredamento un orologio a parete che segnava le 11:50. Tutta la notte passata in treno, dormendo poco e scomodamente iniziava a farsi sentire e per di più non avevo la più pallida idea di come raggiungere la Stazione dei Carabinieri. Poco oltre il caseggiato, che fungeva da stazione, vi era una strada pianeggiante, senza alcuna segnaletica, solo alberi e neve. Quale direzione percorrere quindi? Del paese non c’era traccia, nessuna persona in vista, solo queglialberi ricoperti di neve e un silenzio surreale.

Decisi di dirigermi a monte appesantito dall’enorme borsone, con la neve e il ghiaccio che scricchiolavano sotto di me; percorsi pochi metri, la strada svoltava a destra e si intravedevano tracce di carri sul manto bianco. Doveva aver nevicato tutta la notte perché non vi erano impronte di persone o animali, poi, all’improvviso, un uomo e un mulo mi vennero incontro.

Aggiustai la mia postura, come si conviene ad un militare, e a voce alta e squillante pronunciai il “Buongiorno!”. L’uomo di mezza età non sembrò molto colpito né dal mio atteggiamento né dal mio tono di voce e si limitò a toccarsi con due dita il berretto di lana. Ritentai chiedendo la strada per la caserma dei Carabinieri di Rioscuro e l’uomo, con aria garbata e molto formale, mi indicò la direzione da prendere. Pronunciò anche una frase di cui, però, non saprei riportarvi le parole esatte, ma riuscì facilmente a capire che distava meno di dieci minuti a piedi. Ringraziai e salutai e lo vidi andare via in compagnia del suo animale da soma, avvolto in un pesante cappotto. Ripresi la marcia e dopo pochi minuti ebbi la vista di Rioscuro, un paesino su una piccola collina, alle cui pendici scorreva un torrente; sopra i tetti delle case, tutti i comignoli fumavano vistosamente, anche perché il freddo era veramente intenso. Dalla mia prospettiva, sembrava un presepe, con le casette in pietra e i tetti in tegole di terracotta. Un campanile si ergeva al centro delle case e sulla vetta, per metà coperto dalla neve, un grosso crocifisso brillava al riflesso del sole.

“Eccomi qua” pensai e mi avviai verso l’abitato.           

                   

3.

La stazione dei Reali Carabinieri di Rioscuro era situata proprio nel centro del paese, in piazza S. Lucia, la piazza principale ove era anche ubicata l’omonima chiesa. Proprio davanti la caserma si svolgeva la socialità degli abitanti che conversavano seduti al caffè o fumavano sulle panchine di legno dei marciapiedi. Dato il periodo dell’anno e il freddo pungente, le persone passavano poco tempo all’aperto e quasi esclusivamente nelle ore centrali della giornata. Paradossalmente la caserma aveva una convenzione con una osteria chiamata “Brigante”, che forniva pranzo e cena ai militari; io e quello che sarebbe divenuto il mio amico e collega fidato Brunetti eravamo soliti pranzare e cenare insieme, anche perché eravamo gli unici giovani in divisa del posto. Infatti, oltre a noi due carabinieri, la Forza pubblica era formata dal Comandante della Stazione, il Maresciallo Breda e l’Appuntato Greco. I due sottufficiali erano del posto, sposati e con figli, invece io e Brunetti eravamo stati mobilitati a Rioscuro per dare ausilio a due carabinieri troppo anziani per i servizi più gravosi. Il Maresciallo era uomo di grande esperienza e Brunetti mi raccontò che aveva partecipato a numerose battaglie, persino alla Grande Guerra. Una vistosa cicatrice sotto il mento e mal nascosta dalla barba bianca ne era la prova; la storia vuole che a procurargliela fu un austriaco con un colpo di baionetta durante una carica. Il Comandante Breda era un uomo di poche parole ma mai sgarbato, anzi, alcune volte guardava me e Brunetti come fossimo stati figli suoi. Non potrei dire altrettanto bene dell’Appuntato Greco, che non faceva altro che urlare e addossare la colpa dei suoi errori su me e Brunetti. Greco avrà avuto all’incirca quarant’ anni e penso fosse anche un bell’uomo: poiché la moglie e i figli erano di un paese lì vicino, spesso pernottava in caserma, intrattenendosi sino a tarda sera con la signora che gestiva l’osteria, oppure trovando una scusa per sgattaiolare fuori dalla caserma per andare a comprare i sigari in un tabaccaio dove al banco vi era una donna nubile e molto bella. Tutte queste cose, compreso il gaio vivere del Greco,  me le fece notare Brunetti che si trovava lì dall’estate precedente; era veramente uno spasso sentire parlare Brunetti degli accadimenti del paese mentre imitava le voci e gli atteggiamenti dei vari personaggi. Come me, Brunetti, era un forestiero e veniva da un paese vicino Latina di cui però non ricordo più il nome; era un gigante buono, che esorcizzava la sua timidezza con battute e sciocchezze a raffica. Non so come avessero fatto a trovare una divisa della sua taglia; superava il metro e ottanta per un centinaio di chili. Beh! Almeno ci compensavamo perché la mia di divisa sembrava sproporzionata: infatti io ero magro come un chiodo e lui grassoccio come un suino.

Comunque nella Caserma non c’era molto da fare, al mattino pulizie o piantone all’ingresso, e nel pomeriggio si metteva a posto l’archivio. Di tanto in tanto, e soprattutto per togliercisi dai piedi, l’appuntato ci ordinava di fare pattugliamento appiedato in paese, così, per farci vedere in giro. Brunetti allora malignava subito sul fatto che l’appuntato, in assenza del Maresciallo, avesse invitato qualche donna nei locali della stazione. Durante questi giri di ronda nei vicoli del paese, Brunetti parlava in continuazione, azzittendosi solo quando incrociavamo un passante; io lo ascoltavo in silenzio divertito, anche se non credevo neppure ad una parola di quello che diceva.

Il suo racconto preferito riguardava un accadimento avvenuto in autunno, dove lui e l’appuntato dovettero eseguire un arresto di un bandito della zona. Il bandito si era nascosto sotto falso nome in una cascina nelle campagne sottostanti a Rioscuro. Nel suo racconto l’Appuntato sembrava terrorizzato dall’incarico, mentre lui era l’eroe dell’Arma: il risultato fu che il malvivente, vedendoli arrivare, si diede alla fuga scappando tra i boschi, e che se la cattura non fu portata a termine, la colpa era solo di Greco. “Mi ha trattenuto dalla bandoliera quel codardo, altrimenti l’avrei preso! Aveva una paura negli occhi che se l’avessi visto…”così diceva sempre, come se non si ricordasse di avermelo raccontato almeno altre cento volte.

Sentire Brunetti era uno spasso ma il freddo in quelle ronde era insopportabile. Le dita dei piedi mi si congelavano malgrado mettessi due paia di calze negli stivali.

Comunque se le giornate passavano con il mio amico sempre pronto alla battuta, le notti erano spesso solitarie. Sopra gli Uffici della stazione c’erano gli alloggi: una camera con camino per me e Brunetti e una più piccola, mai occupata, per il sottufficiale di turno. Dopo le sette di sera la stazione chiudeva il portone, Breda e Greco ritornavano dalle rispettive famiglie e io e Brunetti, con l’ordine di non aprire a nessuno, rimanevamo soli. Una cena abbondante alla locanda, un bicchiere di vino e Brunetti cadeva esamine lasciando a me il compito di alimentare il camino per la notte e controllare che il portone fosse ben chiuso.

Per qualche ora prima di prendere sonno guardavo fuori dalla finestra la piazza di S. Lucia dove la neve continuare a cadere; mi domandavo se era veramente quella la vita che mi aspettassi, se potevo osare di più…mah! Serviva veramente una Stazione di Reali Carabinieri a Rioscuro? Quando riordinavamo le carte dell’archivio non risultava poi una grande attività di contrasto alla criminalità; si e no il Maresciallo raccoglieva una denuncia a settimana per furto di prodotti e beni agricoli. Ogni tanto riceveva visite di quelli che Brunetti definiva spioni, ma tutte queste cose sembravano non avere un seguito, nessun accertamento, nessuna attività… col passare del tempo mi resi conto di sbagliare.

L’inverno lucano, con quel gelo da lupi, fermava anche i balordi, che rimanevano rintanati come animali sino a quando le temperature non divenivano sopportabili.

Ed invero tutto cambiò con l’arrivo della fine di marzo, quando anche il paese sembrò risvegliarsi dal letargo invernale. La neve si era trasformata in fango e bambini e i ragazzi gironzolavano per le vie. Non che a noi carabinieri fosse data molta confidenza ma, almeno, qualche cenno di cordialità nelle persone che si incontravano più spesso si intravedeva. Altri individui incrociati in quell’inizio di primavera erano rimasti chiusi tutto l’inverno, tanto da far sorgere il dubbio che non fossero residenti in Rioscuro.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Simone Bracci
Simone Bracci nasce a Roma il 29/10/1979 e qui risiede con la famiglia. Appassionato di attività outdoor e scienze esoteriche.
Curioso per natura si diverte a scrivere racconti e storie su qualsiasi argomento che nasconda un mistero.
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