Nel mondo si era diffusa una terribile pandemia. Un virus subdolo e insidioso aveva fatto il giro del pianeta, seminando morte e scompiglio.
«È passata» si sentiva ripetere ora. In realtà, dopo poco più di due anni dalla fase acuta, ancora si accendevano focolai qua e là, ma grazie ai vaccini prodotti e ad alcune terapie, sufficientemente efficaci, si riusciva a tenere il mostriciattolo sotto controllo.
Le cicatrici, però, erano ben visibili: bastava andare in visita a un cimitero e osservare la data dei loculi per accorgersi dell’ecatombe che c’era stata.
Ma molte altre ferite stentavano a rimarginarsi. Ferite profonde nel tessuto sociale, produttivo ed economico di quasi tutti i paesi. Più evidenti in quelli sviluppati, perché lì primae il dopo la pandemia apparivano drammaticamente differenti. In molti altri paesi del mondo, morire di un virus o morire di un altro non cambiava granché.
Il distanziamento fisico e sociale tra le persone, che per molti mesi era stata l’unica arma contro il virus, aveva generato effetti imprevisti e devastanti: tutti avevano forzatamente imparato a non incontrarsi, a non parlarsi, a non sfiorarsi, a cambiare strada e così avevano continuato a farlo, perché la diffidenza era diventata ormai un’abitudine. A volte, soprattutto con chi era “diverso”, la diffidenza si tramutava in intolleranza o addirittura odio.
La vita che conoscevamo prima era cambiata di molto. Purtroppo però, benché taluni avessero ipotizzato che la problemi assai più seri e contingenti di quanto non fossero le mie elucubrazioni sull’acqua. Comunque, portai a casa la mia laurea con un discreto punteggio finale.
Non ci fu modo di festeggiare, perché ogni attività che prevedesse l’assembramento di più persone era vietata. E sì che non era così scontato che riuscissi a ottenere una laurea, per di più in una disciplina ostica a molti. Le mie origini, infatti, erano abbastanza umili: provenivo da un paese di montagna nel bellunese ed ero il figlio unico di una guardia forestale e della sarta del posto. Con ogni probabilità, il mio futuro sarebbe stato quello di boscaiolo o al massimo, se mi fossi dato da fare nel seguire le orme di mio padre, di guardia forestale. Invece avevo una nonna materna che mi adorava e che al momento giusto mi disse: «Federico, sei un ragazzo riflessivo e intelligente; devi continuare a studiare per non sprecare queste tue doti. Non accontentarti, pretendi di più e fallo investendo nella testa che ti ritrovi».
Così, con grande sorpresa di chi mi conosceva, scelsi una disciplina di cui sapevo poco anch’io, ma che mi sembrava avvincente per il fatto che cercasse di dare risposte ai perché dell’universo a partire dagli elementi che lo costituiscono.
Dopo cinque lunghi anni, avevo ottenuto la laurea. Ma subito dopo avevo sentito il dovere di portare fino in fondo la scelta fatta sulla spinta dei consigli accorati della nonna e così, essendomi nel frattempo appassionato alla materia, decisi di proseguire gli studi con un dottorato di ricerca. Per farlo, guardai agli Stati Uniti, paese che era stato il sogno di intere generazioni di compaesani e che tornava a esserlo ora che la pandemia aveva minato le fondamenta della nostra povera nazione.
Che l’esigenza di un titolo di studio americano fosse nata dal desiderio di prolungare la felice condizione di studente che non deve prendere decisioni immediate per il suo futuro o invece di aprire la strada a un’attività nello studio e nella ricerca scientifica è difficile a dirsi. Fatto sta che avevo scritto a diverse università statunitensi, inviando il mio curriculum e altra documentazione che potesse risultare utile.
Devo dire che tutte mi risposero con cortesia, anche quando, come nella maggior parte dei casi, la risposta era un rifiuto. Nel nostro paese non si è abituati a tanta considerazione!
Tra le sparute risposte positive fui subito attratto da una in particolare, per un paio di ragioni molto semplici: la prima era che mi offrivano una posizione nel loro dottorato di Chimica fisica ambientale nel Dipartimento di Scienze della Terra, in quanto interessati a un lavoro innovativo sull’acqua. Dunque avrei avuto la possibilità di proseguire le mie ricerche. La seconda ragione era che la località dove avrei trascorso alcuni anni della mia vita si trovava in Colorado, su un altopiano proprio alle pendici dei rilievi montuosi che, poco più a ovest, diventano le Montagne Rocciose. Per un figlio di gente di montagna come me era un invito a nozze.
Così, da poco meno di tre anni, mi trovavo a Boulder, cittadina universitaria nelle vicinanze della capitale del Colorado, Denver, e mi preparavo a consegnare al mio supervisor la prima bozza del mio elaborato di tesi di dottorato, il cui titolo suonava in italiano più o meno così: Sulle proprietà misconosciute dell’acqua.
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