Cercavo di tenermi ancorato alla coscienza, anche se il buio stava già calando sui miei occhi, un’oscurità che mi attraeva, un oblio dal quale farsi avvolgere, per non sentire dolore, per non resistere più, per andare al tappeto e restarci.
Non erano passati che pochi minuti dal momento in cui ero entrato nel palazzo al preciso istante di quella bordata sul mio viso. Lo scontro con quel bestione che mi stava davanti era appena cominciato. Mi riattivai e tentai di reggermi in piedi. Il sangue pulsava nel viso, segno che ero ancora sveglio e presente in qualche modo.
La figura davanti a me sogghignò soddisfatto, in una smorfia terrificante. Ne era felice, avrebbe goduto nel pestarmi ancora per bene e mandarmi al creatore facendomi soffrire ancora un po’.
D’altronde era lì per questo, voleva farmi fuori, questo era il suo scopo.
Dopo un numero indefinito di secondi ringhiò: “Avanti detective, voglio vedere il bianco del tuo cranio “, mentre avanzava verso di me e la parete alla quale mi appoggiavo.
Dalle finestre dietro di lui filtrava qualche luce lontana di una notte di Novembre, antistante ad essa c’era una scrivania con sopra qualche foglio di carta ed un porta matite.
Anche se tutto sembrava muoversi al rallentatore, avevo pochi attimi per decidere ed abbozzare una strategia di lotta.
Partì con un diretto destro verso la mia mascella. Fui contento, perché la mia unica chance era barare e sfruttare tutto ciò che avevo a disposizione, altrimenti non avrei avuto scampo contro la sua enorme forza.
Mi abbassai più in fretta che potei ed il suo pugno si fracassò’ assieme alle sue nocche contro la parete, un centimetro al di sopra dei miei capelli. Nello stesso momento lo colpi con tutte le mie forze con un montante destro sotto la cintura tirato per rompere tutto ciò che potevo, compresa la sua virilità. Non ero tipo da colpi bassi, nemmeno nella vita, ma stavolta non potevo prendermi il lusso di seguire le regole.
Ebbe effetto e il bestione emise un gemito acuto. Non persi tempo e mi scagliai a peso morto su di lui, avvinghiandomi alla sua vita. La mia spinta riuscì a farlo finire sulla scrivania che, ribaltandosi, lo catapultò verso la vetrata alle sue spalle che attraversò mandandola in pezzi.
Volò fuori dalla finestra ma non precipitò.
Riuscì aggrappandosi con il braccio sinistro ad un infisso che poco prima costituiva il bordo ricoperto di gomma del finestrone mentre io arrestai faticosamente la mia corsa tenendomi alla pesante scrivania capovolta, strisciando sulla moquette. Sembrava incurante dei vetri che si conficcavano nella mano e nel braccio, la sua presa gli permetteva di restare aggrappato al bordo del finestrone anche con una mano sola.
Mi sporsi verso il vuoto, in piedi, sopra il bestione aggrappato al pavimento e a ciò che restava del finestrone. Mi guardò e capii che dovevo apparirgli come una figura terribile, mentre emergevo dall’oscurità alle mie spalle sporgendomi sopra di lui , con la faccia sporca di sangue e polvere e nello sguardo la voglia di ucciderlo.
Per un attimo sparì il ghigno dal suo viso. Trasalì di adrenalina. “Ti uccido detective! “ . Disse sputando bile e saliva. Nella sua mano libera, la destra che risalì dal vuoto, compiendo una traiettoria ad arco venticinque metri sopra il marciapiede, comparve un coltello serramanico molto lungo.
Lo lanciò, mirando al mio cuore.
Sono fesso, pensai.
Capitolo 1
Ogni Santi
Passai dall’ ufficio anche se era festa.
Milano dormiva ancora, via Turati era quasi vuota e potei parcheggiare con facilità sotto gli uffici della Ilda, l’agenzia investigativa per la quale lavoravo da qualche anno. Presi le scale ed arrivai al secondo piano. Lasciai la documentazione sul caso Rosselli, pratiche e carte del tribunale e tornai in strada, per prendere un caffè in piazza Cavour.
Il bar dove abitualmente andavamo con i colleghi dell’agenzia era aperto, con due avventori desiderosi come me di fare una veloce colazione, dare un’occhiata alle notizie adocchiando il giornale e poi perdersi nelle proprie faccende, anche se era un giorno di festa. Nel bar c’erano più persone che nell’agenzia che era deserta come Viale Zara in Agosto.
Il signore sui sessanta lasciò il giornale ed uscì, lo recuperai mentre mi avvicinavo al banco. Non è che credessi molto alla stampa, col lavoro che facevo sapevo bene che sulla stampa veniva data una versione stabilita di molti fatti, che doveva sempre combaciare con la linea editoriale, fondamentale per plasmare l’opinione di chi si voleva “informare”. Non erano bugie ma mezze verità, il che però non mi impediva di digerirle ogni mattina assieme alla prima colazione.
“Franco, sei qui anche oggi?”.
Esclamò Edo che già aveva messo in macchina il mio abituale caffè.
“Un salto veloce, dovevo portare dei documenti che Ferrini necessita già per domattina. In realtà il lavoro sarebbe già chiuso, con la cliente più che soddisfatta ma sicuramente più incazzata di prima. Ma almeno Ferrini mi farà dormire un’ora in più domani”.
Il faldone del caso era relativo ad un’indagine chiesta da una manager di una azienda Web statunitense che aveva una filiale a Milano. Ada Rosselli aveva finalmente avuto le prove delle scappatelle del marito con una studentessa che frequentava l’Università Statale di Milano in Via Festa del Perdono.
Mi era costata quasi una settimana di appostamenti, al mattino presto. La ragazza, una certa Federica Malafasi, era studentessa a tempo pieno, dedicava la sua giornata ai suoi studi, almeno in apparenza. Si recava quasi ogni mattina all’università. Aveva ventuno anni, sul metro e settanta abbondante, magra ma con tutte le curve al posto giusto, dai capelli ricci portati molto lunghi che le regalavano una chioma di lunghi boccoli castani, che la rendevano molto appariscente.
Aveva uno sguardo profondo, con occhi castano scuro, che scrutavano con una strana attenzione tutto ciò che appariva sulla sua strada, il che le faceva ostentare una particolare aria di sicurezza che le donava un fascino di cui era ben conscia.
Per alcune mattine mi ero appostato in un bar di Via Festa del Perdono, dal quale potevo vederla arrivare nella via antistante l’ateneo, pronto a seguirla, confondendomi tra gli studenti e facendomi passare per un assistente di qualche Professore con Cattedra, che normalmente era gente dai trenta ai quarant’anni.
Avevo scelto con cura l’abbigliamento più adatto, pantaloni di velluto marroni pull over grigio con camicia, occhiali da intellettuale. Una perfetta tenuta da assistente universitario, uno dei tanti. Nessuno badava a me.
La seguivo osservandola andare a lezione al martedì ed al giovedì in aula, mentre le altre mattine della settimana andava a studiare nelle biblioteche dell’Università. Mi ero concentrato su di lei dal martedì della settimana precedente quando seguendo l’auto del marito della Rosselli, ero arrivato proprio davanti all’Università.
Si era fermato davanti all’entrata principale dell’Ateneo e dopo qualche istante questa ragazza dai capelli ricci e castani era salita sulla sua auto. Sfortunatamente li persi di vista un chilometro dopo a causa di un tizio che era volato dallo scooter qualche auto dopo la mia, causando un tamponamento tra due auto e finendo lui stesso quasi investito da un’altra vettura, in corso di Porta Romana.
Ma la pista si era rivelata interessante e dal mattino seguente decisi di tenere d’occhio lei all’Università.
Una mossa che avrebbe ridotto di parecchio il rischio di essere scoperto dal signor Rosselli, cosa sempre possibile con pedinamenti continui.
Il pomeriggio seguente seguii Francesca dopo che uscì dalla Statale e scoprii dove abitava.
Per quasi una settimana vidi solo una normale vita da studentessa. Studio, qualche caffè con delle amiche, tennis. Verso sera mi tenevo attaccato a Rosselli. Lo aspettavo all’uscita dall’ufficio dove lavorava. Usciva ben oltre le sette di sera e tornava subito a casa, tranne in un ‘occasione quando prese un apritivo con un collega sotto l’ufficio.
Il martedì successivo, appostato nel bar di via Festa del Perdono vidi arrivare Federica come ogni mattina feriale, la seguii come le altre mattine con il mio look da assistente universitario fino all’aula della lezione e circa un’ora dopo la vidi ancora uscire dall’aula di lezione, andare verso l’ingresso dell’università, aspettare fuori per il tempo utile a fumarsi la solita sigaretta e poi salire sulla stessa auto del Rosselli, che era giunto al rendez-vous come la settimana precedente. Pista trovata e bollente, in tutti i sensi.
Il terzo martedì attesi già nell’auto in doppia fila, davanti all’ufficio postale, sperando di aver avuto ragione. Fui accontentato.
Appena Federica salì in auto, alle 9.50 spaccate e con le solite modalità, misi in moto la Peugeot 306 e li precedetti verso l’appartamento della casa di ringhiera dove viveva Federica Malafasi, in Corso San Gottardo. Fu complicato appostarsi senza essere notato da altri. Dovetti anche farmi passare per un paziente che cercava lo studio del dottor Alfieri, psicologo, quando il portiere filippino mi chiese chi cercassi. Mi ero tenuto questa scusa pronta, quando avevo scoperto dove viveva Federica, annotando l’informazione dalla targa in ottone di fianco al portone di entrata.
Attesi solo cinque minuti ed arrivarono.
Ero riuscito ad appostarmi sui gradini delle scale principali della casa di ringhiera, al terzo ed ultimo piano. Dalle pareti della tromba delle scale c’era un’apertura sui ballatoi, dalla quale potevo vedere e fotografare la porta di ingresso dell’appartamento di Federica.
Scattai foto che riprendevano la loro entrata nell’appartamento
Due ore dopo scattai foto di lui mentre usciva dall’appartamento e che si voltava a salutarla con un bacio inequivocabile sulla porta dell’uscio.
Era abbastanza per metterlo nei guai con la moglie, fui davvero fortunato. Non dovetti che risalire le scale che portavamo al tetto ed appiattirmi per un istante sulla rampa quando lui ridiscese al piano terra, per non essere notato. L’ascensore, come in molti di quei vecchi iconici caseggiati milanesi, non c’era.
La Rosselli era così riuscita ad ottenere il primo pronunciamento dal giudice che aveva concesso la separazione con addebito della stessa al marito. I Rosselli erano probabilmente una coppia finita, lei aveva trovato il modo di concludere come voleva, con l’addebito della separazione per provata infedeltà coniugale.
Come agenzia avevamo curato tutti gli aspetti, anche il ritiro dal tribunale degli atti, cosa di cui mi ero occupato passando dalla cancelleria del tribunale il pomeriggio precedente. Ora stava tutto sulla scrivania di Ferrini che l’indomani avrebbe ricevuto la cliente per chiudere la pratica. Con incasso dell’intera parcella.
Enzo Ferrini, il proprietario, mi avrebbe liquidato un bel premio.
Ferrini era stato commissario di PS a Parma fino a 15 anni prima, per poi arrivare a Milano ed aprire la sua creatura, l’Agenzia Investigativa Ilda.
Aveva condotto in Polizia operazioni importanti per reati finanziari, si era occupato anche di alcuni aspetti poco conosciuti del caso della bancarotta della Parmalat. Era stato un ottimo sbirro con un ottimo Curriculum. Quando rimase vedovo, decise di lasciare la polizia e trasferirsi a Milano e lanciarsi nel business delle agenzie private.
Finii il mio caffè leggendo le ultime righe di un articolo che descriveva un’operazione dei Carabinieri condotta a Firenze ed un ricordo risalì all’improvviso, negli occhi e nell’ udito della mente.
“lasciami Carabiniere Bastardo”
“Lo ammazzi Franco, lascialo”
Edo mi riportò al presente.
“Lavori troppo Franco”.
“I soldi mi fanno digerire tutto e mi fanno pagare i caffè e i panini che mangio qui, Edo”.
Gli risposi, mentre già stavo uscendo.
Capitolo 15
“Other side of the Town”
Sentivo il viso premuto contro una specie di tessuto. Provai ad aprire gli occhi, ma il solo movimento delle palpebre mi procurò una tremenda fitta alla testa. Lo stomaco si contrasse e salii dalle viscere una terribile ondata di nausea.
Il mio corpo si muoveva avanti e indietro, ma senza che potesse rotolare. Finivo sempre contro quel tessuto. Non potevo distendere le gambe, qualcosa sotto le suole lo impediva. Le mie mani erano dietro la mia schiena e non potevo muoverle. Qualcosa di solido ma che non era metallo mi procurava delle escoriazioni ai polsi legati uno sull’altro, forse fascette di plastica, e subito la mia mente confusa generò un’immagine, transenne in ferro, a quegli eventi a cui avevo lavorato con l’agenzia e le fascette che le legavano insieme, come ora legavano i miei polsi.
Dopo quello che fu un tempo indefinibile capii dov’ero.
Ero legato come un salame adagiato sui sedili posteriori di un’auto.
La mia mente vagava mentre faticavo a mantenere gli occhi aperti.
Mi sforzai di ricordare. Mi chiamavo Franco, facevo il detective privato e qualcuno era morto. No, non erano Carabinieri, come al servizio di leva, erano colleghi detective.
Io amavo una donna dai capelli neri me ero a letto con un’altra…no, non amavo nessuno. Ma ora ricordavo che ero uscito da un hotel e volevo beccare l’assassino.
Ma forse l’assassino aveva beccato me.
Ero stato colpito alla testa, cominciai a ricordare con un poco più di chiarezza.
Non ero morto, però. E questo mi sorprendeva.
Oppure questa era la morte e qualcuno mi stava portando all’inferno guidando una macchina.
Forse era un diavolo giallo.
Pregai il Signore perché ero stato un pessimo esempio di uomo e che potesse avere pietà di me, perché in Lui avevo sempre creduto.
Dove mi stava portando il demone giallo? Era un po’ che guidava. Quanto distava l’inferno?
No, sentivo rumori familiari che provenivano dall’esterno, rumori di altre auto, di motori e di frenate ed il tessuto del sedile aveva un odore di benzina.
Mi stava portando dall’altra parte della città?
La mia mente, sempre confusa produsse da sé il ricordo delle note di quella canzone soul di Curtis Mayfield “Other side of the Town”.
Respira Franco, Respira. Dentro e fuori, profondamente. La nausea calerà e potrai ragionare meglio. Muovi mani e piedi, riattiva la circolazione. Non fare caso alle api che hanno fatto un nido nella tua testa.
Improvvisamente iniziammo a scendere. La macchina andò in discesa ed io non vedevo altro che oscurità.
Poco dopo si fermò.
L’autista della vettura uscì ed aprì la portiera di dietro, quella sotto le mie suole.
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