Novembre 2012
Schivai il primo colpo, non fu difficile.
Quasi mai il primo pugno, per uno che sa tirarli, costituisce il colpo più pericoloso. Chiunque abbia un minimo di pratica di pugilato lo sa.
Era un pugno di disturbo, poco più di una finta, fu il secondo che riuscì a sorprendermi. Il sinistro della figura davanti a me mi colpì vicino alla tempia, sentii le gambe cedermi, subito dopo aver provato un dolore lancinante alla parte destra del volto. Mi sbatté contro la liscia parete alle mie spalle, che per qualche secondo avrebbe continuato a mantenermi in piedi, di fronte al mio avversario.
Potevo vederlo, tra le ombre sugli occhi causate dai primi effetti del trauma cranico. Una figura robusta, con braccia fortissime e dall’espressione del viso che non aveva più nulla di umano.
Lottai con tutto me stesso per non perdere i sensi, per non essere alla sua mercé, in quel locale arredato con pochi e asettici mobili, nel palazzo che avevo raggiunto qualche minuto prima.
Cercavo di tenermi ancorato alla coscienza, anche se il buio stava già calando sui miei occhi, un’oscurità che mi attraeva, un oblio dal quale farsi avvolgere, per non sentire dolore, per non resistere più, per andare al tappeto e restarci.
Non erano passati che pochi minuti dal momento in cui ero entrato nel palazzo al preciso istante di quella bordata sul mio viso. Lo scontro con quel bestione che mi stava davanti era appena cominciato. Mi riattivai e tentai di reggermi in piedi. Il sangue pulsava nel viso, segno che ero ancora sveglio e presente, in qualche modo.
La figura davanti a me sogghignò soddisfatto, in una smorfia terrificante. Ne era felice, avrebbe goduto nel pestarmi ancora per bene e mandarmi al creatore facendomi soffrire ancora un po’.
D’altronde, era lì per questo, farmi fuori, era il suo scopo.
Dopo un numero indefinito di secondi, ringhiò: «Avanti, detective, voglio vedere il bianco del tuo cranio» mentre avanzava verso di me e la parete alla quale mi appoggiavo.
Dalle finestre dietro di lui filtrava qualche luce lontana di una notte di novembre, antistante a essa c’era la scrivania con sopra qualche foglio di carta e un portamatite.
Anche se tutto sembrava muoversi al rallentatore, avevo pochi attimi per decidere e abbozzare una strategia di lotta.
Partì con un diretto destro verso la mia mascella. Fui contento, perché la mia unica chance era barare e sfruttare tutto ciò che avevo a disposizione, altrimenti non avrei avuto scampo contro la sua enorme forza.
Mi abbassai più in fretta che potei e il suo pugno si fracassò, assieme alle sue nocche, contro la parete, un centimetro al di sopra dei miei capelli. Nello stesso momento, lo colpii con tutte le mie forze con un montante destro sotto la cintura, tirato per rompere tutto ciò che potevo, compresa la sua virilità. Non ero tipo da colpi bassi, nemmeno nella vita, ma, stavolta, non potevo prendermi il lusso di seguire le regole.
Ebbe effetto e il bestione emise un gemito acuto. Non persi tempo e mi scagliai a peso morto su di lui, avvinghiandomi alla sua vita. La mia spinta riuscì a farlo finire sulla scrivania che, ribaltandosi, lo catapultò verso la vetrata alle sue spalle, che attraversò mandandola in pezzi.
Volò fuori dalla finestra, ma non precipitò.
Riuscì a tenersi, aggrappandosi con il braccio sinistro a un infisso che poco prima costituiva il bordo, ricoperto di gomma, del finestrone, mentre io arrestai faticosamente la mia corsa, tenendomi alla pesante scrivania capovolta, strisciando sulla moquette. Sembrava incurante dei vetri che si conficcavano nella mano e nel braccio, la sua presa gli permetteva di restare aggrappato al bordo del finestrone anche con una mano sola.
Mi sporsi verso il vuoto, in piedi, sopra il bestione aggrappato al pavimento e a ciò che restava del finestrone. Mi guardò e capii che dovevo apparirgli come una figura terribile, mentre emergevo dall’oscurità alle mie spalle, sporgendomi sopra di lui, con la faccia sporca di sangue e polvere e, nello sguardo, la voglia di ucciderlo. Per un attimo, sparì il ghigno dal suo viso.
«Ti uccido, detective!» disse sputando bile e saliva. Nella sua mano libera, la destra, che risalì dal vuoto, compiendo una traiettoria ad arco venticinque metri sopra il marciapiede, comparve un coltello a serramanico molto lungo.
Lo lanciò, mirando al mio cuore.
Sono fesso, pensai.
Capitolo 1.
Ogni Santi
Passai dall’ufficio, anche se era festa.
Milano dormiva ancora, via Turati era quasi vuota e potei parcheggiare con facilità sotto gli uffici della Ilda, l’agenzia investigativa per la quale lavoravo da qualche anno. Presi le scale e arrivai al secondo piano. Lasciai la documentazione sul caso Rosselli, pratiche e carte del tribunale, e tornai in strada, per prendere un caffè in piazza Cavour.
Il bar, dove abitualmente andavamo con i colleghi dell’agenzia, era aperto. Erano già presenti due avventori, desiderosi, come me, di fare una veloce colazione, dare un’occhiata alle notizie, leggendo velocemente il giornale, per poi perdersi nelle proprie faccende, pur essendo un giorno di festa. Nel bar c’erano più persone che nell’agenzia, che era deserta come viale Zara in agosto.
Il signore sui sessanta uscì lasciando sul tavolino il giornale, che recuperai mentre mi avvicinavo al banco. Non è che credessi molto alla stampa, col lavoro che facevo sapevo bene che a loro spesso veniva data una versione stabilita di molti fatti, che doveva sempre combaciare con la linea editoriale. Non erano bugie ma mezze verità, il che, però, non mi impediva di digerirle ogni mattina assieme alla prima colazione.
«Franco, sei qui anche oggi?» esclamò Edo, che già aveva messo in macchina il mio abituale caffè.
«Un salto veloce, dovevo portare dei documenti che Ferrini necessita già per domattina. In realtà, il lavoro sarebbe già chiuso, con la cliente più che soddisfatta, ma sicuramente più incazzata di prima. Ma almeno il capo mi farà dormire un’ora in più domani.»
Il faldone del caso era relativo a un’indagine chiesta dalla manager di una web agency statunitense, che aveva una filiale a Milano. Ada Rosselli aveva finalmente avuto le prove delle scappatelle del marito con una studentessa, che frequentava l’Università Statale di Milano, in via Festa del Perdono.
Mi era costata quasi una settimana di appostamenti, al mattino presto. La ragazza, una certa Federica Malafasi, era studentessa a tempo pieno, dedicava la sua giornata ai libri, almeno in apparenza. Si recava quasi ogni mattina all’università. Aveva ventuno anni, sul metro e settanta abbondante, magra ma con tutte le curve al posto giusto; i capelli ricci, portati molto lunghi, le regalavano una chioma di boccoli castani, che la rendevano molto appariscente.
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Aveva uno sguardo profondo, con occhi castano scuro, che scrutavano con una particolare attenzione tutto ciò che appariva sulla sua strada, il che le faceva ostentare una particolare aria di sicurezza, donandole un fascino di cui era ben conscia.
Per diverse mattine mi ero appostato in un bar di via Festa del Perdono, dal quale potevo vederla arrivare nella via antistante l’ateneo, pronto a seguirla, confondendomi tra gli studenti e facendomi passare per un assistente di qualche professore con cattedra, che normalmente era gente dai trenta ai quarant’anni.
Avevo scelto con cura l’abbigliamento più adatto: pantaloni di velluto marroni, pullover grigio con camicia e occhiali da intellettuale. Una perfetta tenuta da assistente universitario, uno dei tanti. Nessuno badava a me.
L’avevo seguita, osservandola andare a lezione al martedì e al giovedì in aula, mentre le altre mattine della settimana andava a studiare nelle biblioteche dell’università. Mi ero concentrato su di lei dal martedì della settimana precedente, quando, seguendo l’auto del marito della Rosselli, ero arrivato proprio davanti all’edificio.
Si era fermato davanti all’entrata principale dell’ateneo e, dopo qualche istante, questa ragazza dai capelli ricci e castani era salita sulla sua auto. Sfortunatamente, li avevo persi di vista un chilometro dopo, a causa di un tizio che era volato dallo scooter qualche auto davanti la mia, causando un tamponamento tra due vetture e finendo lui stesso quasi investito da un’altra macchina, in corso di Porta Romana.
Ma la pista si era rivelata interessante e, dal mattino seguente, decisi di tenere d’occhio lei all’università.
Una mossa che avrebbe ridotto di parecchio il rischio di essere scoperto dal signor Rosselli, cosa possibile con pedinamenti continui.
Il pomeriggio seguente avevo seguito Federica, una volta uscita dalla Statale, e avevo così scoperto dove abitava.
Per quasi una settimana avevo osservato solo una normale vita da studentessa. Studio, qualche caffè con delle amiche, tennis.
Durante la sera mi dedicavo a Rosselli. Lo aspettavo all’uscita dall’ufficio dove lavorava. Usciva ben oltre le sette di sera e tornava subito a casa, tranne in un’occasione, quando aveva preso un aperitivo con un collega, sotto l’ufficio.
Il martedì successivo, appostato nel bar di via Festa del Perdono, avevo visto arrivare Federica, come ogni mattina feriale. L’avevo seguita, con il mio look da assistente universitario, fino all’aula della lezione e, circa un’ora dopo, l’avevo vista uscire dalla stanza, andare verso l’ingresso dell’università, aspettare fuori per il tempo utile a fumarsi la solita sigaretta, e poi salire sulla stessa auto di Rosselli, che era giunto al rendez-vous come la settimana precedente. Pista trovata e bollente, in tutti i sensi.
Il terzo martedì attesi già nell’auto, in doppia fila, davanti all’ufficio postale, sperando di aver avuto ragione. Fui accontentato.
Appena Federica era salita in auto, alle nove e cinquanta spaccate, e con le solite modalità, avevo messo in moto la Peugeot 306 e li avevo preceduti verso l’appartamento della casa di ringhiera dove viveva Federica Malafasi, in corso San Gottardo. Fu complicato appostarsi senza essere notato da altri. Avevo dovuto anche farmi passare per un paziente che cercava lo studio del dottor Alfieri, psicologo, quando il portiere filippino mi aveva chiesto chi cercassi. Mi ero tenuto questa scusa pronta, quando avevo scoperto dove viveva Federica, annotando l’informazione dalla targa in ottone di fianco al portone di entrata.
Avevo atteso solo cinque minuti ed erano arrivati.
Ero riuscito ad appostarmi sui gradini delle scale principali della casa di ringhiera, al terzo e ultimo piano. Dalle pareti della tromba delle scale c’era un’apertura sui ballatoi, dalla quale ero riuscito a vedere e fotografare la porta di ingresso dell’appartamento di Federica.
Avevo scattato foto che riprendevano la loro entrata nell’appartamento.
Due ore dopo avevo foto di lui mentre usciva dall’appartamento e che si voltava a salutarla con un bacio inequivocabile, sulla porta dell’uscio.
Era abbastanza per metterlo nei guai con la moglie, ero stato davvero fortunato. Avevo dovuto solo risalire le scale che portavamo al tetto e appiattirmi per un istante sulla rampa, quando lui era ridisceso al piano terra, per non essere notato. L’ascensore, come in molti di quei vecchi iconici caseggiati milanesi, non c’era.
La Rosselli era così riuscita a ottenere il primo pronunciamento dal giudice, che aveva concesso la separazione con addebito della stessa al marito. I Rosselli erano probabilmente una coppia finita, lei aveva trovato il modo di concludere come aveva pianificato, con l’addebito della separazione per provata infedeltà coniugale.
Come agenzia, avevamo curato tutti gli aspetti, anche il ritiro degli atti, cosa di cui mi ero occupato passando dalla cancelleria del tribunale, il pomeriggio precedente. Ora stava tutto sulla scrivania di Ferrini, che, l’indomani, avrebbe ricevuto la cliente per chiudere la pratica. Con incasso dell’intera parcella.
Enzo Ferrini, il proprietario dell’agenzia, mi avrebbe liquidato un bel premio.
Ferrini era stato commissario di polizia a Parma, fino a quindici anni prima, per poi arrivare a Milano e aprire la sua creatura, l’Agenzia Investigativa Ilda.
Aveva condotto, in polizia, operazioni importanti per reati finanziari, si era occupato anche di alcuni aspetti poco conosciuti del caso della bancarotta della Parmalat. Era stato un ottimo sbirro con un ottimo curriculum. Una volta rimasto vedovo, aveva deciso di lasciare la polizia e trasferirsi a Milano, per lanciarsi nel business delle agenzie private.
Finii il mio caffè leggendo le ultime righe di un articolo, che descriveva un’operazione dei carabinieri condotta a Firenze, e un ricordo risalì all’improvviso, negli occhi e nell’udito della mente.
«Lasciami, carabiniere bastardo.»
«Lo ammazzi, Franco, lascialo.»
«Lavori troppo, Franco.» Edo mi riportò al presente.
«I soldi mi fanno digerire tutto, oltre a farmi pagare i caffè e i panini che mangio qui, Edo» risposi, mentre già stavo uscendo.
Lasciai Turati con l’auto e decisi di passare il resto della mattinata libera in palestra. Mentre guidavo, non potei non pensare a quanto ormai poco amassi occuparmi di casi come quelli della Rosselli.
Quel genere di indagini mi avevano stufato, ma da ormai un paio d’anni Ferrini mi passava solo quelle, era abbastanza sicuro che occupandomi di questa roba non avrei causato problemi all’agenzia, non avrei pestato nessuno, non avrei beccato denunce e non sarei stato un costo per lui.
Le indagini private di supporto sui reati, non moltissime ma responsabili dell’ottima fama di cui godeva l’agenzia, Ferrini le affidava da circa due anni principalmente a Stefano Turri, ex militare con una buona carriera ed esperto di sicurezza personale, e al suo amicone, Giancarlo “Gianca” Bellomo. Due elementi di livello alto, personalmente li ritenevo anche due amici.
Io ero un tipo dal temperamento sanguigno, che aveva fatto il servizio militare da volontario nell’Arma, dopo aver perso mia madre poco prima della leva, che si era poi perso per il mondo dai ventidue ai trent’anni, con un padre ex avvocato penalista, in pensione, che era andato a vivere allegramente a Bordighera, e con una sorella minore che faceva l’attrice teatrale. Passati i trenta, avevo pensato che potevo riprovare a fare qualcosa di buono per la giustizia facendo prima pratica di investigazioni in un ufficio legale di una piccola compagnia assicurativa, la Novi, per poi diventare un vero detective per agenzie di investigazioni.
Passare alla Ilda, che si occupava anche di servizi di sicurezza, mi diede la possibilità di imparare anche altro, completando la mia esperienza. Non pensavo certo che ci sarei rimasto per più di sei anni.
I risultati non mancavano, l’intuito investigativo c’era e avevo anche una buona dose di testa dura.
Alla Ilda facevo guadagnare parecchi soldi e incassavo ottimi premi, oltre al mio stipendio fisso.
Mi occupavo anche di incarichi relativi alla personal security e di servizi di accompagnamento per alcuni personaggi della Rai, spesso con Stefano e Gianca.
Avevo una buona altezza, ma non ero grosso quanto loro, pur avendo una presenza sufficiente a essere credibile in questi ruoli.
Stefano aveva una relazione con Francesca, che si occupava del reparto amministrativo, cosa che lo legava ancora di più all’agenzia di Ferrini.
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