Sono nata il 10 maggio 1987 tra le note del surdato ’nnammurato nel giorno in cui la città festeggiava la vittoria del primo scudetto calcistico. Mi è stato raccontato così tante volte e con così tante sfumature che quasi mi sembra di aver fatto parte di quelle schiere di napoletani orgogliosi, interamente colorati di azzurro, che invadevano in massa piazze e strade intonando oi vita, oi vita mia, in una orchestra di cori straripanti di gioia.
Mi pare di vederli, accalcati uno a cavalcioni dell’altro, intenti a scrivere la formazione del Napoli sui palazzi, mentre un nugolo di scugnizzi pazzarielli dipingeva le scalinate delle chiese di bianco e azzurro. E posso immaginare ogni ruga di sorriso e sconcerto nelle espressioni della gente che si svegliava con la B di Bruscolotti alta due metri sopra la finestra.
Un festoso folleggiare collettivo.
Mio zio Ciro, colto da questo raptus di euforia contagiosa, tagliò il tettuccio dell’auto con la sega elettrica per farne una decappottabile su cui girare in dieci per festeggiare. Ancora oggi sono esposte in salotto le foto del gruppetto stretto e contorto nella vettura, con i sorrisi raggianti che sbucavano candidi in mezzo a sagome ricoperte da sciarpe e stendardi inneggianti la città. Tutti uniti e ormeggiati in bella vista a sbandierare il loro orgoglio.
Quello scudetto però mi ha lasciato uno scomodo trofeo.
Il calcio partenopeo è una religione e Diego Armando Maradona è venerato come un santo, con tanto di effige esposta a Spaccanapoli e relativo reliquiario contenente capelli. In seguito alla partenza del santo Diego, fu persino incorniciata in bella mostra nella stessa teca l’ampolla contenente le lacrime dei napoletani.
Così, mio padre, posseduto dall’enfasi del miracolo, senza alcun preavviso o decisione concordata, mi dichiarò all’anagrafe Armanda Fierro.
Fin dal primo mese di gravidanza, Chiara era stato il nome prescelto per me, impresso su tutine e cucito sui mille ninnoli che decoravano la mia camera, e si narra che la mamma, benché convalescente dal parto, alla notizia di quella variazione, si gettò d’impeto dal letto come una pazza e con lo sguardo assassino inseguì mio padre per tutta la casa con un ombrello che intendeva suonargli in testa, gridando inferocita: «Salvatò ’a capa toia è ’na sfoglia ’e cipolla, ti serve sulo pe spartere ’e rrecchie». (Salvatore, la tua testa è una sfoglia di cipolla, ti serve solo per dividere le orecchie.)
In seguito non gli rivolse la parola per due settimane, così, mio padre fu costretto a dormire sul divano della nonna per altrettanti giorni. Ma lui, ancora oggi, rievocando le origini del mio nome, continua a sostenere convinto che fosse un atto dovuto di devozione.
Poi, dopo mazzi di fiori gettati dal balcone e rigoroso mutismo, per mettere fine alla disputa, fu sancito il patto di non belligeranza Fierro-Coppola, concordando di chiamarmi con un diminutivo: Madda.
L’artefice del trattato di pace fu la nonna Anna, dai più conosciuta come Naninella, la donna più rispettata del quartiere. A detta di tutti, io e la nonna siamo due gocce d’acqua. Tuttavia, quando osservo i dettagli ricercando le nostre affinità, ritrovo solo la stessa chioma nera, riccia, voluminosa e crespa, l’espressione corrucciata e il colore degli occhi, verdi, come la speranza, dico sempre io. La speranza di aver ereditato anche la sua stessa forza e tempra vulcanica. La nonna non si arrende mai.
Anna Esposito è una sarta esperta e molto, molto altro. Ancora mi chiedo se esista qualcosa che non sia in grado di fare. Io ho sempre percepito con un certo timore doti inconsuete, quasi magiche per la verità. Lei sapeva sempre tutto prima. Quando ne combinavo una delle mie, evitavo i suoi occhi perché avrei visto limpido il riflesso della mia coscienza sporca e il suo monito eloquente mascherato dentro un detto popolare: «Piccerè, solo quello che non si fa non si sa».
Ma la nonna sapeva prima anche molti altri avvenimenti, comprese le sventure. Le sognava. O le sentiva arrivare. E con un certo disappunto ho scoperto di assomigliarle anche in questo.
A differenza mia, però, lei è un donnone imponente con una corporatura robusta. Tiene molto al suo aspetto, dice che è una forma di rispetto apparire sempre in ordine e composti. Così, ogni anno, con l’ingresso dell’autunno, acquista le stoffe a San Leucio e cuce per sé un paio di gonne o di abiti destinati a rinnovare il suo guardaroba, ognuno dei quali rigorosamente incline a qualche spennellata di colore nella fantasia.
«I colori sono una medicina, fanno bene all’anima» rispondeva visibilmente spazientita quando qualcuno obiettava che alla sua età sarebbe stato più consono preferire abiti più sobri. Poi mi sussurrava sottovoce: «I colori fanno fuì ’a morte e tutt ’e ciucciuettole». (I colori fanno fuggire la morte e tutte le persone negative.) E mi stampava un occhiolino soddisfatto in pieno viso.
Penso che quando non ci sarà più, la sua immagine scolpita nella mia mente avrà sempre gli stessi tratti indelebili: pelle bianco latte, tono di voce severo, ma calmo e confortante, sguardo penetrante e sicuro di chi è abituato a guardare in faccia i problemi e a risolverli senza paura, contando esclusivamente sulle proprie forze, i capelli bianchi raccolti sulla nuca, da cui scivola via qualche ricciolo ribelle, la schiena dritta, malgrado l’età e gli acciacchi, quella sua andatura lenta e fiera e le dita a stringersi il mento mentre ascolta la voce degli spiriti interrogando le sue carte.
Quella figura dalle sembianze di una matrona, con i suoi centottantadue centimetri di altezza e novantasei chili di peso, è inusuale rispetto agli standard di questa città.
«Da lassù comanda la baracca» dice sempre il nonno, con quel suo sguardo misto di ammirazione, dolcezza e fiducia. Basta osservare gli occhi del marito per sapere quando lei sta entrando in una stanza. Quell’espressione esiste solo per lei. Esiste solo perché esiste lei.
Sono cresciuta cullata dal riverbero di questo loro sentimento, accorgendomi ogni giorno di quanto l’amore che provano l’uno per l’altra trasparisse in ogni gesto, persino nel rispetto dei silenzi reciproci. Il loro amore è il mio pensiero felice. Il luogo dove mi rifugio quando perdo la speranza.
Beatrice Bonechi
Storia avvolgente, il libro offre un racconto davvero magico ed avvincente, un vero gioiello che ricco di poesia e che non manca di regalare intensi momenti di commozione. Complimenti vivissimi all’Autrice! Spero davvero in una prosecuzione del racconto!
laurasantini7 (proprietario verificato)
Alleria mi ha portato a scoprire Napoli tra aneddoti e curiosità, attraverso il punto di vista privilegiato di chi ha un profondo legame di affetto con la città stessa; ma soprattutto mi ha colpito per l’empatia che subito è nata con il personaggio di Madda nel legame profondo con le sue radici, nella nostalgia di un’infanzia, trascorsa felice e spensierata, grazie all’amore dei nonni.
ciampis (proprietario verificato)
Ho potuto acquistare in prevendita questo libro e devo dire che mi ha subito appassionato! La storia avvincente della famiglia Fierro e della protagonista Madda si sviluppa tra presente e passato, alla ricerca delle proprie origini.
La storia è ambientata in una Napoli avvolgente, genuina, ricca di tradizioni, di leggende, di tragedie ma anche di autentico sentimento con un pizzico di “alleria”!