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Amare e Domare o Amare Domani

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Consegna prevista Luglio 2025
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La storia, ambientata in una metropoli dei giorni nostri, vede come protagonista un Pinocchio, ormai adulto, riprendere in mano la sua vecchia vita da burattino dopo aver ricevuto notizie dal padre da tempo scomparso.
Obbligato a mettersi in viaggio con li Gatto e la Volpe (Ceres e French), nel tentativo di ritrovarlo, verrà travolto da un corteo d’amore sfrenato che lo spingerà ad affrontare i suoi più oscuri demoni a Chinatown. Salvatosi per miracolo e sempre più regredito nella sua forma originale, troverà asilo presso la più nota casa di produzione cinematografica del paese (Grillo Home Video entertainment) che, dopo avergli rivelato la verità sulla sua natura, ripartirà alla volta di Acapulco alla ricerca del padre. Grazie all’aiuto di alcune delle più famigerate bande del cartello messicano, affronterà un Male che mai avrebbe immaginato.
Pinocchio si ritroverà, suo malgrado, ad affrontare un passato che, non avendolo mai abbandonato, si ripresenterà con scioccanti verità

Perché ho scritto questo libro?

L’idea di questo romanzo nasce, qualche anno fa, da un fatto capitatomi in prima persona che ha innescato, successivamente, tutta una serie di domande riguardanti li destino dei protagonisti che popolano li panorama dela celebre fiaba di Collodi: che fine hanno fatto?, dove sono ora?, cosa stanno facendo?, perché?
In fondo, della loro vita, dopo la trasformazione del protagonista in bambino vero, nessuno ha più saputo nulla.

ANTEPRIMA NON EDITATA

01.

La storia che sto per raccontare ebbe inizio con una passeggiata.

Eravamo io e il mio cane Lady, una sorta di incrocio tra un levriero e un lupo, stavamo percorrendo una strada di campagna, non tanto lontana da casa, uno di quei sentieri la cui fine vedi svanire all’orizzonte tra gli alberi. Era estate, tardo pomeriggio. Il vento rendeva piacevole il calore del sole che arrossendo spariva dietro ai campi.

Lady come al suo solito correva da destra a sinistra in preda a una gioia che avrebbe fatto invidia al più innamorato dei cuori; spesso guardandola mi chiedevo come fosse possibile essere così felici con tanto poco e come al solito il pensiero svanì lasciando il posto a un sorriso.

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Adoravo quell’ora del giorno, il sole caldo e rosso che si abbassa, lunghe ombre malinconiche che se ne vanno e il vento fresco che annuncia la notte. Ovviamente in tutto questo qualcuno deve aver trovato geniale l’inserimento di cornacchie che gracchiando in volo, dall’alto, mandavano tutti a casa prima del buio: era un quadro perfetto, troppo perfetto secondo me, per non essere stato studiato a tavolino.

Mentre riflettevo sulla perfezione e ovviamente sul quadro che stavo dipingendo in quei giorni, vidi sul margine del sentiero, alla mia sinistra, una massa di pelo color nero piuttosto mal ridotta, mi avvicinai e contemplai con grosso dispiacere un bellissimo gatto, sicuramente investito da qualcuno e lasciato lì a decomporsi.

Mi allontanai quasi subito per evitare che Lady venisse a curiosare, che disturbasse così il riposo di quel nostro amico sfortunato trasformandolo in un trofeo. Per fortuna lei era distante e non si accorse della mia sosta e mentre continuava a saltare da una parte all’altra dello sterrato, io mi guardai intorno per trovare tracce dell’incidente; di solito mi sarei fermato a contemplare la vittima e a immaginare la sua vita prima della fine, ma andai avanti.

Il dispiacere per la morte di quell’animale, mi riportò alla mente il ricordo di Kubin, il mio gatto scomparso un anno prima di cui non avevo saputo più nulla, lasciandomi così un lieve sapore amaro che mi cambiò l’umore.

Mentre camminavo pensando che gioia e dolore calcavano lo stesso palcoscenico come due protagonisti di egual levatura nella medesima opera teatrale, mi arrestai.

Déjà-vu! Altro pelo!

Questa volta marrone rossiccio e più grosso… Prima di avvicinarmi mi girai indietro per vedere se il gatto fosse ancora lì. Appurato che non si era mosso, mi avvicinai.

Una volpe!

Avrei sempre voluto vederne una da vicino, ma mica morta!

Doveva essere stata vittima di un brutto colpo perché era tutta sporca; dalla bocca spalancata incrostata di sangue e terra, la lingua recisa, sudava le sue ultime lacrime di sangue e mentre il suo occhio sbarrato mi guardava fisso, la sua scapola, fuoriusciva dal manto come un legume schizzato fuori dal baccello per la troppa pressione delle dita. Sembrava un’esecuzione!

Era stato un incidente? Mi girai verso il gatto e subito ne immaginai la dinamica. Era probabile che i due non si conoscessero, ma se si fossero rialzati, avrebbero di sicuro avuto qualcosa in comune di cui parlare.

Certo, sembrava troppo strano per essere una coincidenza, e nessun insetto s’era ancora presentato per banchettare, quindi non doveva essere successo da molto.

Mi guardai intorno e non c’erano segni di frenata, solo di brusche sterzate sulla ghiaia… Possibile che chi guidava la macchina si fosse posto l’obiettivo di metterli sotto?

Storia strana, questa… E a me non era mai capitato di imbattermi in un doppio colpo del genere.

Tornai indietro a controllare il gatto e poi di nuovo la volpe e giunsi a una conclusione: se era stato un incidente, come sospettavo, augurai una brutta morte al conducente e mi allontanai, inorridito.

Stavo speculando sull’accaduto e mi venne da chiedermi la cosa più ovvia: dove stavano andando quei due? Ebbene, proprio mentre fantasticavo su un loro possibile rapporto, il cane venne verso di me con qualcosa di grosso in bocca… Sembrava una gamba… Era una gamba, per davvero! E mi prese un colpo.

In effetti, poco prima, qualche metro più avanti, mi era parso di vederla affannarsi sopra qualcosa, ma non ci avevo fatto caso, intento com’ero a riflettere su quei due.

Il cane prese a girarmi intorno felice come non mai, e a ogni suo salto di gioia, le articolazioni del ginocchio e della caviglia di quella reliquia frustavano l’aria rendendo la scena ancora più grottesca. Sbigottito, non riuscii a dire nulla, mi limitai solo a schivare quello schifo per evitare di essere toccato; ma più saltavo, più Lady credeva che fossi felice del regalo. Visti da lontano sembravamo due deficienti che avevano vinto la lotteria. Eppure…

Eppure c’era qualcosa che non andava: quella schifezza cigolava.

Interruppi il delirio frenetico di quella macabra danza con un urlo di rabbia infernale, mi spiacque subito, Lady, scappando con la coda tra le gambe, fece cadere il regalo ai miei piedi e schiacciandosi per terra con il culo, mi guardò a capo chino dal basso verso l’alto con occhi perplessi pieni di scuse.

Ogni volta che mi capitava di sgridarla, dopo mi sentivo una merda; lei veniva dal canile e l’avevano maltrattata, sicché bastava un niente per ricordarle il male.

Guardai la gamba, era finta.

Osservandola meglio, senza panico e ferma sullo sterrato, mi accorsi che era anche più piccola di quello che mi era apparso all’inizio. Ora io non sono un esperto di protesi o arti in genere, ma sembrava la gamba di una bambola fuori taglia, una di quelle che nei film horror ti sbucano fuori da sotto il letto, la notte, da bambino, mentre conti i secondi che dividono il lampo dal tuono per riuscire a prendere sonno.

Chiesi subito scusa a Lady, mi sentii uno stronzo e cercai di accarezzarla per rassicurarla.

La gamba aveva anche i perni alle articolazioni come una marionetta. La presi in mano, era di legno, dipinta di un incarnato paglierino e non era neanche tanto leggera.

La feci cadere a terra con uno sprezzante vaffanculo e me ne andai.

Il cane la guardò ma non la raccolse, mi seguì senza gioia camminando a testa bassa dietro di me, come era solita fare dopo un rimprovero o quando non aveva voglia di tornare a casa. Mi girai e le richiesi scusa in tono dolce e dopo averle stropicciato la testa con le carezze, lei riprese a correre e io sorrisi di nuovo.

Poco più avanti, il cammino proseguiva con una ripida curva a destra per poi raddrizzarsi altrettanto velocemente, giusto in tempo per schivare un albero dall’aria sinistra, completamente diverso da quelli che componevano i filari di pioppo sullo sfondo, il tronco massiccio e scuro, le fronde spesse e quasi brulle e un ramo largo e lungo che si protraeva in orizzontale sulla strada come un passaggio a livello sulle teste dei viandanti, rendendolo ideale per una bella impiccagione. Alcune cose nascono davvero con una natura ben precisa, sembrava dicesse: voi pioppi state in fila dietro di me, al resto ci penso io!

Mancavano ancora un centinaio di metri prima di arrivare al patibolo e, incredulo, mi arrestai di colpo, nel punto esatto in cui avevo visto il cane scavare nel terreno poco prima.

Davanti a me, un Pinocchio col naso spezzato, senza una gamba, un fianco distrutto e un machete ben assestato nella nuca. Come se non bastasse era stato incastrato nel terreno da quello che sembrava un passaggio continuo e ripetuto di pneumatici sulla schiena.

Impietrito da quella scena agghiacciante e surreale, sentii Lady abbaiare come una pazza. La cercai con lo sguardo girandomi di scatto in tutte le direzioni, ma non la vidi. Corsi in direzione della sua voce chiamandola più volte, fino a quando lei non risalì l’argine dove il sentiero curvava per via dell’albero.

Mi affrettai a raggiungerla, lei ridiscese abbaiando e io fui subito lì.

Davanti a me un’utilitaria, con la portiera del conducente spalancata, schiantatasi contro l’albero dei morti.

Mentre il cane saltava abbaiando dal lato del volante, sentii una voce, scesi scivolando giù dall’argine credendo di trovare l’assassino in fin di vita, ma l’abitacolo era vuoto. Un gemito mi fece trasalire e mi gettai in ginocchio per controllare sotto l’auto. Niente. Nessuno. Feci allora il giro della vettura nel caso fosse stato sbalzato fuori, guardai oltre l’albero, ma c’erano solo vetri e rottami.

Un brivido lungo tutta la schiena fino al cervello mi attraversò quando compresi la parola aiuto provenire dall’auto.

Mi si gelò il sangue. Mi girai e vidi sul parabrezza distrutto, incastrato in un tergicristallo, un grillo grande quanto una scarpa.

Semi spappolato roteava la testa con gli occhi all’indietro. Mi avvicinai credendo di avere un’allucinazione e quando lui chiese aiuto nella mia lingua per la seconda volta, io svenni dal terrore.

02.

Svegliatomi di colpo, l’orologio sul comodino segnava come al solito le 3:33 del mattino. Alle cinque mi sarei dovuto alzare, il camion dell’immondizia sarebbe passato di lì a poco per ritirare i sacchi condominiali e il vetro.

Per quanto ormai sia abituato a certi orari, questo sogno ricorrente non smetteva mai di essere un tormento; neanche riuscivo a ricordare quando aveva avuto inizio, ma sapevo perfettamente il motivo di questa tortura notturna.

A parte questo, il vero problema era svegliarsi più o meno intorno alle tre per poi non riuscire più a dormire e di conseguenza avrei passato la giornata in coma, seduto su una sedia in guardiola, senza neanche riuscire a dipingere o a leggere dal troppo sonno e questo mi faceva incazzare.

Decisi comunque di alzarmi e togliermi di dosso il sudore di quell’incubo con una doccia; feci scorrere l’acqua e andai a preparare il caffè, senza il quale non potrei dirmi vivo ora, deambulando con la tazza in mano verso il bagno, che nel frattempo era diventato una spa. Sorseggiai il caffè e mi accesi una sigaretta, passai una mano sullo specchio sopra il lavandino per togliere la condensa del vapore e mi accorsi di quanto ricorrente fosse anche quel gesto.

Il calcare accumulato nel tempo sullo specchio, dal passare della mia mano, l’aveva trasformato in un parabrezza con i segni a mezza luna del tergicristallo.

Ma quello che vidi subito dopo era il giusto quadro per quella cornice: la mia faccia stava a quello specchio esattamente come le sue condizioni al mio stato d’animo.

Fissandomi con la sigaretta in bocca da un lato, socchiusi l’occhio sinistro per il calore del fumo e, nel riflesso, divenni Clint Eastwood in Gran Torino poco dopo che l’avevano freddato.

Mi venne da ridere ripensando alla scena del ragazzino che, nel tentativo di parlare da uomo col barbiere, lo saluta dandogli dell’italiano di merda. Gran bel film!

La cenere mi cadde nel lavandino, la guardai imbambolato e poi rimisi gli occhi su di me. Provai a imitare l’espressione del grillo, roteai la testa ed emisi un rauco aiuto, finii il caffè e buttai il mozzicone nel cesso.

Più lunga la preparazione che l’esecuzione, ero già vestito e pronto per la seconda tazza, ma il sonno ebbe il sopravvento. Decisi di aspettare, avevo ancora un’ora di tempo e mi sedetti sul divano, la gamba mi doleva e la stesi sul tavolino di fronte; mi allungai, presi la coperta sul poggia braccio e me la misi addosso. Capì che era il caso di puntare la sveglia del telefono se non volevo mancare il ritiro e accumulare la spazzatura di due settimane in cantina, più le lamentele dei condomini indignati dalla mia inefficienza.

Sotto il tepore della coperta, quell’ora scarsa sembrò un regalo.

Sprofondai con la schiena nel divano, gambe accavallate sul tavolino e braccia conserte, chiusi gli occhi e mi lasciai mummificare dal sonno.

Il suono della sveglia mi risucchiò fuori da un tunnel nero e profondo, il cuore ricominciò a battere a ritmo irregolare; con occhi pesanti e faccia gonfia sollevai la coperta e uscì dal mio sarcofago. Il richiamo al quotidiano pesò come lunghe catene alle caviglie.

La mia gamba sembrava non volerne sapere di svegliarsi, ancorata al suolo la trascinai al suo dovere come un bambino capriccioso all’ingresso a scuola.

Riuscii a portar fuori i sacchi in tempo, ma per il cassone del vetro imprecai come un pazzo. Era pesantissimo. Com’era possibile che quattro vecchi di merda bevessero così tanto nell’arco di una settimana, montagne di bottiglie dei più disparati alcolici? A vederli sembravano a un passo dall’addio, eppure bevevano come fossero stati esiliati nel deserto.

Sul palcoscenico abbiamo tutti un ruolo e una facciata, ma ciò che ci contraddistingue e ci accomuna davvero si trova dietro le quinte.

Alle loro bottiglie aggiunsi le mie e sorrisi.

Il primo lavoro era fatto, guardai alla giornata con leggerezza e gusto, sapendo che ancora pochi sforzi e poi sarei potuto andare avanti col mio vero interesse.

Il lavoro di custode era capitato a pennello; di colpo casa e salario fisso, poche mansioni e tanto tempo libero per dipingere e scrivere. Ero grato.

A volte però, questa gratitudine si trasformava in frustrazione, avevo i due aspetti della stessa medaglia: giorni in cui la soddisfazione per ciò che avevo dipinto mi portava nell’Olimpo dei grandi maestri, altri in cui vivevo la condizione di portinaio agli occhi di tutti, dove, inchiodato al terreno, il volo era solo un sogno.

Detto questo, il palazzo in cui lavoravo mi piaceva tanto da sognare di essere uno dei proprietari che vi abitava, possibilmente in uno di quegli appartamenti dell’ultimo piano tempestati di colonnati e circondati da terrazzi alberati in fiore.

Lo stabile anni ’30 era moderatamente alto e massiccio d’aspetto, l’ingresso era all’angolo del palazzo, un enorme cancello di pesanti lance nere avvolte da foglie di acanto color rame, si apriva sulla hall che era un misto tra la Gran Central Station di NY e la Gold Room dell’Overlook hotel.

Rifiniture color oro si intervallavano al marmo nero sulle pareti all’interno, lampioni nel giro scale, finemente decorati illuminavano storie di fumo e alcol dei tempi andati.

Doveva esserci stato un gran passare di gente negli anni, a vedere dalle condizioni del pavimento e dei gradini in graniglia di marmo rosa, levigato a tratti, come il letto di un fiume, che dall’ultimo piano attraverso la scalinata scivolava fino in strada. In effetti la bellezza di questo posto apparteneva al passato che lo rendeva ricco di storia, una storia che si respirava a pieni polmoni come un’aria densa e umida degna delle più pluviali foreste tropicali.

Per molti il palazzo era vecchio e decadente come i suoi abitanti, un manipolo di anziani in costume sotto formaldeide dal penetrante odore di naftalina.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

  1. Roberta Colombo

    (proprietario verificato)

    Questo è un romanzo decisamente non banale, non è il classico racconto, è un’avventura dove tutto è grottesco, ironico e commovente, decisamente esilarante soprattutto perché i personaggi usano un linguaggio irriverente e dove in alcuni dialoghi è inevitabile ridere. Tra questa ironia, però, si trovano anche spunti sui quali riflettere come lo si evince anche dal titolo. Ne consiglio la lettura perché oggi come oggi c’è bisogno di umorismo per sdrammatizzare l’attuale quotidianità, e in questo racconto ricco di originalità e fantasia io l’ho sicuramente trovato.

  2. (proprietario verificato)

    Una storia esilarante, un’avventura che ti coinvolge e riesce a restituirti un’immagine onirica e grottesca dei personaggi e dei luoghi.
    È una storia originale, sa essere al contempo fantastica e realistica nei dialoghi.
    Consigliatissimo!

  3. (proprietario verificato)

    Sopravvivere a quello che la vita ti offre, affrontando storie di tutti i giorni in chiave ironica e fantastica, avventure fantastiche di tre amici che si raccontano nel profondo come solo tre compagni di una vita possono fare !!! Che dire leggetelo e capirete cosa intendo

  4. (proprietario verificato)

    Un libro che passa a farti riflettere sul tuo passato e presente ed a tratti su lotte molto assurde e fantasiose.
    Mi piace come gestisce le discussioni tra i personaggi, molto realistico come veri amici al tavolo che bevono in una serata da bar.

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Christian CHS
Nato li 15 dicembre del 1978, appassionato di storia e letteratura ebraico cristiana e cinema, realizza questo romanzo con l'intento di fondere li mito con al cultura popolare contemporanea, a dimostrazione del fatto che li Domani, potrebbe essere l'unica e vera differenza che passa tra lo leri e l'Oggi.
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