L’alluvione aveva disperso i branchi di capibara della zona, mentre gli animali che avevano avuto la sfortuna di impantanarsi nel fango erano già stati divorati da una settimana.
Le fitte gocce martellavano sulle ampie foglie dei palmizi, che di tanto in tanto venivano scostate dai guanti degli uomini capeggiati da Katsuo Suwa. Shabuto, in quanto vice di Suwa, aveva il compito di coprirgli le spalle. Un compito assai semplice, dato che erano in testa al gruppo e chiunque li avrebbe coperti.
Avanzavano compatti, con gli stivali che affondavano nel fangoso e scivoloso muschio della giungla. La tuta era appesantita dalla pioggia e, di quel passo, avrebbero trascorso l’indomani a letto con una brutta influenza.
In lontananza si percepì un leggero frusciare di foglie sotto la bomba d’acqua che si abbatteva sulla giungla. Katsuo alzò un pugno per indicare ai suoi uomini di fermarsi e poi parlò loro tramite la ricetrasmittente, per ridurre al minimo il rumore.
«È qui, da qualche parte» sussurrò.
Shabuto sbuffò. Quell’imbecille del suo comandante non aveva ancora capito che era inutile comunicare a bassa voce. Davano la caccia a delle bestie, mica a esseri umani senzienti. Quelle creature avevano anche un udito sviluppato, in grado di percepire il minimo sussurro, ma di sicuro non capivano la lingua inglese. Alla luce del temporale che si stava abbattendo su di loro, era da stupidi temere di aprir bocca.
L’imboscata di poco prima era andata male, ma una delle bestie si era separata dalle altre. Forse per paura, confusione o nel vano tentativo di rendere più difficile l’inseguimento. Loro, però, la stavano tampinando da vicino senza darle tregua e, con il fiato sul collo, l’avevano indotta a commettere una serie di errori, il più grave di tutti era quello di separarsi dal resto del branco.
Il problema, però, era Katsuo Suwa. Come di consueto, intendeva spingere la preda in trappola, costringerla alla resa, catturarla e rientrare con il bottino. Un piano ottuso e noioso. Quel giorno forse aveva più fretta del solito. Non amava le condizioni meteorologiche avverse a cui l’Amazzonia spesso li costringeva. Katsuo andava per i cinquanta e, per quanto cercasse di mantenersi in forma con gli esercizi e sfiancanti sedute di allenamento, le sue articolazioni dovevano essere un bel po’ arrugginite.
Suwa impugnò il suo Heckler & Koch a piene mani, puntandolo verso il nulla più assoluto. Davanti a loro solo il denso fogliame, con spire di rampicanti che crescevano su qualsiasi superficie e si distendevano in qualsiasi direzione.
Qualcuno dalle retrovie starnutì e il comandante dell’ESU si voltò con gli occhi carichi d’odio, come se quel soldato avesse commesso la più disonorevole delle azioni.
Shabuto sorrise, mentre le gocce d’acqua percorsero le rughe ai lati della bocca, inumidendogli le labbra: non era quello il modo di agire corretto per un leader.
Katsuo Suwa non era in grado di gestire una squadra come l’Emergency Security Unit. Loro erano agenti addestrati, forze speciali che venivano chiamate in causa in situazioni di emergenza, situazioni delicate in cui dovevano agire con lucidità, sangue freddo e non farsi prendere dal panico. Katsuo non aveva i nervi saldi e usava lo stomaco, non il cervello.
Almeno l’udito, però, era buono. Come lui, anche Shabuto aveva sentito un leggero fruscio. Poteva essere la creatura a cui stavano dando la caccia, oppure qualcos’altro, che stava dando la caccia a loro. Quello era il dubbio dell’Amazzonia, il dubbio che ti accompagnava ogni secondo, ogni maledetto passo in quell’area dimenticata da Dio: nessun predatore poteva avventurarsi senza essere preda. In fondo c’era un motivo se quella giungla inospitale era una delle poche al mondo capace di respingere l’offensiva espansiva dell’uomo.
Katsuo riprese ad avanzare e scostò una serie di cespugli dalla foglia larga, scoprendo un fiume. Le acque erano state gonfiate dalle piogge dell’ultima settimana e ora il torrente correva impetuoso racchiuso tra due rive fangose.
A un certo punto, l’acqua cominciò a ribollire, come se nascosto sotto il livello del fiume ci fosse un elefante affetto da meteorismo.
«Piranha» suggerì Shabuto.
Katsuo Suwa si voltò verso di lui, fissandolo con aria interrogativa. Sembrava non sapere a cosa si stesse riferendo. Shabuto si domandò come potesse guidare l’ESU un soldato così inesperto. Quella era l’Amazzonia, diamine. Possibile che non si fosse informato sui suoi pericoli?
«Quando ribolle, significa che attaccano in branco.»
Una serie di lampi argentati illuminò i riflessi degli schizzi d’acqua proprio dove il torrente ribolliva.
Poco dopo, però, le bolle si dissolsero nel nulla e il corso tornò a scorrere veloce. Altri soldati si avvicinarono e uno di essi domandò a Suwa se fosse possibile che la preda che stavano seguendo fosse finita nel fiume.
«Avranno sentito qualcosa cadere in acqua» disse uno spilungone.
«Bestie fameliche» commentò un altro soldato, prima che Shabuto prendesse parola scuotendo la testa.
«Sono tutte leggende, in realtà sono saprofagi.»
Possibile che dovesse essere lui a spiegare una simile banalità al resto del gruppo?
«Cioè?»
Che branco di ignoranti.
«Prediligono gli organismi in decomposizione, diciamo.»
Katsuo Suwa concentrò il suo sguardo su Shabuto Shibutani e poi, dopo aver ripercorso con gli occhi il torrente, fece cenno ai suoi uomini di rientrare nei ranghi. L’humus bruno della foresta nascondeva tracce che il temporale non aveva ancora cancellato. Erano fresche.
«Non può essere andato lontano» disse.
Manuel Vestrucci
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