«Dove siamo diretti?», chiese Duncan.
Ma la domanda cadde nel vuoto.
L’uomo con le spalle ricoperte di peli e la fronte imperlata di sudore attraversò la pista scortando Duncan Hunter ad un elicottero Sikorsky dall’ampia cabina che, a quanto pareva, stava proprio aspettando lui.
I rotori si azionarono proiettando ombre guizzanti sulla pista mentre il crepitio si diffondeva negli auricolari del pilota, in contatto con la torre di controllo. L’uomo con il catarifrangente aiutò Duncan Hunter a caricare la valigia e poi lo salutò, esprimendosi in un incomprensibile idioma locale.
Prima del decollo, il pilota si voltò in direzione dell’unico passeggero a bordo e gli fece un cenno per avvisarlo della partenza. Dopo essersi alzato in volo, l’elicottero costeggiò la scogliera che sovrastava le acque blu del Pacifico correndo lungo il confine con la giungla.
Quindici minuti più tardi, il veicolo atterrò in uno spiazzo in cui Duncan Hunter notò altri aeromobili. Negli anni trascorsi alla direzione del programma di Discovery Channel si era fatto una certa cultura in fatto di elicotteri. Tuttavia, i modelli lì parcheggiati non erano quelli che si sarebbe aspettato di vedere in un’innocua spedizione scientifica. C’erano UH-1 HUEY e RAH-66 Comanche, mezzi solitamente utilizzati dalle forze militari per ricognizioni a bassa quota o incursioni tra le linee nemiche.
Cosa significava?
Prima che Duncan potesse guardarsi meglio intorno, due ometti peruviani lo accolsero sorridendo e lo invitarono a prendere posto su una scarburata Daewoo Tico. In passato gli era capitato di risalire il Rio delle Amazzoni con chiatte da fiume scrostate e senza pagaia, ma non era mai salito a bordo di un’auto così malandata; neanche prima del successo di ascolti del programma, quando il budget di produzione era poco più di qualche spicciolo.
Ducan dubitava che quell’ammasso di plastica e lamiera fosse in grado di percorrere anche solo un chilometro; anzi, nemmeno credeva fosse in grado di mettersi in moto. Ma si sbagliava. La Tico si accese, emettendo dalla marmitta dense nuvole di fumo nero che si diffusero anche all’interno dell’abitacolo, irritandogli la gola e facendolo tossire. I due uomini che sedevano davanti, invece, sembravano abituati ai reflussi del gas di scarico della Tico.
Duncan si domandò se tutte le automobili peruviane versassero in quelle condizioni. Negli Stati Uniti ci si preoccupava tanto delle norme di sicurezza e delle leggi sulle emissioni di anidride carbonica e poi a poca distanza da loro certi dinosauri meccanici se ne andavano in giro come se nulla fosse. Chi era lo stupido? Chi credeva di salvare il mondo mandando allo sfascio automobili costate migliaia di dollari solo per comprarne di più nuove e grosse (e inquinanti), oppure chi frequentava le discariche e rimetteva in moto quelle auto senza sborsare nemmeno un quarto di dollaro?
Nel frattempo, la Daewoo Tico procedeva lungo una strada polverosa, sobbalzando e superando vecchie biciclette su cui alcune persone del posto portavano in giro enormi bacinelle d’acqua.
Dopo qualche chilometro di arbusti e polvere, uno dei due peruviani infranse il silenzio che regnava a bordo della Tico.
«Qualcosa non va, señor?», domandò l’uomo alla guida.
Duncan notò un’inflessione diversa rispetto la pronuncia della signora Hernandez. Argomento affascinante i dialetti, anche se non quanto la natura selvaggia.
«No, tutto bene. Grazie, signor…»
«Alfredo Pinga», disse l’altro distogliendo gli occhi dalla strada e girandosi per stringergli la mano. Duncan Hunter afferrò per un instante la mano all’autista prima che quest’ultimo tornasse a concentrarsi sulla guida. Procedevano a velocità di crociera e in assenza di traffico. Nonostante il terreno dissestato, Alfredo avrebbe potuto spostarsi nei sedili posteriori, abbracciare Duncan e poi tornare al posto del guidatore senza correre rischi.
«Lavora per la BioAn?»
«Da sei anni.»
«Si trova bene?»
«Certo, questa terra è casa mia.»
Duncan Hunter osservò il panorama e respirò a pieni polmoni. Se ignorava la puzza di benzina e olio motore, poteva già sentire il profumo della pioggia tropicale, la morbida fragranza della rugiada mattutina e l’intenso aroma selvatico dell’Amazzonia.
«Ed è meravigliosa.»
«Lo se», commentò l’autista che, dopo uno strano clangore metallico seguito da un sospiro idraulico che sembrava provenire da sotto il cofano dell’auto, aggiunse: «Cosa l’ha spinta a venire in Perù, señor Hunter?»
«Me lo hanno chiesto», rispose lui sfiorando la valigia da stiva con i lucchetti ben sigillati.
«Intendevo dire perché ha accettato», puntualizzò l’autista.
Duncan Hunter cercò gli occhi dell’uomo dallo specchietto retrovisore e scoprì che Alfredo Pinga lo stava fissando. Si sentì avvampare. Che avesse notato le occhiate che Duncan lanciava al proprio bagaglio?
«Non avevo niente di meglio da fare.»
L’ometto alla guida sorrise, soddisfatto della risposta. Non quella fornita a parole, ma quella sottintesa, data dai suoi occhi.
Duncan Hunter sapeva che non erano tanti gli uomini che arrivavano in quella terra per amore della natura. Nel corso degli anni era di più quello che l’Amazzonia aveva dato di quello che aveva ricevuto dai tanti che l’avevano saccheggiata, scambiandola per uno scrigno del tesoro, il Santo Graal a cui aspirare.
Si diceva ci fossero ancora migliaia di specie di piante e animali da scoprire con relative proprietà da individuare e sintetizzare, per non contare quelle che già si conoscevano ma che ancora andavano studiate a fondo. Dietro ogni ricerca si poteva nascondere qualche innovazione milionaria, per una vera e propria corsa all’oro della farmaceutica che coinvolgeva ogni anno centinaia di ingenui avventori, convinti di partire alla volta dell’Amazzonia così come Colombo era salpato per l’India: cambiare il mondo.
C’era chi sperava di scoprire la cura per il cancro dietro la corteggia di qualche albero, oppure chi credeva di trovare un rimedio istantaneo per il raffreddore schiacciando decine e decine di piccoli succosi insetti colorati.
Duncan Hunter, invece, amava l’Amazzonia per ciò che era e si augurava che sarebbe rimasta tale nei decenni, ponendo presto un freno a quella follia che rischiava di compromettere il delicato ecosistema del grande Polmone Verde della Terra.
«E lei è il signor?», domandò Duncan rivolgendosi all’uomo che sedeva nel posto del passeggero. Da quando erano saliti in auto, quel tizio non aveva mai aperto bocca.
«Haroldo Carlito», s’intromise Alfredo Pinga «deve perdonarlo ma di recente ha avuto un calo di voce.»
«Mi dispiace.»
«Capita spesso, in realtà. In Amazzonia al meteo piace cambiare in fretta ed è facile restare fregati.»
Duncan Hunter sorrise e tornò ad appoggiare la schiena al proprio sedile, rilassandosi, mentre la vettura guidata da Pinga procedeva lungo la strada sterrata che correva tra due ali di verdeggiante foresta pluviale. Erano attorniati dalla natura selvaggia: bastò quel pensiero a riscaldare Duncan come non gli succedeva da tempo. Altro che i pomeriggi trascorsi tra le mazze e le palline al Cal Golf Club di Los Angeles.
Poi all’improvviso, Pinga sterzò bruscamente e di fronte a loro si materializzò un mostro dalle presuntuose dimensioni. Era un edificio titanico, moderno e all’avanguardia e sorgeva in fondo a una nera lingua di asfalto, una cicatrice che si allungava nel verde della giungla. Altro che gli sgretolati edifici in calcestruzzo in stile Brasilia nella zona dell’eliporto. Attorno a quel complesso era stato predisposto un lungo perimetro di reti metalliche e non cresceva più vegetazione. Sembrava un’inespugnabile fortezza militare. Anche se quei dettagli facevano più pensare ad un carcere di provincia che alla sede di un’azienda high-tech. In alto era riportata una targa con un logo e una scritta dai caratteri cubitali dal font tropicale che diceva:
Amazzonia Resort
«Cosa diavolo…»
«Quello è il resort.»
«È opera della BioAn?»
«Sì, señor Hunter.»
Duncan restò in silenzio, inorridito dalle colate di cemento e da tutto il lavoro che era stato speso per tirare su un simile mostro urbano in piena Amazzonia. Quanti metri quadrati di foresta erano stati abbattuti? E per quale motivo poi?
«Mio Dio…», mormorò.
«E quello è niente», aggiunse Alfredo Pinga.
Duncan Hunter capì all’istante che quel weekend gli avrebbe riservato numerose sorprese. Più di quelle che credeva.
Manuel Vestrucci
Goal raggiuntooooo!! Ci vediamo in libreriaaa