Anche se non ce n’era bisogno, essendo in perfetto orario, visto che il ristorante non era troppo lontano e non sarebbe di certo scomparso per un eventuale ritardo, Angela conduceva comunque la sua minuta Smart come se avesse tra le mani una Maserati, abituata com’era a correre tutti i giorni da un ufficio ad un altro cantiere in perenne ritardo. Quella guida folle, da esigenza era diventata una caratteristica personale, poco amata da chi le stava accanto ogni volta. Non lesinava neppure ingiurie verso gli altri automobilisti, ciclisti e pedoni, ne aveva una per tutti. A volte ci andava pesante e conoscendola, fuori dalla guida, nessuno l’avrebbe mai detto, nemmeno lei. Pacata, corretta, metodica e precisa; questa era invece l’Angela conosciuta da tutti. Fu lei stessa a volere la cena di quella sera con tutti i fratelli e le sorelle, faticando non poco. Anche perché, seppure il desiderio di rivedersi era sentimento di tutti, molteplici impegni incasinavano la perfetta pianificazione della serata, ma lei come sempre ce la fece, perlomeno ad organizzarla. Arrivata sotto casa di Elisa, accostò, spense la macchina ed inviò il messaggio già scritto in precedenza, prima di partire, alla sorella. Nell’attesa, controllò gli orari dell’ultimo accesso su WhatsApp degli altri fratelli confidando che non fossero in ritardo, notò che Rachele aveva nascosto quell’informazione e questo la fece innervosire un po’. Elisa arrivò subito, salì in macchina con la richiesta di una guida tranquilla, poi salutò Angela che partì tagliando la strada ad un ciclista, categoria che avrebbe eliminato volentieri da tutte le strade del mondo.
Uscì di casa a piedi, un po’ perché aveva tempo ed un po’ perché ne aveva voglia, una camminata poteva fargli solamente bene. L’estate era alle porte, lo sentiva dall’aria appena scese in strada sotto casa, ne ebbe la prova quando attraversò il ponte verso la città. I colori del cielo e del lago all’orizzonte erano i tipici di giugno. Luciano si fermò qualche secondo a godersi quella tiepida e piacevole brezza che gli spettinava i capelli. Ammirò le onde del lago che gli ricordarono lo sfogliare delle pagine di un libro di ricordi, di cari ricordi, si riempì gli occhi con quei colori che la natura gli regalava, quanto basta per rasserenarsi un poco, respirò il tutto e proseguì, aveva voglia di una birra in solitaria. Al bancone del pub trovò Gianni, un suo amico giardiniere che si stava facendo una birra post lavoro. Alla vista di Luciano, lo invitò a farsi una birra insieme; o meglio, alla vista di Luciano ordinò due pinte di Guinnes e indicò uno sgabello a mò di saluto/invito. “Birra in solitaria saltata”, pensò Luciano, però era piacevole chiacchierare con Gianni di tanto in tanto, quindi accettò l’invito volentieri, anche perché a dire il vero non c’era alternativa. Convenevoli, saluti, brindisi e giù il primo sorso di oro nero. Luciano si accorse subito che quella non era la prima pinta per Gianni, un po’ per il brillare degli occhi ed un po’ perché attaccò col solito discorso che gli faceva ogni volta che l’alcol gli toglieva i freni emozionali, l’incidente in auto che aveva avuto qualche anno prima, nel quale Luciano arrivò a soccorrerlo coi suoi colleghi Vigili de Fuoco. L’aveva liberato dalle lamiere proprio lui in persona, Gianni era felice di questo, che fosse stato proprio Luciano, ed era certo che la buona riuscita dell’intervento fosse dipesa appunto dal fatto che a liberarlo fosse stato un suo amico, ma non era proprio così la realtà. Luciano se lo ricordava bene, benissimo; quando arrivò sul luogo dell’incidente si accorse subito di conoscere l’uomo incastrato nella macchina che urlava per il dolore, ma come sempre il suo cuore si negò ad ogni emozione. Era una reazione automatica che subiva ogni volta che affrontava un intervento importante. Luciano diventava una macchina, un tecnico del soccorso, immune ad ogni urla o scena sgradevole, quindi Gianni o chiunque fosse stato non avrebbe fatto differenza, ma al suo amico lasciava credere il contrario. Luciano ne soffriva di questo, però non poteva farne a meno perché sul lavoro era perfetto, ma a volte, quando si trovava solo in casa, senza un motivo valido, si metteva a piangere senza darsi un perché. L’unica motivazione che si diede col tempo era che quei pianti fossero un pegno da pagare, una sorta di reazione umana, come un vaso colmo che strabocca di emozioni castrate, soffocate, per tanto, troppo tempo. Con la scusa dell’orario non accettò la seconda pinta di birra, lasciò dei soldi sul bancone divincolandosi dalle proteste di Gianni sul pagamento. Notò che gli occhi di Gianni da brillanti erano diventati lucidi, lo lasciò solo ed uscì dal pub. Era stata una bevuta un po’ pesantina, non era quello a cui aveva auspicato in principio sul ponte, guardò all’interno del locale dalla finestra e vide Gianni già con un’altra birra davanti a lui sul bancone, col capo chino. Luciano sospirò e si disse tra se e se che non poteva farci nulla, l’aveva salvato dall’incidente, ora non poteva fargli da psicologo, non spettava a lui. Così col suo alibi e la sua scusa Luciano riprese il cammino e sentendo lo stomaco brontolare pensò che aveva proprio appetito, era ora di cenare.
Sarebbe scesa alla fermata successiva della metro, stazione Garibaldi. Non ne vedeva l’ora Rachele, avrebbe finalmente fumato una sigaretta in attesa di suo fratello Edoardo. Uscita dalla stazione accese la sua Camel Blu senza guardare dove stava andando, infatti urtò una persona e la sigaretta cadde a terra, l’ultima del pacchetto naturalmente. Si bloccò sul posto impietrita, fino a quando sentì vibrare il telefono nella borsa; era un messaggio di Edoardo, avrebbe ritardato. Rachele ne approfittò per comprarsi un pacchetto di sigarette, così raggiunse un bar Tabacchi nelle vicinanze. Entrò e c’era parecchia gente, si mise in fila e la sua attenzione venne catturata dalla tv, trasmetteva un fermo immagine di Sofia Goggia, “campionessa mondiale di discesa libera” dicevano i sottotitoli, l’audio non c’era. Nella foto la sciatrice teneva il trofeo tra le braccia con un’espressione del viso stanca, ma al tempo stesso felice e soddisfatta, sembrava una madre nel primo momento in cui vede il proprio figlio subito dopo la nascita, quando il dolore e la fatica svaniscono alla sola vista della creatura tanto attesa, abbracciata come un trofeo. “Chissà se diventerò madre un giorno”, pensò Rachele, pensiero subito interrotto dalla commessa che richiamò la sua attenzione. Ancora prima di uscire dal bar aveva la sigaretta in bocca, appena fuori dalla porta l’accese prestando più attenzione rispetto a prima. Mentre esaudiva il suo bisogno di nicotina col primo tiro, ritornò coi pensieri all’immagine in tv, le sarebbe bastato un pizzico della soddisfazione provata dalla sciatrice, ma per il momento andava bene anche solo fumare, ed espirando il fumo che aveva nei polmoni si diresse verso una vetrina di scarpe che aveva notato prima di entrare nel bar.
Edoardo era sempre di corsa solo tra un appuntamento e l’altro, durante i suoi impegni invece non badava all’orologio. Anche questa volta, pur essendo in ritardo e consapevole che sua sorella Rachele lo stesse aspettando, lui incalzava coi suoi aneddoti più o meno veri alla vittima di turno, il Signor Minervini, possibile acquirente dei prodotti di Edoardo. La discussione era divagata su argomenti extra lavorativi, vista la stazza del Minervini, Edoardo optò per elencare ristoranti, trattorie, vini e pietanze, lanciando consigli, dritte e recensioni. Ci beccò, ed anche bene, l’imprenditore milanese era tutto orecchi ed acquolina, ed una volta cotto a dovere, sfrecciò la sua offerta per gli arredi da ufficio che aveva in vendita, e continuando su un’area distesa e serena da trattoria il colpo era fatto, in pochi minuti ottenne contratto e firma in calce. Con una forte e decisa stretta di mano, un sorriso stampato alla segretaria all’ingresso, finalmente se ne uscì da quel posto tirando un sospiro di sollievo compiaciuto, e soddisfatto di se stesso. Mentre il suo ego spadroneggiava nella sua testa, il raziocinio gli ricordò di sua sorella, poi la vibrazione del cellulare confermò il suo presentimento. Rachele lo stava chiamando, da almeno quaranta minuti. Rispose senza salutare ripetendo solamente
«arrivo, arrivo, arrivo, …» tra un insulto e l’altro della sorella.
Rachele era ferma in piedi a bordo strada, bella che era impossibile non notarla, aveva un sacchetto in mano e l’espressione scocciata, salì in macchina ed Edoardo le chiese che scarpe aveva comprato, lei gli rispose che a quell’ora dovevano essere già a Lecco, chiudendo la frase con un «coglione!».
Passarono alcuni minuti in silenzio, nei quali Rachele restò fissa con lo sguardo fuori dal finestrino, senza in realtà guardare niente. Edoardo, dal canto suo, di tanto in tanto imprecava sottovoce contro gli altri automobilisti che non capivano la sua fretta e rispettavano cose tipo semafori rossi ed attraversamenti pedonali. Usciti dall’iniziale traffico caotico Edoardo si rilassò un attimo ed accese la radio; stavano trasmettendo la canzone “Come musica” di Lorenzo Jovanotti, «…la tua pazienza di perle, le mie teorie sull’amore…», Rachele volse lo sguardo dritto verso la strada. Edoardo cominciò a canticchiare sempre sottovoce, presero la superstrada, l’auto aumentò la velocità, Rachele sorrise, i due si scrutarono con la coda degli occhi ed al ritornello, a pieni polmoni ed a squarciagola, cantarono la canzone fino alla fine in un modo talmente stonato che li fece ridere di gusto. Una volta ripreso fiato, con le guance un po’ rosse ed il sorriso ancora stampato sul volto Rachele si rivolse a suo fratello.
«Sei un cretino!»
Edoardo di riflesso, senza lasciare lo sguardo dalla strada ribatté «Anch’io ti voglio bene!»
Continuò a guardarlo per qualche secondo, anche lei gli voleva bene, era vero, ma non glielo disse, rivolse di nuovo lo sguardo avanti, all’orizzonte si scrutavano già le montagne di Lecco, era da parecchio tempo che non le vedeva, ed anche quella volta, come tutte le altre volte, quella vista le diede un po’ di tranquillità. Non mancava molto, erano quasi arrivati, naturalmente in ritardo.
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