Forse però, prima della fine, il tuo petto avvertirà un tepore, il vento cesserà di soffiare e di nuovo, inaspettatamente, un fiocco di neve tornerà ad accarezzare il tuo viso, saziando di vera e straordinaria gioia la tua anima.
I
La periferia della vita
«Dicono che geli stanotte, hai sentito le previsioni Ani? Magari nevicherà!»
«Non nevicherà! Alla fine, non nevica mai qui. Qualsiasi cosa sarebbe meglio della pioggia. Domani c’è sciopero dei mezzi e prendo la metro alle 7. Non ho voglia di iniziare la giornata asciugando acqua vicino a quella stramaledetta finestra rotta!»
«Vedrai, se le cose vanno finalmente come dovrebbero col nuovo lavoro, facciamo le valigie e filiamo via di qui! Da questo vecchio appartamento, da questo quartiere, da questa vita».
«Certo mamma!» disse ripensando a quante volte sarebbe dovuto andar bene questo o quel lavoro negli anni passati. E a quante volte avesse pensato lei stessa di fuggire via da tutto, anche uscendo da quella finestra rotta al quarto piano. Ma poi? Ma poi c’era lei, Luiza, un casino di mamma. Un’intera esistenza di problemi, ma sempre combattiva e inarrestabile, sempre bellissima e col vestito migliore, a dispetto degli anni inclementi, dei mille lavori faticosi e degli altrettanti amori disastrosi.
Fu proprio uno di questi mille amori a condurla in una delle tante periferie malandate del Belpaese, quando era poco più che ventenne. In Romania all’epoca era considerata una delle più promettenti voci della lirica nazionale, lui era un modesto professore di filosofia, dolce e appassionato, non più giovanissimo. Lui l’amava come forse nessuno sarebbe mai stato in grado. Così dopo un non troppo lungo corteggiamento epistolare, Luiza chiuse la valigia e partì per il paese del bel canto. Portò con sé quel che aveva: il sogno di cantare, la speranza di non ripetere gli errori del passato e una bambina di tre anni: il più bello di quegli errori.
«Domani esci di nuovo presto mamma?»
«Certo… E non sbuffare ̶̶ disse cogliendo Ani brontolare volgendo gli occhi in aria ̶ è solo una situazione temporanea, te l’ho già detto!»
«Ok ma fai attenzione!» rispose pensando ai reietti che la città rigurgitava a quell’ora della notte o della mattina, a seconda di quale maschera della commedia dell’arte dei sobborghi si era costretti a indossare.
«Tranquilla, non hai nulla da temere piccola mia… tranquilla!» ripeté rassicurando Ani, ma non rassicurando se stessa. Conosceva sin troppo bene quel quartiere, l’aveva vissuto da sposina, appena edificato, sbocciato come un fiore di cappero da un vecchio muro di rocce. Aveva assistito allo slancio edilizio degli anni Ottanta, e al suo successivo disfacimento sotto i colpi del degrado, dell’abbandono. Quel piccolo appartamento con gli infissi rotti e le pareti scolorite, l’aveva comprato il suo professore, al secolo Riccardo Paolini, quando Ani era diventata troppo grande per dormire nel lettone.
Chissà cosa avrebbe pensato il vecchio professore se avesse visto dall’aldilà quel posto a lui così caro in quelle condizioni. Ma ormai non c’era, non più. C’erano Ani e Luiza, ma non solo. C’erano i senegalesi che spacciavano nel parchetto delle giostrine, ormai rotte e abbandonate, proprio lì dove andava ogni domenica mattina la piccola Ani a giocare. Mentre sui marciapiedi che un tempo costeggiavano rispettabili negozi e botteghe, c’erano solo senzatetto ubriachi e tossici. Neanche i negozi e le botteghe c’erano più, solo saracinesche chiuse, imbrattate con maldestri graffiti e frasi d’amore. Qua e là dei neon svelavano la presenza di qualche minimarket di cibo halal o di casalinghi cinesi. Nessuna traccia del quartiere residenziale di un tempo. Era morto, come il sorriso onesto e ottimista del professor Paolini.
II
Il volo del gabbiano
Bianco e con le piume che sfumano sul grigio, ampie ali e un grido forte e possente, mai spaventoso, sempre rassicurante. Il gabbiano sa di mare, di onde che si infrangono potenti sulle battigie, di sabbia e salsedine, di voli bassi in coda ai vecchi pescherecci nelle bocche dei porti, di forti scogliere e spiagge desolate. Ma allora cosa ci fai qui vecchio predone dei mari? Su questi palazzi impilati uno dietro l’altro come vagoni di un treno… Non è questo il tuo posto! Non è questa la tua natura! Il tuo becco è fatto per predare pesci a pelo d’acqua, non per raschiare il cemento; le tue ali servono a resistere al vento di burrasca carico di sale e bellezza, non ai vuoti d’aria dei tir in tangenziale. Ma forse non è questo il posto, né la natura di nessuno! Nessuno è nato per sopravvivere in questa periferia, rovistando tra i rifiuti di chi vive oltre questa barriera di cemento, oltre questi alveari di stenti, oltre quest’angoscia.
Anche se le auto di lusso hanno tutte fragranze diverse, le stazioni di periferia hanno tutte lo stesso odore, di consumato. Come una cinghia di un motore arrivata alla fine, che continua a girare anche se non dovrebbe, oppure come il battistrada di uno pneumatico in piena estate, sull’asfalto rovente.
Ani odiava quell’odore, era il suo risveglio mattutino. Frequentava una scuola in centro e ogni dì la sua giornata iniziava e finiva con quell’olezzo radicato nelle narici. Eppure si dice che dopo un po’ i sensi si abituino agli odori e alle sensazioni frequenti, come i rumori della città, le vibrazioni in strada, una musica ripetitiva di sottofondo. Ma lei no, quell’odore la nauseava sempre, come il primo giorno.
Era poco più di una tredicenne quando iniziò a frequentare il Liceo Classico D’Annunzio, una delle scuole più ambite della città, in pieno centro, a quarantacinque minuti di mezzi pubblici da casa. Era frequentata solitamente dai figli delle élites cittadine come architetti, ministri, attori ecc. Certo non erano le aule in cui ci si aspettava di trovare una bambina romena, figlia di una cameriera part-time. Non che la giovane agognasse a tali livelli di istruzione, anche se li meritava. Era stato il vecchio prof., prima di lasciare questo mondo, a infilarla in quello che era stato per lunghi anni il suo luogo di lavoro. Tutti gli insegnanti amavano Ani, perché era adorabile e molto attenta negli studi, ma forse più di tutto per il rispetto di quel grande uomo che era stato Riccardo. Ma al di là degli amorevoli insegnanti e delle belle targhe in ottone sulle vecchie porte in noce, per la giovane Ani quel posto non era proprio un paradiso. Quotidianamente a farle ricordare il suo status di immigrata romena di periferia, ci pensavano i compagni di classe.
Era sempre in disparte e fuori dal giro. Li odiava tutti, così belli e ben vestiti, con le loro vite perfette e i loro modi falsamente gentili. Tutti meno uno, Marco. Lui era diverso, l’aveva sempre trattata con dolcezza e rispetto. Ogni giorno, in cinque anni di liceo, quando si incrociavano i loro sguardi al mattino, lui la salutava sempre affettuosamente e le sorrideva, sempre. Ani ricambiava ogni volta con timida cordialità. In realtà, quel sorriso mattutino, nel mondo grigio di Ani, rappresentava l’unica sfumatura di colore. Marco era il figlio della preside dell’istituto, uno degli studenti più bravi, nonché sportivo e volontario nella parrocchia. In pratica il classico bravo ragazzo, il buon partito che ogni madre vorrebbe come sposo della propria prole. Va da sé che la prima ad accalappiarsi questo buon partito era stata Ginevra Del Gaudio, ultima rampolla di un’antica casata nobiliare fiorentina. Era lei la vera nemesi di Ani. La odiava, dai suoi occhi trasparivano l’arroganza e la presunzione tipiche di quell’antica nobiltà cittadina, convinta che il paese fosse una proprietà personale e che tutti gli stranieri fossero invasori da trattare con manganello e gladio.
In classe tutti temevano Ginevra, e per osmosi nessuno legava con Ani. Cosa che non le dispiaceva molto. Le andava bene che tutti i suoi rapporti sociali scolastici si limitassero al sorriso di Marco. Lei non apparteneva a quel mondo, e mai ne avrebbe voluto far parte. All’interno delle mura dell’aula era forte e sicura, ottimi voti e la stima dei docenti la ponevano ai vertici della classe e in ambito scolastico aveva il rispetto di tutti. Ma fuori da quelle mura non poteva competere, era debole e sola. Per questa, e forse altre mille ragioni, non ebbe mai amicizie che sforassero l’orario curricolare.
Così ogni giorno suonata la campanella dell’ultima ora, raccoglieva le sue cose e se ne ritornava al suo quartiere, alla sua vita, a quell’enclave di posticcia serenità che era il suo sgangherato palazzo, a quegli spiacevoli odori, così insopportabili e rassicuranti allo stesso tempo.
Nei pomeriggi trascorsi a studiare, di tanto in tanto il suo sguardo bucava il vetro della finestra, scrutando oltre i palazzi decadenti e le ciminiere sbuffanti, alla ricerca di qualcosa di imprecisato, forse solo di un sogno da vivere altrove, come il ritorno verso il mare di un gabbiano.
III
Scampoli di serenità
Complesso Arcobaleno. Così si chiamava l’insieme di tre palazzine ad angolo retto, che ospitavano sin dalla loro edificazione quasi trecento famiglie. Al centro di questi tre blocchi si estendeva una piazzetta di ciottoli di arenaria, contornata da gradoni tipo spalti a ridosso di una piccola fontana stagnante, un tempo zampillante. In quell’angolo di universo, Ani aveva tolto le rotelle alla sua bici, aveva rincorso per estati intere la sua amica Rosalia, aveva salutato Riccardo prima che fosse ricoverato per l’ultima volta. Seduta su quei gradoni aveva letto, aveva pianto, aveva baciato il suo primo ragazzo, aveva pronunciato la prima parolaccia in italiano perfetto. Accanto a lei da bambina, oltre a Rosalia, l’amica di sempre, spesso c’era Aurelio, un ragazzino grassoccio, con gli occhiali spessi e un dolcissimo ciuffo biondo.
«Un giorno sarò alto e magro e io te ci sposeremo!» diceva sempre alla piccola Ani.
«Guarda Rò, c’è ancora!»
«Cosa Ani?»
«Sul cemento… le nostre iniziali!». Indicando una rampa in cemento, accanto ai gradoni.
«È veroooo… incredibile! Ma quanti anni sono passati?»
«Almeno dieci credo, una vita…»
«C. A. e quel segno cos’è?»
«È una A! Aurelio, non ricordi?»
«Cacchio è vero! Quasi me lo dimenticavo quel ciccione appiccicoso!»
«No dai Rosa, era bravissimo e dolcissimo».
«Ma cosa? Lo dici solo perché era perdutamente innamorato di te e ti dispiace dire la verità!»
«Quale verità?»
«Che era un bambino obeso, con tanti di quei problemi, non ultimi quelli mentali… Ricordi quando il padre scappò di casa? Non ha parlato per due anni! Neanche un fiato, un verso… Ti ricordi?»
«Che esagerata! Aurelio ha avuto la sua parte di vita di cacca, come tutti noi del resto… Ma non tutti hanno la stessa forza o la stessa fortuna! E poi non offenderlo, potrebbe farsi vivo un giorno e chiedermi di sposarlo… di nuovo! E questa volta potrei anche accettare».
Sorrisero entrambe con un velo di malinconia. Quel ragazzo, Aurelio, era divenuto un fantasma; erano anni che non si faceva vivo, abitava ancora in quei palazzi, ma la periferia l’aveva inghiottito e nessuno sapeva più nulla di lui, né lo vedeva in giro.
«Sono una squattrinata studentessa immigrata romena, abito in una casa che cade letteralmente a pezzi e sono l’anti-femmina per qualsiasi uomo… Un ragazzo che vuole sposarmi, anche se pericoloso per sé e per gli altri, non è da buttar via così».
«Eccola qui la solita scena madre, la vittima della società… Questa scommetto funziona nella scuola per ricconi che frequenti! Allora… sono siciliana e nonostante vivo qui quasi dalla nascita, vengo considerata più straniera di te. Sono alta circa venti centimetri meno di te e, oltre a non avere i tuoi ipnotici occhi verdi e le lunghe gambe, se non faccio la ceretta almeno una volta alla settimana mi scambiano per un pinscher. Quindi mi sa tanto che sono io a dover tenere in considerazione un eventuale ritorno del morbido psicopatico!»
Le due ragazze risero e i loro cuori si congiunsero.
L’asprezza di un’esistenza è meno acuta se qualcuno la condivide con te. La tragedia è sempre dietro l’angolo, ma nessuno ci pensa. Si va avanti perché non si ha scelta. Dietro ogni porta, dentro ogni focolare ci sono drammi quotidiani. Un ragazzo si dà alla vena, qualche marito ubriaco picchia la moglie, delle ragazzine si danno via per una ricarica. Questo e altro rappresentano il gran menù del quartiere e ognuno ne saggia almeno una portata. Ma tutti vanno avanti danzando dolcemente su di una lama, con grande maestria, indifferenti alla paura dell’incertezza, sempre così fatalmente minacciosa.
«Andiamo Ani, si sta facendo tardi… Fra un po’ arrivano Buba e i suoi a iniziare il turno… E stasera non ho voglia di farmi palpare per due tiri a una canna».
«Non so come fai a cacciarti sempre in queste situazioni!» disse Ani scuotendo la testa e sorridendo.
«Io non mi ci caccio, io ci vivo in queste situazioni! Guardati intorno! Pensi che l’altro lato dell’isolato, dove bivaccano i tuoi compaesani, sia diverso? È la stessa merda Ani… Io non mi chiudo in casa a studiare come te, sperando di sfangarla un giorno e andare via lontano. Io da questo posto non me ne andrò mai, lo so! Tanto vale abituarsi al suo sudiciume. Sempre meglio di stare a casa e sentire le prediche di mio padre su tatuaggi e piercing, cercando inutilmente di convincerlo che non venero Satana».
Le due amiche rientrarono a casa e in silenzio, entrambe, ripensarono alle parole di Rosalia che, profetiche o meno, in quel momento sembravano così reali.
Chi si salverà? Chi no? Tutti abbiamo una chance o solo alcuni? Oppure nessuno si salva, perché in realtà non esiste nessuna salvezza.
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