«Domani esci di nuovo presto, mamma?»
«Certo… E non sbuffare» disse, cogliendo Ani brontolare mentre volgeva gli occhi in aria. «È solo una situazione temporanea, te l’ho già detto!»
«Ok, ma fai attenzione!» rispose la ragazza, pensando ai reietti che la città rigurgitava a quell’ora della notte o della mattina, a seconda di quale maschera della commedia dell’arte dei sobborghi si era costretti a indossare.
«Tranquilla, non hai nulla da temere, piccola mia… tranquilla!» ripeté Luiza rassicurando Ani, ma non se stessa.
Conosceva sin troppo bene quel quartiere. L’aveva vissuto da sposina, appena edificato, sbocciato come un fiore di cappero da un vecchio muro di rocce. Aveva assistito allo slancio edilizio e al suo successivo disfacimento sotto i colpi del degrado, dell’abbandono. Quel piccolo appartamento con gli infissi rotti e le pareti scolorite l’aveva comprato il suo professore, al secolo Riccardo Paolini, quando Ani era diventata troppo grande per dormire nel lettone.
Chissà cosa avrebbe pensato il vecchio professore se dall’aldilà avesse visto le condizioni di quel posto a lui così caro. Ma ormai non c’era, non più. C’erano Ani e Luiza. C’erano i senegalesi che spacciavano nel parchetto delle giostrine ormai rotte e abbandonate, lo stesso in cui la piccola Ani andava a giocare ogni domenica mattina. C’erano i senzatetto ubriachi e tossici sui marciapiedi che un tempo costeggiavano rispettabili negozi e botteghe, di cui adesso rimanevano solo le saracinesche chiuse e imbrattate con maldestri graffiti e frasi d’amore. Soltanto qua e là dei neon svelavano la presenza di qualche minimarket di cibo halal o di casalinghi cinesi.
Il quartiere residenziale di un tempo era morto, come il sorriso onesto e ottimista del professor Paolini.
IL VOLO DEL GABBIANO
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.