Giro piano la chiave nella serratura che non si apre. Un piccolo colpetto a destra, il gioco è fatto.
Non l’ha riparata. Chissà perché, dato che è sempre stata così precisa.
L’aroma che si diffonde è inconfondibile, inspiro profondamente. Odore di casa Corinda, odore buono, odore di famiglia, odore di appartenenza.
Velocemente lo sguardo vaga, ordine ovunque. Di fronte a me la scala di legno massiccio. In cima, ad aspettarmi, la lunga fila di quadri dei miei antenati, segno tangibile del tempo che scorre.
Un ritratto con la mia vecchia Nikon sarebbe stato l’ideale per il viso di nonna, ma lei trovava più adatto un dipinto. “L’arte è fatta di fatica, sudore, dedizione, uno scatto di due secondi non può immortalare un volto che ha impiegato anni a mutare. L’arte è al servizio della bellezza, intesa come studio, colore, prospettiva, ispirazione, cambiamento. La fotografia è la rovina dell’arte, ecco cos’è.”
Il suo mantra apparentemente logico era per me privo di senso.
Quando scatto imprimo l’eterno, l’adesso, il subito, qui e ora. Lo immortalo. Niente è più come sembra eppure è tutto così reale. Non cambio prospettiva, non idealizzo ciò che non c’è e in questo sottintendo pure l’imprevisto, tutto ciò che può accadere tra il momento in cui fisso l’inquadratura e scatto la foto. È questione di un attimo che si trasforma in eternità.
Uno squillo mi fa sobbalzare.
Doc.
«Ehi, Little Queen, tutto bene?» La sua inconfondibile voce profonda, calma, tranquilla. In un attimo sono a casa.
«È finita. Ed è tutto così triste.»
«Lo so, ti va di parlarne?»
«Preferirei non ora, ci sentiamo più tardi?»
«Quando vuoi, sai dove trovarmi.»
Incontrai Doc nella primavera del 2022. Un incontro casuale, come tanti. Ero alla ricerca di dettagli per il mio racconto da pubblicare per la rivista Hel. Mi mancava un tassello per capire e solo lui poteva essere in grado di darmelo.
Era stato il chirurgo che aveva operato e seguito nella malattia Simonne, una giovane scozzese morta nel 2021.
Generalmente mi occupo di storie differenti, sono sempre alla ricerca di qualcosa legato al passato, lasciato in sospeso. Ciò che attira la mia attenzione è il vissuto, l’annoso, il consumato. Ma questa volta è stato diverso. Sono bastate poche parole.
“Io e te. Te e io.”
Un enorme pietra bianca con questa incisione. Nessun nome e cognome evidente. Nessuna data.
Solo una piccola croce più avanti, spostata sulla destra con una scritta bianca: “Campbell Simonne”.
E le ricerche mi condussero a lui, ad Alexander Whilson. E una mattina di primavera il nostro sguardo si incrociò per la prima volta.
Entrai nel suo studio con il direttore del personale che mi aveva accompagnato per descrivere il motivo della mia visita e per fare da filtro al carattere non facile del dottore. Aveva da poco terminato una lunga operazione. Era chino sulla scrivania ad appuntare gli ultimi fondamentali dettagli di quanto accaduto la notte prima.
Mentre l’uomo minuto alla mia destra cominciò a vomitare parole senza un apparente senso su quello che ero venuta a fare, lui non si mosse. Potevo osservare solamente la nuca scura e la mano che si muoveva sul foglio. Lo interruppi bruscamente e presi la parola.
«Mi chiamo Arlene. Arlene Della Morte. Ho bisogno del suo aiuto.» Lui si fermò, posò delicatamente la penna sul tavolo e mi fissò.
Mi guardò un solo istante. E quell’istante bastò. Ebbi una stranissima sensazione di calore, mi sentii a casa.
Riprese la penna e ricominciò a scrivere. «E in cosa posso esserle utile, Arlene Della Morte?»
La sensazione successiva che provai fu ben diversa, quel suo modo di fare arrogante mi urtava da morire. Non so dire se furono quelle poche parole, il modo in cui furono pronunciate o il gesto che ne seguì, ma pensai che quell’uomo dovesse in qualche modo essere punito. Sì, punito.
Mi irritava la sua sicurezza, mi irritava soprattutto come mi stava facendo sentire. Solitamente rimango indifferente a chiunque abbia di fronte, mi proteggo. Lui senza fare apparentemente nulla di particolare stava superando la soglia e, cosa ancor più grave, io glielo stavo permettendo.
Cominciai a raccontare la storia di Simonne e a porre alcune domande. Il fastidio iniziale che mi suscitò la sua prima risposta cominciò a diminuire a mano a mano che parlava. Alla quarta domanda mi fissò dritto negli occhi e sorrise.
Quel sorriso, il suo sorriso.
Rimanendo con lo sguardo fisso su di me sentenziò: «La nostra conversazione per oggi termina qui, ho una famiglia che vuole avere delle informazioni su un suo familiare, arrivederci signori, a presto, Arlene Della Morte».
E di nuovo quella brutta sensazione.
L’uomo minuto mi prese tempestivamente sottobraccio e mi condusse velocemente fuori dalla stanza.
Fissammo un altro appuntamento con la sua segretaria per il mattino seguente.
E lì parlammo, a lungo. Situazione molto insolita per me. Ci incontrammo casualmente lungo il corridoio, lui si appoggiò al radiatore spento e cominciammo discorsi sui più svariati argomenti per un paio d’ore. Senza sosta.
Era come se dovessi raccontare a lui, solo a lui, tutto quello che non ero riuscita a dire in questi anni.
Qualcuno via via veniva a interromperci per chiedere qualcosa relativo ai pazienti, ma lui non si muoveva, rispondeva gentilmente e liquidava subito dopo chiunque arrivasse.
Uscita dall’ospedale mi sentii leggera, come liberata da un peso. Quell’uomo mi faceva star bene, era come una cura efficace a tutte le mie inquietudini.
Ci rivedemmo due giorni dopo. Fu lui inaspettatamente a cercarmi: la sua segretaria aveva contattato la rivista esprimendo la necessità del dottore d’incontrarmi di nuovo la mattina seguente alle dieci.
Fui piacevolmente sorpresa della richiesta, dato che le domande che necessitavano di una risposta erano finite e immaginavo che le nostre strade si sarebbero in qualche modo separate.
Oltretutto per me era più che mai necessario. Avevo imparato da tempo che era meglio non affezionarsi a nessuno, troppo dolore per un eventuale distacco, meglio tutelarsi.
«Deve avere detto o fatto qualcosa di speciale al dottor Whilson per farlo scomodare e venire a cercarla.»
«Come scusi?» L’affermazione della segretaria mi lasciò stranita.
«Intendevo dire che di solito non cerca mai nessuno, sono gli altri ad avere bisogno di lui, se mi ha chiesto insistentemente di trovarla e riportarla qui, immagino che deve avergli fatto una buona impressione.»
Sorrisi compiaciuta. In quell’istante lui entrò nella stanza.
renzina.bianchini (proprietario verificato)
ARLENE DELLA MORTE – Ricordi di polvere
Loredana Pasini
Arlene è una giovane donna, curiosa e inquieta, che ama fotografare i cimiteri. Rientra in Italia per i funerali della nonna e, nel piccolo cimitero di paese in cui la nonna viene sepolta, attira la sua attenzione la stele su cui è inciso il nome di un bambino di 4 anni, semplicemente Ugo.
Arlene fotografa la stele e da lì inizia una lunga e complicata ricerca per scoprire l’identità di Ugo. Sarà l’occasione per scoprire la vita del bambino e, attraverso luoghi e persone, ritrovare e ripercorrere la sua stessa vita. Questa ricerca sarà il filo conduttore del racconto.
Arlene ci racconta la sua vita, la sua infanzia, i suoi dolori, le sue amicizie, le tappe e le persone che l’hanno segnata e inoltre il suo complicato amore che pervade la narrazione. Attraverso un percorso difficile ricostruisce anche i rapporti familiari e riesce finalmente a dare un senso a cose che sembravano oscure. Nel suo viaggio di ricerca delle origini del bambino della stele, parla di Valtellina, di luoghi – Sondrio e paesi –, di chiese e dipinti e di persone che la aiutano, alcune reali, alcune frutto della sua fantasia. Ma anche di vino, di mele, di miele, di cibi tipici della cultura valtellinese.
Si tratta di una lettura piacevole, molto scorrevole che conduce con facilità alla conclusione, con la curiosità di scoprire il mistero racchiuso nel piccolo cimitero. Belli i riferimenti alla moda, i più attenti coglieranno alcuni “camei” dell’autrice stessa.
Erica Trabucchi (proprietario verificato)
Dopo aver letto il libro, posso solo sperare che venga pubblicato. Ho trovato la storia molto attuale: Arlene vive una vita sentimentale difficile, deve riconoscere i segni di un amore malato ma nello stesso tempo deve affrontare un viaggio dentro di sé per capire dove si trovi la fonte di un dolore grande come quello che l’ha segnata nel passato. Nello stesso tempo è un romanzo storico: partendo da una stele antica in una piccola chiesa valtellinese, comincia un percorso di ricerca e racconto di un passato che sembra perduto ma che vive ancora in chi crede nella forza delle montagne, dei suoi abitanti e dei prodotti della natura che ancora la montagna offre a chi, faticosamente, la coltiva e se ne prende cura. Qualche rimaneggiamento linguistico che un buon editing farà e sarà un gran bel libro da rileggere la prossima estate sotto l’ombrellone. Erica