Al ritorno ho parcheggiato la macchina lungo il viale vicino a casa, mentre camminavo mi sono imbattuta nei manifesti mortuari appesi al muro. E mi è capitato di leggere il mio nome e il mio cognome.
Corinda Quadrio. Possa la sua memoria essere eterna. Si è serenamente spenta Corinda Quadrio vedova Salis. Ne annunciano la triste scomparsa la figlia Maria, i nipoti Raffaele, Pamela e Arlene.
Immagino il mio manifesto funebre.
Il mio funerale.
Voglio che venga suonato Last Christmas degli Wham, anche se fossimo nel mese di agosto. Voglio che la gente canti a squarciagola, felice.
Felice di avermi conosciuto, felice di aver condiviso con me un pezzo del mio cammino e soprattutto felice di essere viva.
Di non essere lei dentro quella bara e avere l’occasione di dedicarsi a un nuovo progetto o tornare su uno abbandonato, desiderato da troppo tempo.
Io non temo la morte e amo troppo la vita.
Giro piano la chiave nella serratura che non si apre. Un piccolo colpetto a destra, il gioco è fatto.
Non l’ha riparata. Chissà perché, dato che è sempre stata così precisa.
L’aroma che si diffonde è inconfondibile, inspiro profondamente. Odore di casa Corinda, odore buono, odore di famiglia, odore di appartenenza.
Velocemente lo sguardo vaga, ordine ovunque. Di fronte a me la scala di legno massiccio. In cima, ad aspettarmi, la lunga fila di quadri dei miei antenati, segno tangibile del tempo che scorre.
Un ritratto con la mia vecchia Nikon sarebbe stato l’ideale per il viso di nonna, ma lei trovava più adatto un dipinto. “L’arte è fatta di fatica, sudore, dedizione, uno scatto di due secondi non può immortalare un volto che ha impiegato anni a mutare. L’arte è al servizio della bellezza, intesa come studio, colore, prospettiva, ispirazione, cambiamento. La fotografia è la rovina dell’arte, ecco cos’è.”
Il suo mantra apparentemente logico era per me privo di senso.
Quando scatto imprimo l’eterno, l’adesso, il subito, qui e ora. Lo immortalo. Niente è più come sembra eppure è tutto così reale. Non cambio prospettiva, non idealizzo ciò che non c’è e in questo sott’intendo pure l’imprevisto, tutto ciò che può accadere tra il momento in cui fisso l’inquadratura e scatto la foto. È questione di un attimo che si trasforma in eternità.
Uno squillo mi fa sobbalzare.
Doc.
«Hey Little Queen tutto bene?» la sua inconfondibile voce profonda, calma, tranquilla. In un attimo sono a casa.
«È finita. Ed è tutto così triste».
«Lo so, ti va di parlarne?».
«Preferirei non ora, ci sentiamo più tardi?».
«Quando vuoi, sai dove trovarmi».
Ho incontrato Doc nella primavera del 2022. Un incontro casuale, come tanti. Ero alla ricerca di dettagli per il mio racconto da pubblicare per la rivista Hel. Mi mancava un tassello per capire e solo lui poteva essere in grado di darmelo.
Era stato il chirurgo che aveva operato e seguito nella malattia Simonne, una giovane scozzese morta nel 2021.
Generalmente mi occupo di storie differenti, sono sempre alla ricerca di qualcosa legato al passato, lasciato in sospeso. Ciò che attira la mia attenzione è il vissuto, l’annoso, il consumato. Ma questa volta è stato diverso. Sono bastate poche parole.
Io e te. Te ed io.
Un enorme pietra bianca con questa incisione. Nessun nome e cognome evidente. Nessuna data.
Solo una piccola croce più avanti, spostata sulla destra con una scritta bianca: Campbell Simonne.
E le ricerche mi hanno condotto a lui, ad Alexander Whilson. E una mattina di primavera il nostro sguardo si è incrociato per la prima volta.
Entrai nel suo studio con il direttore del personale che mi aveva accompagnato per descrivere il motivo della mia visita e per fare da filtro al carattere non facile del dottore. Aveva da poco terminato una lunga operazione. Era chino sulla scrivania ad appuntare gli ultimi fondamentali dettagli di quanto accaduto la notte prima.
Mentre l’uomo minuto alla mia destra cominciò a vomitare parole senza un apparente senso su quello che ero venuta a fare, lui non si mosse. Potevo osservare solamente la nuca scura e la mano che si muoveva sul foglio. Lo interruppi bruscamente e presi la parola.
«Mi chiamo Arlene. Arlene Della Morte. Ho bisogno del suo aiuto». Lui si fermò, posò delicatamente la penna sul tavolo e mi fissò.
Mi guardò un solo istante. E quell’istante bastò. Ebbi una stranissima sensazione di calore, mi sentii a casa.
Riprese la penna e ricominciò a scrivere. «E in cosa posso esserle utile Arlene Della Morte».
La sensazione successiva che provai fu ben diversa, quel suo modo di fare arrogante mi urtava da morire. Non so dire se furono quelle poche parole, il modo in cui furono pronunciate o il gesto che ne seguì ma pensai che quell’uomo dovesse in qualche modo essere punito. Sì, punito.
Mi irritava la sua sicurezza, mi irritava soprattutto come mi stava facendo sentire. Solitamente rimango indifferente a chiunque abbia di fronte, mi proteggo. Lui senza fare apparentemente nulla di particolare stava superando la soglia e cosa ancor più grave, io glielo stavo permettendo.
Cominciai a raccontare la storia di Simonne e a porre le domande di cui avevo bisogno. Il fastidio iniziale che mi suscitò la sua risposta cominciò a diminuire man mano che parlava. Alla quarta domanda mi fissò dritto negli occhi e sorrise.
Quel sorriso, il suo sorriso.
Rimanendo con lo sguardo fisso su di me sentenziò: «La nostra conversazione per oggi termina qui, ho una famiglia che vuole avere delle informazioni su un suo familiare, arrivederci signori, a presto Arlene Della Morte».
E di nuovo quella brutta sensazione.
L’uomo minuto mi prese tempestivamente sottobraccio e mi condusse velocemente fuori dalla stanza.
Fissammo un altro appuntamento con la sua segretaria per il mattino seguente.
E lì parlammo, a lungo. Situazione molto insolita per me. Ci incontrammo casualmente lungo il corridoio, lui si appoggiò al radiatore spento e cominciammo discorsi sui più svariati argomenti per un paio d’ore. Senza sosta.
Era come se dovessi raccontare a lui, solo a lui, tutto quello che non ero riuscita a dire in questi anni.
Qualcuno via via veniva ad interromperci per chiedere qualcosa relativo ai pazienti, ma lui non si muoveva, rispondeva gentilmente e liquidava subito dopo chiunque arrivasse.
Uscita dall’ospedale mi sentii leggera, come liberata da un peso. Quell’uomo mi faceva star bene, era come una cura efficace a tutte le mie inquietudini.
Ci rivedemmo due giorni dopo. Fu lui inaspettatamente a cercarmi: la sua segretaria aveva contattato la rivista esprimendo la necessità del dottore d’incontrarmi di nuovo la mattina seguente alle dieci.
Fui piacevolmente sorpresa della richiesta, dato che le domande che necessitavano una risposta erano finite e immaginavo che le nostre strade si sarebbero in qualche modo separate.
Oltretutto per me era più che mai necessario. Avevo imparato da tempo che era meglio non affezionarsi a nessuno, troppo dolore per un eventuale distacco, meglio tutelarsi.
«Deve avere detto o fatto qualcosa di speciale al dottor Whilson per farlo scomodare e venire a cercarla».
«Come scusi?». L’affermazione della segretaria mi lasciò stranita.
«Intendevo dire che di solito non cerca mai nessuno, sono gli altri ad avere bisogno di lui, se mi ha chiesto insistentemente di trovarla e riportarla qui, immagino che deve avergli fatto una buona impressione».
Sorrisi compiaciuta. In quell’istante lui entrò nella stanza.
«Signorina Della Morte buongiorno, venga pure nel mio ufficio».
Ed anche in quell’occasione parlammo per ore e ore, più che altro fui io ad intrattenerlo, raccontandogli dei miei progetti, del mio lavoro, del perché amo la fotografia.
Parlammo di vita, di morte, di arte, di cucina. E il tempo passò, rapido ed inesorabile. Fu la segretaria ad interromperci per comunicare il suo appuntamento per pranzo.
«Mi spiace ma purtroppo devo scappare, non posso rimandare».
«È stato un piacere parlare con lei, mi scuso per averle rubato tempo prezioso».
«Sono io che dovrei chiederle scusa. Sono io che l’ho disturbata».
Sorrisi, compiaciuta. «Beh, credo che a questo punto potremmo darci del tu, non crede?».
«Direi di sì, Arlene».
«Direi di sì, Alexander».
Ci guardammo un ultimo istante, ci sorridemmo e uscii dalla stanza.
Notando la segretaria che ci osservava da quando era entrata, arrossii. Non so perché successe, ma questo non prometteva nulla di buono.
Passarono alcuni giorni durante i quali mi capitò spesso di pensare a Doc. Sì, il dottore, nella mia testa era già Doc.
Mi suonava più familiare, anche nel telefonino l’avevo memorizzato così. E feci qualcosa che non avrei dovuto fare, ma la tentazione fu più forte.
In men che non si dica, messaggio e invio. E alla stessa velocità, una risposta.
-Buongiorno signorina Arlene, con vero piacere, ci vediamo all’uscita dell’ospedale oggi alle 16:00-
Ci misi del tempo dopo pranzo a cercare l’outfit adatto per quell’incontro. Optai per un total look noir, come se avessi alternative, pensai.
Tubino nero, il mio colore.
Il colore del tutto e del niente.
Nell’eventualità che l’incontro fosse proseguito con una cena, sarebbe stato perfetto.
Arrivai puntuale, avvenimento insolito per me. Attesi una decina di minuti e poi decisi di inviare un messaggio.
-Sono qui all’ingresso-
Passarono altri dieci minuti. Nessuna spunta blu. Al posto di andarmene, come avrei fatto di solito, scelsi di salire nel suo ufficio. La segretaria non c’era.
Sentii delle voci provenire dietro la porta. D’istinto bussai.
«Avanti!». Sentenziò una voce decisa e irritata.
Aprii con decisione. La conversazione s’interruppe bruscamente e quattro occhi mi puntarono.
«Ciao Alexander. Scusami, tutto bene?».
«Certo, perché?».
«Avremmo dovuto vederci? Non ricordi?».
«Scusami». Guardò nervosamente l’orologio «Il problema è che qui non ho finito».
Le mie gambe s’irrigidirono, finsi un’apparente calma e con il più falso dei sorrisi risposi:
«Non preoccuparti, sarà per un’altra volta».
Arretrai portando la porta a me e la chiusi.
I toni della voce all’interno della stanza cominciarono di nuovo ad animarsi.
Lasciai l’edificio con una brutta sensazione. Quell’uomo riusciva a donarmi le emozioni più contrastanti.
Mi calmava e mi urtava nel profondo, ma dimenticando l’incontro aveva superato il limite.
La prima volta che riuscivo ad essere me stessa e subito ne rimanevo ferita. Meglio chiudersi di nuovo, troppo dolore, troppa fatica.
Anzi no, dovevo restituirgli quell’inquietante turbamento. Semplice, l’avrei sedotto e poi allontanato, illuso e poi deluso. Mi avvicinai a casa più serena, sulla carta il mio proposito sembrava perfetto.
Capitolo secondo
Venerdì 27 ottobre
Il modo in cui osservo il mondo.
La prima volta che ho scattato fotografie di un camposanto è stato a Londra, al cimitero di Highgate.
Il primo scatto: l’ingresso in pietra bianca e le sue imponenti colonne.
Da lì ho assaporato i rumori provenire dalla città moderna lontana. Il mio sguardo ha vagato lungo l’alto muro grigio a protezione del luogo sacro.
Ogni pietra narrava una storia.
Varcata la soglia oscura mi sono ritrovata in una Londra vittoriana, singolare, spavalda, inconsapevole ed impaurita.
Nella parte vecchia del cimitero il lustro dell’epoca fatto di balli e crinoline era sommerso da foglie, rami intrecciati e piante. Come se i sotto borghi sovraffollati dei vicoli oscuri e malfamati di una Londra ottocentesca avessero voluto prendersi una rivalsa dai torti subiti.
Quella Londra dove l’odore delle fumerie d’oppio si mescolava all’acqua di rose, lavanda e gelsomino, di lui erano intrisi i fazzoletti della nobiltà per nasconderne i cattivi odori.
Le donne e i bambini che vivevano il loro inferno quotidiano nelle stamberghe della città povera, equivoca e nascosta sembravano rincorrersi tra vecchi e stanchi mausolei di ricchi pomposi.
La nebbia, resa densa dalle sfumature verdognole dell’inquinamento vittoriano, ristagna ancora oggi sugli antichi marmi della borghesia timorata di Dio.
Ed è qui che senza dubbio si nasconde il corpo e l’animo di Jack. La ragione della mia visita.
Lui, Jack lo squartatore. L’uomo che provocò la morte ad innumerevoli vittime, donne inconsapevoli del proprio destino.
Quale sarà stato il movente di tanto orrore? Cosa può aver portato un uomo ad eleggersi al di sopra delle regole della natura e di quelle divine?
Rimane per me un mistero, come lo sono vita e morte. Legate ed interconnesse.
Unica certezza: laddove ogni cosa ha origine, ogni cosa si conclude.
Non potevo rimanere indifferente alle vicende di Jack e delle sue vittime. Ho vagato a lungo quella sera in cerca di un possibile indizio che mi svelasse qualcosa, qualunque cosa che potesse dare un senso, una spiegazione plausibile a tanto orrore.
Ho osservato attraverso l’obiettivo della mia macchina fotografica ogni piccolo dettaglio, in cerca di una traccia.
Ho più volte calpestato la terra che probabilmente ne nascondeva il corpo, ma non ho avuto risposta alcuna. Il mio fallimento era implicito, ma mi ritengo possibilista, quindi incline all’inaspettato. Valeva un tentativo.
Il mio cervello è abituato a lavorare con le immagini. La fotografia è il mio codice, il mio linguaggio, con essa mi esprimo.
È il mezzo grazie al quale riesco a cogliere maggiori informazioni su ciò che mi circonda. Speravo che con questa tecnica venisse alla luce anche solo un piccolissimo dettaglio, che magari…
Non saprei nemmeno io definire cosa stessi cercando, ma è stato comunque la conclusione di un viaggio e quel luogo mi aveva aperto nuovi mondi e fatto intravedere nuove prospettive sull’intera vicenda.
Leggendo le biografie delle cinque vittime attribuite a Jack, mi sono chiesta se loro stesse avessero considerato necessaria la morte, arrivate a quel punto della loro vita.
Storie di donne sofferenti, di vite ingiuste, difficili e contorte. Che nemmeno la morte ha lasciato indifferenti e il destino ha fatto beffa di loro rendendole immortali in modo lugubre e macabro.
La fotografia riesce a fermare il tempo. Cattura l’istante e lo fa proprio. E con lui intrattiene emozioni, pensieri ed attimi di vita. E quegli attimi divengono eterni.
Rende ciò che ritrae inconsapevolmente immortale.
È successo anche a loro, Mary Ann, Annie, Elizabeth, Catherine e Mary Jane. Alle loro immagini, da vive e da morte.
Le prime vivide e dichiaranti, le seconde spiacevolmente macabre. E lo stretto rapporto che qui intercorre tra morte e fotografia è sottile e costante.
Nei ritratti dei corpi violentemente deturpati il tempo è rimasto bloccato, sospeso, per isolare un istante che altrimenti sarebbe stato destinato a dileguarsi nel flusso del tempo.
È uno stretto dialogo tra il presente e l’obiettivo della macchina che lo imprime rendendolo eternamente vivo.
Hic et nunc, qui e ora.
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