Allo stesso modo nasce la pagina bianca su cui l’inchiostro nero allinea e dirige il suo corso e la sua direzione. Oltre i rigagnoli della corteccia in primo piano si vedono due file di alberi: una più in evidenza, l’altra sullo sfondo. La conformazione dei rami è regolare, come prodotta in serie, i più sono stretti e nervosi, spesso intrecciati. Vi si nota una caratteristica principale, grazie a una visione d’insieme: i grovigli più vicini sono prevalentemente spogli, gli altri più in profondità vestono ancora i loro abiti autunnali.
Nessuno, in scuole e luoghi da lui frequentati, aveva spiegato a Billy il detto secondo il quale le virtù possono derivare anche dalla capacità di tenere insieme due idee antitetiche nella mente. Non aveva mai letto Fitzgerald, Bob Dylan era un ologramma preistorico di cui poteva giurare di non aver mai sentito la voce. Metteva all’opera, in compenso, cenni di buonsenso che aveva appreso tra le mura domestiche. Come tutti un giorno s’innamorò di una ragazza impossibile. Due strade, le loro, destinate a non incontrarsi. La delusione nel giovane fu un duro colpo per la sua raddoppiata timidezza. Quell’estate dedicò la maggior parte del suo tempo al lavoro, a un ozio produttivo e a nuovi studi in una fattoria di famiglia.
Un giorno, molti mesi dopo, una vicina di casa portò con sé, oltre alla compagnia per un tè, una fotografia strabiliante, un’immagine che lasciò tutti senza fiato. La protagonista era quella ragazza, dal sorriso raggiante in un abito alieno e con un grattacielo illuminato alle sue spalle. Un fulmine nel mezzo delle ore pomeridiane. Billy scoprì l’esistenza delle grandi città del paese o, meglio, si rese realmente conto della loro consistenza. New York, Los Angeles, Chicago erano soltanto nomi sentiti alla radio, in qualche canzone della Top 40, oppure letti su cartelloni di agenzie turistiche sulla strada o, ancora, ricamati su una felpa. La contrapposizione tra quelle due realtà prese corpo, a quel tempo per lui sarebbe stato facile dire quale delle due file di alberi rappresentasse le città e quale i suoi confini abituali. Roy Orbison cantava per le anime tormentate ma la radio della casa di Billy non raggiungeva quelle frequenze e la superficie del mondo per lui poteva spiegarsi con poche parole. Chiese ad alcuni amici notizie di quella ragazza che aveva lasciato la cittadina e scoprì che era riuscita ad andare a ballare tra le luci scintillanti della città grazie all’iscrizione a una specie di università.
Passarono giorni, per molti di questi dimenticò tali pensieri e la vita di sempre riprese la sua marcia senza grandi destabilizzazioni.
In una pausa dalla storia, come in marmoreo movimento, scolpiti su un bassorilievo, si riescono a scorgere alberi dal legno di sequoia. Tra le intersezioni, i percorsi dei rami e i colori opachi delle poche foglie si distende l’azzurro del cielo, limpido nel bacio del sole che irradia le prime gelide giornate di passaggio verso l’inverno. Le dita grinzose di un vecchio zio giravano le stazioni della radio e le frequenze miglioravano col passare dei giorni, laggiù. Il suo Parkinson gli permetteva di comunicare a stento ma era dagli occhi che si potevano intravedere l’amore e il sollievo che, a cadenza irregolare, l’ascolto gli regalava.
Una sera, poco prima del tramonto, Billy tornò a casa e sentì un insolito brusio proveniente dalla cucina. Lasciò la sacca in anticamera e vide facce nuove scherzare con i suoi familiari. Si trattava di parenti alla lontana, ritornati sulle tracce delle loro origini. Vivevano in città e dissero che sarebbero stati lieti di ospitare qualcuno di loro in futuro. Raccontarono di avere delle figlie che fumavano tabacco e che ballavano tutti i balli più in voga. La notte portò al ragazzo la possibilità di una fuga e un mal di testa da liquori mai assaggiati prima con tanto di capogiro. In estate sarebbe andato alla scoperta della vita metropolitana.
Così il vecchio Billy conobbe New York e tutte le sue meraviglie. Si trovava abbastanza bene con cugine e cugini conosciuti da poco. Restò inizialmente inebriato dal ritmo pulsante della città, dalla sua musica, dalla quantità di persone che attraversavano le sue strade, dai riflessi di vetri e sguardi. Si tenne in disparte dalle luci che, in apparenza, abbagliano più di altre e che, nel profondo, contengono poco o nulla.
Scattò la foto che è giunta a me a Central Park, in una giornata di sole, durante una passeggiata alle prime ore del mattino. Gli alberi sono inquadrati come dalla cintola in su, non si scorgono figure umane.
Ho saputo che in autunno era tornato alla sua cittadina, grato per la nuova esperienza e sempre più saggio nelle sue vedute. La sua era stata una scelta ponderata, non più una valutazione impressionistica a priori.
Chissà se in quei giorni aveva visto, seduto al tavolino di un caffè, un uomo non molto più grande di lui per età, con una giacca nera di jeans e un paio di occhiali da vista nel taschino della camicia. Non so se gli sarebbe stato possibile notare l’articolo che stava scrivendo su un noto musicista locale, la cui madre viveva nella stessa via della villetta della sua famiglia.
Il racconto nasce da cellulosa e rami sgangherati, non privi di pulsioni vitali.
La signora mi raccontò quasi per caso di quel giovane e di tutta la popolazione del vicinato. Ascoltai incuriosito, confidando che, di lì a poco, sarebbe tornata sul binario originario della conversazione. Pensai, forse a torto, che si potesse trattare di una sorta di ricerca nelle pieghe dei volti degli altri, lieve ristoro nei giorni in cui non poteva vedere suo figlio, se non sulla copertina di un disco, sempre così uguale. Venni a scoprire che, fino a pochi anni prima, era stata la maestra elementare del quartiere. Lo scenario iniziava a prendere colore e ad animarsi. Le luci delle lampadine promettevano di accendersi al calare del sole dietro le montagne, e la vita tra i ristoranti e attorno alle cucine delle case iniziava a brulicare con più intensità. Il giorno dopo, come da promessa, sarei andato con lei a visitare la scuola, la stessa in cui andò anche suo figlio. Fui scosso dalla sua gentilezza, mi sembrava di non meritarla. Nel frattempo, stagliati nella loro corsa sotto ai profili di montagne lontane, sereni i cavalli correvano nei dintorni di un ranch. Al balenio ocra dei raggi che picchiettavano sui vetri delle case, i loro zoccoli sembravano compassi atti a disegnare figure geometriche nell’erba, come nel campo d’intarsi tra grafite e cellulosa. Il sole, rimbalzando sulle staccionate e diramandosi in più direzioni, accarezzava il viso di una ragazza intenta a legarsi i capelli in una coda, pronta per il pomeriggio di libere escursioni. Il passo dei destrieri, disegnando ritmiche per nuove parole da allineare, incontrava i rimasugli del grano scalpicciato e già mietuto, ora anche raccolto dal contadino, diretto a casa.
Seduto in un porticato così lontano da quel mondo ritorno ancora al centro di questa scena per scorgere, tra i rami e i brani di cielo che si lasciano intravedere, la continuazione di questa storia.
Francesca Cerutti (proprietario verificato)
Con una prosa quasi d’altri tempi, “Ascoltare” racchiude racconti fortemente introspettivi, resi a tratti sinestetici dalla presenza costante della musica tra le pagine della raccolta. Il vero protagonista è il dialogo continuo tra il momento presente e i ricordi. Chi cerca un libro non scontato saprà apprezzarlo.