ANTEPRIMA NON EDITATA
Mi perdo in chiacchiere
Giugno 2019
Era giugno e quella mattina c’era stata un’alba bellissima. Ero andata a correre al Foro Italico e quella temperatura tiepida mi stava riscaldando il cuore e i pensieri. Prima di risalire a casa, dal bibitaro all’angolo presi una spremuta di melograno, energizzante e piena di polifenoli (così avevo letto da qualche parte).
Salii a casa e preparai il caffè. Erano quei gesti che ripetevo tutti i giorni e che mi davano serenità. Quei gesti sempre uguali riuscivano a placare le inquietudini, non a eliminarle. L’odore del caffè si mescolava ai raggi del sole nascente che filtravano dalla finestra, una luce timida e calda, mescolata a un odore pungente che sa di giorno nuovo.
Innaffiai le piante, tolsi qualche foglia secca e aprii le tende da sole. Da lì a poco la luce sarebbe stata piuttosto fastidiosa.
Alzai il volume della radio e cominciai a cantare; per un attimo pensai ai miei vicini, ma poi, chi se ne frega, meglio la mia musica delle loro grida in palermitano stretto che non sempre riesco a comprendere.
Vivo nel centro storico di Palermo, vicino ai mercati, dove non sempre si parla, in genere si grida o si tace; dove il vicolo è un po’ un paese, dove ci si conosce tutti e anche quando non ci si conosce, nel senso che non si è mai parlato, tutti sanno tutto di tutti.
Quando andai ad abitare in questa casa dove vivo da una decina di anni, le sentinelle, così chiamo le comari perennemente a casa e inspiegabilmente sempre dietro le persiane, dicevo, le sentinelle del vicolo mi osservavano, provavano a capire. Be’, secondo i loro stereotipi ero una specie di extraterrestre da studiare. Poco più che trentenne, avvocata, senza un uomo che mi mantenesse, con una passione smodata per le borse griffate, benestante (almeno secondo i loro standard), senza figli e con molti amici che entravano e uscivano da casa mia alle ore più disparate.
All’inizio mi sentivo spiata, mi guardavo intorno con circospezione. Le sentinelle sapevano perfettamente quello che facevo, se e quando qualcuno restava a dormire, se e quando ero a casa e via dicendo, ma incontrandomi per strada era come se fossi invisibile. Mi guardavano e mi trattavano come fossi un fantasma, si giravano dall’altra parte e a volte bisbigliavano tra loro. Solo di recente le sentinelle hanno iniziato a evitare di girarsi dall’altra parte quando passo, accennano un saluto con la testa o con gli occhi, quando sono io la prima a sorridere o salutare, e più che spiata ho capito di essere, in qualche modo, protetta, un po’ come avviene nei paesi.
Il “mio” è un palazzetto antico, parzialmente ristrutturato, in cui avevano messo in vendita l’ultimo piano dopo che il precedente proprietario, un architetto di dubbio gusto e pieno di debiti, aveva tanto insistito per l’installazione dell’ascensore, cosa non troppo comune nel centro storico.
Continua a leggereCosì, quando andai a vedere quell’appartamento, l’architetto non faceva altro che dire che tanto la casa quanto l’intero palazzetto erano totalmente ristrutturati.
In realtà, quando entrai la prima volta, mi sembrò che ci fosse un’accozzaglia di stili, di oggetti portati chissà da quale cantiere e posizionati un po’ alla rinfusa; mi colpì che non ci fossero due sedie uguali. Quelle che c’erano mancavano tutte di qualcosa, una di un pezzo di spalliera, un’altra di una porzione di gamba e un’altra ancora aveva l’impagliatura totalmente consumata.
Questa casa fu un vero e proprio amore a prima vista, mi piacque talmente tanto che l’avrei probabilmente comprata anche se il prezzo fosse stato più alto.
Iniziai, perciò, a lavorare ai fianchi il venditore, fino a sfinirlo. Difficilmente demordo quando mi metto in testa una cosa, e una volta che intraprendo una strada non torno indietro, anche quando la mia cocciutaggine mi conduce verso percorsi accidentati e risultati che, forse, non erano esattamente quelli che avrei voluto.
Erano diversi anni che giravo in cerca di quella che sarebbe diventata la “mia” casa. Ero abbastanza abituata a vedere appartamenti sgarrupati che provavano a venderti come “appena ristrutturati”, così come ero abbastanza abituata a vedere dei palazzi mal messi che dopo scale anguste, buie e decadenti conducevano in abitazioni bellissime che, nonostante fossero molto vecchie, comunicavano comunque un antico sfarzo. E a me, che sono sempre stata un po’ con la testa tra le nuvole, piacevano tanto.
Quando vidi quello che di lì a poco sarebbe diventato il mio nido, ebbi un’illuminazione, nel senso che lo guardai in prospettiva, provando a immaginare cosa ne avrei fatto io di quell’appartamento. E lo immaginai totalmente bianco, con le travi al soffitto di un bel colore naturale, con pochissimi mobili moderni (che fossero anche utili) e solo qualche cimelio antico, con la pietra viva alle pareti, con le volte totalmente riprese e affrescate e, da qualche parte, dei puttini con le mie iniziali, che placidamente mi avrebbero sorriso.
Questo è quello che avevo immaginato; in realtà, ristrutturai un po’ in economia e, giacché mi fecero dei preventivi folli, decisi che per le volte affrescate e i puttini avrei potuto (dovuto) aspettare.
La caratteristica che mi colpì subito fu la luce incredibile che per tutto il giorno entra dalle enormi finestre e che risplende ancor di più su quei soffitti altissimi dalle travi a vista. E poi, vidi il terrazzo. Ampio, luminoso, sui tetti della Palermo vecchia.
Dicevo sempre a mia madre, prima di comprare casa, che quando avrei avuto un luogo tutto mio a Palermo avrei preferito avere anche una stanza in meno purché ci fosse un terrazzo. E poi le dicevo anche che avrei voluto abitare vicino al tribunale, l’edificio che per lavoro frequento più assiduamente.
Mi chiamo Claudia, ho un po’ più di quarant’anni, vivo a Palermo pur non essendo palermitana e sono un’avvocata.
Fin da bambina, le mie occupazioni principali sono state quelle volte a risolvere problemi, in genere degli altri. E così, più per caso che per convinzione, quando fu il momento scelsi Giurisprudenza.
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