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Avrei voluto solo uno spritz

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Consegna prevista Agosto 2024

Con una narrazione a ritroso Claudia, la protagonista del libro, si racconta attraverso un’esperienza inaspettata, quella del cancro.
Narra avvenimenti, ma parla anche delle modalità con cui ha sempre vissuto: di corsa e con l’esigenza di controllare tutto.
La notizia della malattia le sconvolge la vita, la professione di avvocato e tutti i piani.
Inizia un viaggio che attraverso la malattia la porta a ripensare a fatti, persone e priorità.
L’ironia diventa l’arma con cui affrontare tutto quello che le sta capitando, per prendersi in giro e per provare a salvarsi la vita.
Comincia a sperimentare la gratitudine e a valorizzare i momenti felici.
Paradossalmente, quel viaggio diventa una sorta di rinascita, un percorso di guarigione dal tumore, ma anche da tutti gli altri malesseri, dalle paturnie, dai dissidi e dalle tristezze.
Attraverso una narrazione intima, sincera, ironica, quel viaggio intrapreso per quel “piccolo imprevisto chiamato cancro”, la riporterà finalmente a casa.

Perché ho scritto questo libro?

Parte di questo romanzo è sempre stato ben presente nella mia mente ma, vivendo sempre di corsa, con un’esigenza quasi patologica di controllare tutto e rincorrendo obiettivi che in fondo non erano mai stati totalmente ed esclusivamente miei, non avevo mai trovato il tempo per trasformare il pensiero in scritto.
E così, in un modo del tutto inaspettato ed inconsueto, quando sembrava che il tempo a mia disposizione stesse davvero per finire, il tempo per scrivere l’ho trovato davvero.

ANTEPRIMA NON EDITATA

CAPITOLO VENTIDUE

Gli occhi dei bambini e le luci di Natale

Dicembre era un mese che non mi era mai piaciuto, era il momento in cui tutte le mancanze vissute o subite nel corso della vita, si riproponevano prepotentemente, facendosi spazio tra gli impegni necessari e a volte voluttuari che spesso servivano proprio a coprire quelle mancanze. Peraltro, proprio il primo dicembre di alcuni anni prima, era morta mia madre, per cui, mentre dal giorno dell’Immacolata in poi tutte le case si vestivano di colori e luci, il mio umore si abbigliava con toni grigi e tristi. Per non parlare poi delle cene di Natale o delle vacanze casalinghe. Ecco, in quei momenti c’era proprio lo strike delle tristezze, avevano la meglio mancanze e malinconie che durante tutto l’anno non avevo tenuto in considerazione e che probabilmente avevo soltanto nascosto sotto il tappeto. Non solo mi mancavano i miei genitori, ma sentivo proprio la mancanza di quella famiglia normale che durante tutto l’anno dicevo di abborrire. Perciò, tutti gli anni, all’inizio di Dicembre avevo solo un desiderio che era quello che arrivasse il più presto possibile il sette gennaio dell’anno successivo.

Il dicembre del 2019, vissuto a Bergamo e dintorni, invece, cominciò a mostrarmi o meglio a svelare, tutto il bello dell’atmosfera natalizia.

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Per prima cosa, proprio nei primi giorni di Dicembre a Bergamo ci fu una abbondantissima nevicata, così, una mattina tirando su le tapparelle, strabuzzai gli occhi perchè tutto quello che si vedeva dalla finestra era bianco, coperto da una neve soffice che regalava un’atmosfera ovattata e quasi lunare. Ricordo che quella mattina ero stata per un tempo indefinito dietro il vetro del soggiorno a guardare la campagna circostante che continuava a riempirsi di neve. Mi ero anche messa un giubbotto e uno sciarpone in testa ed ero uscita in balcone, perché volevo allungare la mano e prendere la neve, tuttavia, i miei sogni di gloria durarono molto poco; c’era veramente tanto freddo e rischiavo un malanno, appena sveglia, in mezzo alla neve. Così, richiusi velocemente i vetri della finestra, mi tolsi il giubbotto e come se avessi avuto una copertina di Linus, lasciai la sciarpa a coprirmi le spalle; non era freddo, era più desiderio inconscio di un abbraccio, di qualcuno che mi sussurrasse all’orecchio che sarebbe andato tutto bene.  Mi appoggiai al termosifone e cominciai a sorseggiare un caffè d’orzo annacquato e piuttosto lungo, dietro il vetro, riscaldandomi le mani con la tazza calda.

Telefonai a mia zia che era in Sicilia e le chiesi se in quella casa ci fosse un albero di Natale. Era bellissimo vedere tutta quella neve intorno, ma di certo non sarei uscita da casa, né in macchina, né tantomeno a piedi, tanto valeva cercarsi un’occupazione per quella giornata. Con le indicazioni di mia zia, scesi in cantina e trovai un piccolo alberello, sorrisi perché forse un po’ mi assomigliava, era piccolino e un po’ mal messo; probabilmente fu per questo che mi piacque particolarmente, me lo misi sotto il braccio, mi caricai tutti gli addobbi natalizi che trovai in cantina, mi misi in testa un cappello da Babbo Natale e tornai in casa determinata ad addobbare tutto quello che c’era di addobbabile per cercare di non annoiarmi troppo.

Incontrai sul pianerottolo la vicina di casa, un’arzilla signora ottantenne, molto discreta e riservata con cui era capitato, qualche volta, di scambiare quattro chiacchiere dai rispettivi balconi che erano comunicanti.

La signora capì immediatamente quello che avevo in mente di fare e mi invitò a casa sua, facendomi vedere alcune decorazioni natalizie che lei realizzava artigianalmente. Mi disse che se volevo ne avrebbe realizzato qualcuna anche per me. Accettai con grande gioia questa sua proposta, e dopo aver preso una tisana calda insieme a lei, me ne tornai a casa tutta contenta.

Sapevo già che sarei rimasta a Bergamo almeno fino al 22 dicembre, giorno in cui avrei avuto terapia. Non sapevo invece se sarei riuscita a tornare in Sicilia per Natale o per capodanno, tanto valeva rendere un po’ natalizio il posto dove avrei vissuto, tanto più che ignoravo (in realtà nessuno di noi lo sa con certezza!) se e quanti altri Natali avrei vissuto.

Con un po’ di musica di sottofondo e i riscaldamenti accesi, mi ero seduta a terra per montare l’alberello. Il parquet ogni tanto scricchiolava e da quella distanza riuscivo a vedere tutte le venature del legno. Ero seduta a terra, sola a casa, in tuta e senza turbante o parrucca, stavo montando il mio alberello, in una dimensione senza tempo e con uno spazio percepito in una prospettiva diversa.

Fuori era tutto bianco.

Da quella postazione la stanza mi sembrava enorme, molto più grande di quello che in realtà è.

In sottofondo c’era Frank Sinatra che cantava my way .

regrets, I’ve had a few

but then again, too few to mention

I did what I had to do

And saw it through without exemption

I planned each charted course

Each careful step

Along the byway

And more, much more than this, I did it my way.

Seduta a terra, con le gambe incrociate, la testa spelacchiata e le braccia appoggiate sulle gambe, l’alberello già montato e un po’ sofferente, che sembrava da quella posizione, molto più alto di quello che in realtà è, cominciarono a scendere dei lacrimoni che mi stupirono, perché non erano almeno in apparenza, legati ad un pensiero particolare; per farli smettere cercai di concentrarmi sulla musica, ebbi la brillante idea di prestare particolare attenzione alle parole della canzone, provando a ricordare la traduzione che mio fratello mi aveva fatto in precedenza, a quel punto, invece di fermare i lacrimoni, cominciai proprio a piangere a dirotto e senza trovare nessuna consolazione, perché il mio cervellino perennemente attivo e che spesso ruminava a vuoto, cominciò a chiedersi con insistenza se quello che mi apprestavo a vivere sarebbe stato il mio ultimo Natale e se in quel preciso momento avrei potuto anche io utilizzare, parlando della mia vita, quelle stesse parole della canzone.

Fu un pianto continuo ed inconsolabile perché la risposta a tutte quelle domande era quella che non avrei mai voluto sentire. Non avevo mai vissuto a modo mio, non avevo mai fatto le cose che veramente io volevo per me, ero stata troppo impegnata a compiacere gli altri, a non tradire le aspettative altrui per rendermi conto di aver navigato per tutta la vita nella direzione che non ero stata io a scegliere per me. E questo era avvenuto in tutti i settori. Nella famiglia d’origine, nel lavoro, nelle amicizie, in amore. Ma forse in amore no, ero stata troppo impegnata a dirmi che non ne avevo bisogno io dell’amore, a rifugiarmi in storie irrealizzabili già in partenza, per potere ancora una volta provare il mio assioma: gli uomini sono tutti inaffidabili, ed io non ho bisogno di nessuno.

In quel preciso momento, la cosa che mi faceva arrabbiare e che aggiungeva disperazione al mio pianto era che nonostante io mi stessi per la prima volta rendendo conto di tutte queste cose, probabilmente non avrei avuto il tempo per cambiare direzione, per fare quello che avrei voluto fare e questo stato non aveva consolazione, e d’altro canto, non ne poteva avere.

Piangevo talmente tanto che le lacrime scivolandomi lungo il viso erano arrivate a terra, all’interno delle gambe incrociate. Guardai sul parquet quella piccola pozzanghera di lacrime e la scena mi fece ridere perché se lo avessi voluto fare di proposito, non ci sarei riuscita, neanche una contorsionista avrebbe saputo fare meglio. Mi asciugai le lacrime col dorso della mano, mi alzai dal pavimento ed andai in cucina a prendere un fazzoletto ed uno straccio.

Mentre facevo quei pochi passi, dissi a me stessa che era il caso di smetterla! Mi facevo antipatia da sola con tutte queste tristezze e malinconie; era proprio il caso di cambiare registro.

Così, continuai a sistemare addobbi natalizi e candele varie; l’alberello nel complesso mi sembrava carino ed anche l’atmosfera si era un po’ riscaldata. Mi ero seduta sul divano, guardavo la neve che continuava a cadere, ammiravo l’alberello e alla fine mi sentivo un po’ più leggera, svuotata da quei pensieri tristi che erano stati insieme alle lacrime raccolti dallo straccio.

Bergamo è durante tutto l’anno una bellissima cittadina, ma devo dire, che durante il periodo natalizio è ancor più bella. Sarà per le lucine ovunque, per il verde tenuto benissimo, per gli alberi addobbati in ogni piazza, per le canzoni di Natale mandate in filodiffusione, per l’odore di caldarroste e di dolci da strada venduti nelle bancarelle lungo il sentierone, per la ruota panoramica posizionata davanti il palazzo della provincia, per i mercatini di Natale, per le giostre antiche vicino ai portici, per la pista di pattinaggio sul ghiaccio davanti alla procura. Non so quanto ognuna di queste cose incida sulla bellezza della città, so, però, che quell’anno, complice my way, la neve, il mio alberello e tutte le luci e gli addobbi che non mi erano mai sembrati così belli, cominciai ad amare il Natale.

Fu il primo anno che acquistai regali per tutti, anche pensierini senza un grande valore economico, me ne andavo in giro imbacuccata come uno yeti, assaporando quegli odori di zucchero filato, caldarroste e vin brulè mentre gironzolavo per le bancarelle.

Comincio a pensare che probabilmente, in lacrime su quel parquet scricchiolante avevo lasciato che la mia parte bambina finalmente si esprimesse, avendo la meglio sui dolori passati, su tutti i traumi, sulla mia attuale malattia e consentendo finalmente a quegli occhi trasparenti ed infantili di guardare con meraviglia quelle luci e quell’atmosfera.

Ero una bambina di quarantadue anni che fino a quel momento aveva avuto gli occhi spenti, le ali spezzate e i sogni accartocciati e che adesso era decisa (se avesse avuto il tempo per farlo) a riprendersi in mano, anzi, a prendere in mano (era la prima volta che succedeva) la propria vita, e soprattutto di farlo alla mia maniera, a modo mio.

Quando arrivò l’8 dicembre, la mia simpatica vicina di casa mi disse che intorno alle 16, il sindaco avrebbe acceso le luci dell’albero in una cerimonia ufficiale nella piazza del palazzo comunale. Dissi a Giuseppe che saremmo potuti andare a pranzo fuori e che poi saremmo potuti andare alla cerimonia. Giuseppe accolse la proposta con entusiasmo. Io ne fui doppiamente contenta. Per prima cosa, perché saremmo riusciti a trascorrere una giornata insieme, in modo spensierato; in seconda battuta perché, in quel particolare momento, non sempre i nostri rapporti erano distesi, e a volte cominciavamo a discutere, se non a litigare, anche per motivi veramente banali. Per cui, aver trovato un accordo su quello che avremmo fatto insieme era ancora più bello.

Mi vestii di tutto punto, indossai un vestitino di maglia che avevo comprato qualche anno prima ma che avevo messo in pochissime occasioni, gli stivali con i tacchi bassi ma che a me sembravano dei trampoli ed una sciarpa coloratissima sulle spalle. Cercai tra i vari turbanti uno che potesse stare bene con il resto dell’abbigliamento e siccome non ne trovai nessuno che mi piacesse, decisi un po’ a malincuore, di mettere la parrucca. Quella soluzione non mi entusiasmava particolarmente perché, nonostante il freddo di Bergamo, dopo un po’, la parrucca mi dava fastidio, mi faceva prudere e sudare la cute. Però, decisi che quel giorno avrei potuto sopportare il fastidio.

Quando fui pronta per andare a pranzo, Giuseppe mi guardò compiaciuto, ed io fui molto contenta per quella sua approvazione.

Salimmo a Bergamo alta con la funivia storica e ancora un’altra volta mi sentii in gita.

Anche piazza Vecchia, con tutti i suoi edifici antichi e le sue chiese era ancor più bella in quel periodo, piena di lucine accese anche durante il giorno, alberi e musica natalizia che rimbombava in tutti gli angoli; tutti i vicoli avevano delle luminarie tanto semplici quanto di grande eleganza ed io mi guardavo intorno, guardavo mio fratello, il cielo terso su cui si vedeva già la luna e sorridevo, non soltanto quando incontravo lo sguardo di qualcuno, sorridevo  perchè mi sentivo bene ed anche perchè provavo un grande senso di gratitudine perché stavo vivendo con l’animo giusto quel momento perfetto.

Quello di cui vado più fiera è che nonostante le difficoltà della situazione che stavo attraversando, riuscivo ad avere comunque, una proiezione positiva sugli eventi, riuscivo a vivere tutto quello che mi stava accadendo essendo grata alla vita e probabilmente, forse, anche a me stessa.

Questa diventò la cosa più preziosa.

Avevo imparato ad abbracciarmi da sola, tutte le volte che avrei avuto bisogno di una pacca sulla spalla e la pacca non arrivava, tutte le volte che avrei avuto bisogno di un abbraccio e che mi rimaneva sulle spalle solo qualcuno dei miei sciarponi caldi.

Era per questo che la pacca me la davo da sola e pure l’abbraccio, era per questo che cominciavo a vedere che la cosa più importante non era tanto l’approvazione altrui, quanto il mio individualissimo gradimento personale. Era per questo che la gratitudine e l’approvazione verso me stessa mi cominciò a piacere talmente tanto da diventare un leit motive di questa mia seconda vita. Fu probabilmente in quel periodo che, pur continuando ad avere degli obiettivi (a volte un po’, tanto, ambiziosi), cominciai ad essere comunque sinceramente felice per quello che avevo già raggiunto.

Avevo sempre meno bisogno dell’approvazione altrui. E, se mai, avessi ricominciato ad alzare l’asticella delle aspettative, sarebbero state le mie aspettative e non quelle degli altri.

2023-10-30

Giornale di Sicilia

Titolo dell'articolo: Claudia, lo spritz che racconta l'amore per la vita

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Claudia Profera
Claudia Profera nasce a Napoli il 19.01.1977.
Trasferita in Sicilia all’età di cinque anni, vive a Palermo dal 1996 quando si iscrive a giurisprudenza.
Dal 2004 esercita la professione di Avvocato. Si occupa di diritto penale.
Da sempre appassionata di musica, danza e teatro, partecipa attivamente alla vita culturale e sociale della città in cui vive, organizzando e promuovendo attività associative, ricreative e culturali e coltivando interessi disparati, da quelli sportivi a quelli politici e sociali.
Ama i libri e la scrittura, fin da bambina scrive racconti che però restano nei cassetti delle case in cui ha vissuto. In un momento per lei difficile, quando pensava che la sua vita stesse per finire, inaspettatamente ha tirato fuori dal cassetto i suoi scritti e anche i suoi sogni.
Il suo motto è "In piedi e felice".
"Avrei voluto solo uno spritz" è il suo primo romanzo.
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