E poi la caduta.
Settimo piano di una elegante palazzina sulla collina dei Parioli.
Una strada privata, poco trafficata.
La ragazza, con i suoi lunghi capelli neri, sull’asfalto, immobile e scomposta. Un’aureola rossa che si allargava a dismisura. Nessun gemito nel silenzio immobile.
Un uomo, forse il portiere della palazzina, si girò in direzione del tonfo. Un grido feroce. Si guardò intorno come un pazzo, chiamò aiuto, le mani tra i capelli.
Una piccola folla emerse dal nulla, negli occhi la morte.
La riconobbero. Era lo scricciolo di ragazza dell’ultimo piano. La figlia del compianto dottor Grasso. E sua madre dov’era? Povera donna.
Povera donna.
La morte attraversò il quartiere come il lampo di un fulmine.
Silenzio. Orrore. Il cielo buio. La luna piena che sorgeva.
In lontananza, il suono acuto di un’ambulanza.
Era uno scricciolo di ragazza.
CAPITOLO I
Rachele osservò l’uomo che leggeva con estrema attenzione un saggio su chissà quale strana teoria fisica. Allungò una gamba tra le lenzuola. Gli si avvicinò, lo avvolse in un abbraccio e gli posò il capo sul petto, impedendogli la lettura con l’ombra della massa di capelli biondi.
Lui allontanò il libro di fianco, sul letto, e la osservò. Quella donna profumava di buono. Era bella da riuscire ancora a mozzargli il fiato.
«Come mai tutte queste coccole?»
«Non ti va?»
«Eccome.»
Il libro scivolò sul pavimento. Il piede della donna prese il suo posto tra le mani dell’uomo, che ne ammirò la forma sottile e la pelle curata.
«Mi mancherai» le disse.
Lo squillo isterico del cellulare interruppe il gesto a metà.
«Ma chi può essere di prima mattina? E di sabato poi! Il mio giorno libero.»
Rachele a malincuore si sporse verso il comodino, cercando di districarsi tra l’uomo e il lenzuolo che limitava i suoi movimenti.
Finalmente riuscì a rispondere.
«Sì?»
«Professoressa, sono Lidia.»
«Chi?»
«Lidia, la bidella.»
«Lidia, che succede?»
«Professoressa, deve venire subito. La preside dice che è meglio.»
«Ma è il mio giorno libero. Che cosa può essere accaduto di così grave da richiedere la mia presenza?»
«Venga, venga subito!»
«Lidia, non mi fare spaventare. Che è successo?»
La bidella cercò di spiegare l’accaduto tra i singhiozzi convulsi.
«Se piangi, non capisco nulla di quello che dici!»
«È morta, capisce? Deve venire subito.»
«Chi è morta?»
«Giulia Grasso. La sua alunna.»
Rachele restò impietrita, sconvolta dalla notizia. Seduta sul bordo del letto, nuda, con il lenzuolo che le scivolava sui fianchi.
«Non può essere. Giulia?»
«Giulia, proprio lei.»
«E come è morta?»
«Suicidio, pare.»
«Dio mio…»
Rachele lasciò cadere il cellulare.
«Dio mio» ripeté, coprendosi il volto.
L’uomo aveva ascoltato la conversazione. Si sedette poggiando la schiena alla testata del letto. Si ricompose nel pigiama sgualcito.
«Questa Giulia è una tua alunna?»
«Giulia.»
«Insomma, è una tua alunna?»
«Alberto, devo andare. Sì, una mia alunna. Aveva dei problemi, lo sapevamo. Poi ti racconto.»
«Ma io parto, oggi. Ricordi? Mi dovresti accompagnare prima a casa mia a prendere le valigie e poi in aeroporto.»
«Alberto, perdonami, ma a malapena riuscirò ad arrivare a scuola. Sono sconvolta.»
«Vuoi che ti accompagni?»
«Come potresti? Perderesti l’aereo. No, non è il caso.»
Si lasciarono in un abbraccio caldo e frettoloso, promettendosi telefonate che sarebbero dovute bastare mesi.
Lui si avviò, deluso e scontento, verso la sua auto. Partiva per New York. Sarebbe tornato solo sei mesi dopo. Era per via della più grossa opportunità che gli fosse capitata finora, presso un ente privato di ricerche. Sarebbe stato inviato a breve al Polo Sud, come responsabile di un progetto sperimentale. Lasciare Rachele in quello stato non gli piaceva proprio. Anche l’eccitazione per quel viaggio così importante per i suoi studi e la sua carriera era sparita.
Lei si diresse verso il liceo in cui lavorava. Scese dal trenino a piazzale Flaminio, attraversò piazza del Popolo, umida di rugiada e, come sempre, sollevò lo sguardo verso l’obelisco e la fontana con gli splendidi leoni in marmo, alla ricerca di sollievo per il suo cuore pesante.
Alberto partiva e la abbandonava per un po’. Avrebbe desiderato accompagnarlo in aeroporto, lasciare qualche lacrima a vagare sul viso mentre il suo aereo decollava e solcava il cielo romano e tornare verso casa affogando la nostalgia in qualche negozio del centro commerciale più vicino. Invece la vita, con le sue contorsioni, le aveva confuso tutti i piani.
Un sabato terribile. Camminava avvolta in uno scialle del colore del cielo, lasciando il rumore sordo dei tacchi degli stivali. Le sembrava di vivere fuori della propria dimensione, in una strana forma di alienazione mentale che rifiutava la realtà. Non riusciva assolutamente a credere che Giulia fosse morta, non concepiva l’idea stessa della morte. Che significava morire? Voleva forse dire che prima esisteva e ora non più? Lo shock della notizia era stato tale che le pareva di non riuscire più a ragionare con razionalità. E i suoi studenti? Già sapevano? Erano a scuola o avevano deciso di rimanere a casa?
Percorse via Ripetta senza alzare la testa. La via già brulicava di camioncini che scaricavano merce, taxi carichi di turisti danarosi, che trascinavano valigie eleganti. Studenti ciondolanti con i loro zaini appesi alla spalla, che indugiavano in qualche bar, con cornetto e cappuccino, per tardare.
Il tempo di salire fino al portone e i suoi studenti la circondarono, come una nuvola di cavallette.
Gli occhi lucidi, i volti stupefatti, la paura di un futuro che ancora non esisteva in un presente che sembrava sradicarsi dalle solide certezze della spensierata giovinezza.
Rachele lesse disperazione e afflizione su quei volti.
«Ragazzi, non so nulla. Mi hanno avvisato poco fa. Voi, appena suona la campanella, entrate in classe. Poi, quando avrò finito di parlare con la preside, passerò da voi. Non vedo Marika. Non c’è? Vorrei sapere se ieri si è sentita con Giulia. Erano così amiche.»
«Non è ancora arrivata. Se vuole le mandiamo un messaggio.»
«Non fa nulla. Devo andare ora. Ci vediamo dopo.»
Lasciò alle spalle lacrime e sospiri ed entrò nella sala professori. Anche lì, un brulicare di voci a commentare l’accaduto con toni bassi.
«Eccoti! Che tragedia! Che tragedia! Ma che problemi aveva la ragazza?»
I suoi colleghi di sempre. Condividevano ogni giorno le loro vite, quelle degli studenti, e si scambiavano esperienze, libri, ricette, opinioni, tra i lunghi corridoi della scuola fino alle porte delle aule, tra un consiglio di classe e l’altro, un collegio docenti e ogni sorta di riunione.
«Mi ha avvisato Lidia, stamattina. Sono sconvolta.»
«Sono sempre più fragili questi ragazzi. Gli ultimi tempi mi faceva impazzire. Non studiava neanche più. E sì che era bravissima quando voleva» commentò il professore di matematica, Mauro Castaldo.
«Mauro, Giulia era così vitale. Ti pare possibile che si sia ammazzata? Non posso crederlo. Non la Giulia che ho conosciuto io, non lei. Rispondimi, per favore, perché mi sembra di impazzire.»
«Ma che ne so? Insegno da una vita, ma questi ragazzi non li capisco più. Non mi dire che ti senti in colpa.»
«Come potrei non sentirmi in colpa? Pensavo di agire bene con lei e invece non ho capito quanto fosse disperata.»
«Pensi che sia stato per le decisioni che abbiamo preso nei suoi confronti?»
«Perché, tu non credi che se avessimo deciso diversamente tutto questo non sarebbe accaduto?»
«Rachele, non lo pensare nemmeno. Non è giusto per te, non è giusto per noi, che a questi ragazzi diamo l’anima. Loro hanno un mondo fuori dalla scuola. Non lo pensare proprio.»
«Giulia era così vitale. Ma che le è passato per la testa? Sapete quando ci sarà il funerale?»
«Non sappiamo nulla. Se stamattina vai a trovare la madre, ti accompagno, ho la macchina parcheggiata qui fuori. Avviso la preside e mi faccio sostituire.»
«Grazie, credo che accetterò.»
Il suono della campanella, stridula e assordante, la mise di cattivo umore. La sala professori si svuotò, gli studenti sfilarono per raggiungere la scala verso i piani superiori, senza lasciare la scia delle loro risate, ma sussurri di domande e parole spezzate da timori e ansie. Quel giorno era diverso. Una di loro li aveva abbandonati.
Cercò Lidia, la bidella.
«Buongiorno, professoressa. La preside ha chiamato per dire che sarà qui a momenti.»
«Per favore avvisami quando arriva, allora.»
A momenti, pensò tra sé e sé Rachele. Li conosco i suoi momenti.
Tornò in sala professori e aprì il suo cassetto. Cercò, in fondo, il pacco degli ultimi compiti in classe. Li tirò fuori dalla fascetta che li conteneva e prese il compito di Giulia. Lo aveva valutato con un bel nove. Nessun errore grammaticale, cosa ormai rara in prima liceo, una buona capacità di dare respiro al fraseggiare e una buona attenzione alla consecutio temporum. Giulia, nonostante i suoi problemi, aveva ottenuto un miglioramento impressionante nell’espressione scritta.
Quanto lavoro, pensò, quante ore spese a spiegare, correggere, controllare ogni compito assegnato per casa. Quanto impegno, con Giulia. Tutto inutile. Tutto perso.
Rachele pianse.
Come accettare che quella ragazza di quattordici anni potesse aver deciso di togliersi la vita? L’aveva fatta grossa. Era stata un’egoista e, come al solito, non aveva pensato alle conseguenze. Come aveva potuto lasciare da sola quella povera donna di sua madre? E sua sorella, una biondina di sei anni? Non poteva non aver pensato a lei. Amava la sua famiglia. Guardò il compito di Giulia.
Lesse il titolo: “Il passato non si può modificare e il futuro non ci appartiene di diritto. Ciò che esiste davvero è il presente. Solo l’attimo ha importanza.” Commenta questa frase di Susanna Tamaro alla luce della tua esperienza quotidiana.
Che frase complicata, quella della scrittrice Susanna Tamaro. Ci sarebbe da passarci le ore a riflettere. Anche se a me, in particolare, non piace soffermarmi su questi pensieri.
Molte cose che faccio durante la giornata servono proprio per allontanarli.
Il passato purtroppo non si può modificare. Perché se potessi farlo, interverrei all’istante. Se avessi saputo in anticipo che mio padre, quel maledetto giorno di due anni fa, mentre attraversava la strada davanti al suo studio, sarebbe stato investito da un’auto guidata da un pazzo, non lo avrei lasciato uscire di casa. Invece io dormivo, ignara che la vita della mia famiglia sarebbe cambiata radicalmente. Se avessi saputo quanto male ci si può fare per dimenticare le cose che non vanno nella vita, non mi sarei buttata via in compagnie fasulle, a tredici anni, tra notti folli di alcol e droghe.
Negli ultimi due anni mi sono fatta volontariamente del male. Ho vissuto cose che nessuna ragazza della mia età dovrebbe conoscere. Mi hanno fatto del male e io me lo sono lasciato fare. Quando osservo i miei compagni di classe e li ascolto, mi sembra di parlare con dei poppanti. Sono andata troppo oltre. E sinceramente, vorrei tornare indietro a giocare con le bambole.
Il passato, dunque, come dice la scrittrice, non si può modificare e, soprattutto, lascia delle conseguenze talvolta drammatiche.
Se potessi tornare indietro non farei più gli stessi errori. La professoressa di italiano mi ripete spesso che posso ricominciare, ma che devo lasciarmi aiutare da chi mi vuole bene. Che devo lasciare le cattive compagnie. Io, però, non ne ho la forza. Anche se proprio l’altro ieri, dopo che sono tornata, per l’ennesima volta, di domenica, alle cinque di mattina dopo una notte in discoteca, mia madre, appena mi ha vista, ha cominciato a piangere disperata e ha cominciato a dire: «Gesù, aiutaci tu. Gesù, aiutaci tu».
Improvvisamente mi sono sentita una nullità, anzi qualcosa di meno, ma non posso utilizzare il termine esatto in un tema perché è una parola scurrile.
Sono crollata. Mia madre piangeva e la causa ero io. Per la prima volta ho desiderato cambiare, tornare indietro. Ho deciso che non voglio più vedere mia madre in quelle condizioni. Non voglio. Inoltre ho una sorellina di sei anni e non sta bene che veda come mi sono ridotta.
Sono giovane e desidero un futuro splendido per me. Vorrei tanto diventare una designer e girare il mondo. Sono ancora in tempo a tornare indietro, a riprendere in mano la mia vita. Quello che esiste davvero è il presente e lo devo vivere in ogni attimo. Ogni istante ha la sua importanza. Desidero riempire il mio presente di cose buone. Desidero stare vicino a mia sorella. Lei mi vuole davvero bene. Mi fa trovare sempre i suoi disegni o dei regali sul letto. Desidero anche dedicarmi di più allo studio, perché la scuola che ho scelto mi piace. Le ore che amo di più sono quelle che trascorro nell’aula di laboratorio artistico con la professoressa di arte. È bravissima. Mi insegna tante cose e soprattutto mi capisce. Desidero avere amici diversi, stare con alcune mie compagne di classe a cui, incredibile, mi sono davvero affezionata. Comunque non so se riuscirò a staccarmi completamente dai vecchi amici. Non li posso criticare. Io sono diventata come loro.
E quindi, dato che un futuro lo voglio e ne ho diritto perché sono giovane, non voglio più usare droghe. Voglio un futuro bello per me. Non credo che esista Dio, né tantomeno il Paradiso. Penso che mio padre sia morto e basta. Mia madre dice che sbaglio, che esiste la vita eterna. Non ci credo. Ma sarebbe bello se ci fosse.
E se davvero questo Aldilà esistesse, vorrei che mio padre fosse contento di quello che farò.
La traccia del tema mi ha aiutato a riflettere. E credo che questa sia stata una cosa buona. Da oggi in poi voglio trattare bene il mio presente. Perché questo significherà trattare bene me stessa e le persone che per me contano.
Rachele chiuse il foglio protocollo. Aveva scritto poche righe sotto al voto: Brava davvero. Hai dato un taglio originale al tema. Hai utilizzato un linguaggio chiaro e molto espressivo. Hai reso lucidamente e con una sincerità rara il desiderio di riprendere in mano la tua vita. Ora devi lavorare sulla volontà. Sarà dura, ma se ti farai aiutare ce la farai. Ti lascio, oltre alla bella votazione, le parole di Giovanni Paolo II: “Fate della vostra vita un meraviglioso capolavoro”. Dunque, datti da fare per il tuo capolavoro. Di nuovo brava.
E ora? Tutto finito.
Quel capolavoro che le aveva augurato di costruire si era infranto sull’asfalto di una strada. Era troppo doloroso.
Rachele desiderò uscire per allontanarsi il più in fretta possibile dalla scuola. Ripose i compiti nel cassetto, lo chiuse a chiave. Si avvolse nello scialle color del cielo e si diresse verso l’uscita, con un tempismo perfetto che la portò a sbattere contro la preside Vittoria Borbone, appena arrivata.
«Professoressa, meno male che è qua. Mamma mia, che problemi! Non ce la faccio più!»
«Buongiorno, preside.»
Ma quel buongiorno, lei lo sapeva, non avrebbe mai avuto risposta. Era fatta così, la sua dirigente.
Poche parole, gli altri. Un mare in piena, lei.
Poco ascolto, molto argomentare.
E guai a provare a spiegarsi. La replica sarebbe stata di quelle che ti avrebbero fatto varcare il portone della scuola, all’uscita, con un’ora buona di ritardo. Quindi nessuno rischiava mai dopo mezzogiorno.
Anche adesso, la seguiva lungo il corridoio fino alla presidenza, in completo silenzio, terrorizzata di rimanere tutta la mattina a dover fare da cassa di risonanza.
«Che volete, che volete? Venite più tardi» si lamentava con i collaboratori della segreteria. «Non mi disturbate che ho da fare. Che problema, che problema.»
La Borbone si accasciò sulla poltrona dietro l’enorme scrivania, che avrebbe potuto gareggiare con quella del capo del Governo. Aveva manie di grandezza, per quanto riguardava il suo studio. Non certo nel vestire. Il suo corpo magro e sgraziato sembrava un appendipanni di abiti talmente desueti che nessuno, ne era sicura, li avrebbe mai indossati.
«Se lei, professoressa, avesse ascoltato il mio consiglio di dire alla madre di far cambiare scuola alla ragazza, tutto questo sarebbe successo da un’altra parte.»
«Scusi, preside. Non capisco.» Rachele provò l’istinto di lasciarsi andare all’ira. Quella boriosa di fronte a lei stava sragionando.
«Che c’è da capire? Andremo su tutti i giornali. E non è una bella pubblicità. Con la crisi di iscrizioni, non ci voleva proprio questa storia.»
«Preside, stiamo parlando di una ragazzina di quattordici anni…»
«Ragazzina un corno. Ha fatto più guai lei che tutti gli studenti insieme.»
«Preside, parliamo di una ragazza morta.» Rachele non poteva credere a quello che stava ascoltando.
«Di prima mattina tutti questi grattacapi. Mi sento male. Sono senza forze. Dovrei rimanere qualche giorno a casa per riprendermi e invece sto qui a dirimere una questione che andava risolta prima. Da lei.»
«Preside, stamattina vado a trovare la madre. Se a lei va bene, il professor Castaldo mi può accompagnare. Le farò sapere quando ci saranno i funerali.»
«Va bene. Ma lasci il cellulare acceso. Caso mai passassero i carabinieri.»
Rachele la guardò con una domanda muta, che andò a posarsi sulla sua fronte, in una ruga sottile.
«I carabinieri, sì. La ragazza è morta durante il giorno di sospensione dalla scuola. Vorranno sentirci. E lei è quella in grado di rispondere a ogni cosa. D’altra parte è anche la coordinatrice di classe.»
«Giusto. Allora non le faccio perdere altro tempo. Vado via subito e se ci fossero novità mi chiami, per favore.»
«Mamma mia, la sciatica. Beata lei che è giovane. Non ci voleva. Non ci voleva.»
Lasciò la Borbone di malumore, piena di dolori, lamentosa – mai però che ricordasse di averla vista un solo giorno serena e sorridente – e scorbutica. Salì l’ampia scalinata in marmo fino al secondo piano. Bussò alla porta dell’aula ed entrò. Il professore di scienze era in ritardo, e i suoi studenti erano soli e smarriti tra i banchi, con i libri ancora chiusi negli zaini. Le ragazze in lacrime, i ragazzi nervosi e con gli occhi bassi.
Si voltò verso il banco di Giulia. Una rosa bianca sul posto vuoto. Non riuscì a trattenere le lacrime. Le andarono incontro. Piansero insieme.
«Come faremo a ricominciare, adesso?» si lamentò un’alunna.
Rachele aveva capito che in quel momento qualsiasi parola sarebbe risultata stridente, come una lunga traccia di unghia sulla lavagna in ardesia. Era il tempo di piangere, di lasciare che il dolore superasse le barriere e gli argini e fluisse per essere condiviso.
Piangevano Giulia. La bella Giulia. Sfortunata, tanto sfortunata. Che aveva fatto della sua vita una carta straccia.
«Professoressa, eravamo state insieme il pomeriggio. Lei non voleva ammazzarsi. Non capisco. Lei voleva vivere» disse Marika con un filo di voce.
«L’hai sentita allora… e che cosa ti ha detto?»
«Che non vedeva l’ora di tornare a scuola. Che voleva mettere la testa a posto. E che voleva parlarne con lei.»
«Oggi sarebbe rientrata dai due giorni di sospensione.»
«Sì, mi aveva detto che stamattina sarebbe venuta. Che non era stato piacevole rimanere a casa senza far nulla tutto il giorno. Voleva ricominciare a studiare.»
«Andiamo. Vi offro un tè alle macchinette. Ne avete proprio bisogno.»
«Ma la vicepreside non vuole, durante le ore di lezione.»
«Questa è un’eccezione. Oggi decido io. Avete bisogno di un tè.»
Li lasciò con il cuore gonfio di pianto.
Come erano giovani e indifesi di fronte alle sofferenze. Ma quanta vitalità, anche. Avrebbero reagito. In qualche modo sarebbero sopravvissuti a quell’anno così duro.
Chissà chi aveva portato quella rosa bianca, pensò. Un’anima delicata.
Marika invece la preoccupava. Non stava bene quella ragazza. Ed era certa che ne aveva combinate di cotte e di crude con Giulia negli ultimi tempi. Era cambiata, aveva qualcosa che non andava. Doveva vigilare.
All’uscita l’attendevano Mauro e la sua amica Sara, insegnante di lettere.
«Mica potevo lasciarti andare da sola. La collega di sostegno si è offerta di sostituirmi. Sempre carina, lei.»
«Grazie, Sara. Fra poco crollo.»
«E con la preside com’è andata?»
«Oh sto male, sto male.» Rachele la imitò. «Ma guarda tu che mi doveva capitare oggi. E poi cose che non vi sto a ripetere.»
«Mai avuta una preside così. Mai. Guarda, se non venisse a scuola sarebbe meglio.»
«Non posso giustificare quello che ha detto. L’avrei volentieri chiusa nello sgabuzzino delle scope. Coraggio, andiamo. Dove hai la macchina, Mauro?»
«Proprio all’angolo. Però, prima, andiamo a prendere il caffè, altrimenti non carburo.»
«No, no. Niente caffè.»
«Allora, eccovi le chiavi. Cominciate ad andare. Faccio subito.»
Entrarono in macchina e aspettarono Mauro. Un seggiolino, un biberon, qualche giocattolo.
Rachele pensò a come sarebbe stato avere un bambino.
Sara sembrò leggerle nel pensiero.
«È un’esperienza straordinaria. Anche se con mia figlia sto passando una fase critica.»
«Devi avere pazienza con Barbara.»
«E chi ce la fa più?»
«Devi chiedere l’aiuto del padre.»
«Sai che mi risponde lui, quando gli dico che nostra figlia ha dei problemi? Che se non avessi chiesto il divorzio tutto questo non sarebbe successo. E che ora me la devo vedere da sola.»
«Il problema è lui. Tua figlia ha bisogno del padre. Ha bisogno di sentirsi coccolata.»
«È così. E lui che fa? Quando deve venirla a prendere i fine settimana, inventa un mare di scuse. E mai che le telefoni spontaneamente per chiederle come sta. Se ne occupa per dovere, quando gli aggrada, e lei lo capisce.»
«Povera piccola. Mendicare l’amore non è piacevole.»
«E poi non riesco a controllarla nel cibo. È diventata una specie di botticella. Non so più come comportarmi. Il bello è che poi lei se la prende con me e mi dice che è colpa mia se il padre se ne è andato via. Perché non vieni a casa e con una scusa le parli tu? Barbara ha stima di te. Ti adora.»
«Posso provarci.»
«Se penso alla fine che ha fatto Giulia, tremo.»
«Hai ragione. Bisogna fare di tutto per questi ragazzi. Anche per Barbara, prima che la situazione diventi difficile da raddrizzare. Non dobbiamo arrenderci. Se sapessi quanto mi sento in colpa. Avrei potuto fare di più per Giulia?»
«Come si fa a immaginare che una ragazza possa prendere una strada così distruttiva? Come si fa? Sono spaventata, Rachele.»
«Ho un freddo dentro anch’io…»
Mauro arrivò con il sapore consolatorio del caffè. Percorsero il lungotevere, lentamente, per l’imbottigliamento mattutino. Si lasciarono il fiume alle spalle per risalire verso piazza Euclide e poi ancora più su. Si persero più volte tra le doppie file di parcheggi, perché il navigatore perdeva la connessione. Finalmente arrivarono.
Parcheggiarono con difficoltà, dopo aver quasi abbandonato ogni speranza. Entrarono in un parco di alberi di oleandro in fiore.
Una macchia scura sull’asfalto, vicino all’ingresso. Rachele ebbe un malore e si appoggiò a Sara.
Salirono, annunciati dal portiere. Una domestica venne ad aprire la porta e li fece entrare. Trovarono la madre sul divano, curva sul proprio corpo, i lamenti che non lasciavano le labbra, sfigurata in volto dal dolore.
Sollevò lo sguardo verso di loro. Li riconobbe. Fece il gesto di salutarli, ma le forze non la ressero e ricadde affranta, avvolgendosi su se stessa.
Rachele le si avvicinò, le si sedette accanto.
«Signora, non ho parole. Non riuscivo a credere quando me lo hanno riferito.»
«La mia bambina!» Non parole, ma una litania senza sosta, con un filo di voce appena. «La mia bambina. Me l’hanno uccisa. Professoressa, vero che era una bambina dolce? Vero?»
«Giulia era bella, intelligente e buona. Troppo buona.»
«Troppo buona. Era troppo buona. Per questo me l’hanno uccisa. Professoressa, lei voleva vivere.»
«Signora, anche le compagne di classe mi hanno detto che Giulia non voleva morire.»
La madre alzò lo sguardo e ritrovò un rantolo di sicurezza.
«No, non voleva morire. Adorava sua sorella. Non può averlo fatto volontariamente.»
«Dov’è ora?»
«È in ospedale. I medici stamattina faranno l’autopsia» rispose un’amica di famiglia, seduta di fronte a lei. «È la prassi in questi casi.»
«Quindi per i funerali bisognerà aspettare?»
«Non sappiamo nulla.»
Rachele e i suoi colleghi uscirono dall’appartamento con gli sguardi spenti e la morte nel cuore. Sara aveva fretta di tornare a casa, di preparare il pranzo a sua figlia, ma soprattutto di provare a rompere quel muro di estraneità che si era frapposto tra loro negli ultimi tempi.
Mauro desiderava abbracciare forte sua moglie, che era a casa con il loro primogenito. Era padre da pochi mesi e quel giorno l’istinto di protezione nei confronti della sua famiglia si era acuito.
Di fronte ai drammi giungeva forte il peso delle riflessioni e le cose importanti tornavano immediatamente tra le priorità.
Rachele non aveva nessuno che l’attendesse. Un intero pomeriggio davanti, sola con le sue paure.
Alberto. Trovò le sue chiamate sul cellulare. Provò a richiamarlo senza risultato. Era già partito, ormai. Forse il suo aereo stava decollando proprio in quel momento e lei non aveva avuto un attimo per poterlo salutare. Si immalinconì fino al suo dentro più remoto. Sola. Non che la cosa le piacesse, ma era abituata all’indipendenza ormai da tanti anni. Sperò di arrivare presto a casa, di infilarsi sotto le coperte e di addormentarsi di botto per chiudere il mondo e i suoi problemi fuori dalla porta.
La vita era una cosa seria, pensarono i tre. E andava vissuta con consapevolezza.
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