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Bacca Nera

Bacca nera
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Consegna prevista Luglio 2024
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A Roma una notte d’estate, tra i gatti del cimitero acattolico, il commissario Insigne fa riaprire una tomba senza nome. Dentro, vecchi pacchi mai recapitati ed una pendrive, insanguinata, contenente un disegno. L’autore è un pittore di San Pietroburgo. Il destinatario è Is, noto imprenditore di diamanti e collezionista di opere d’arte misteriosamente sparito dieci anni prima, in Brasile. E non ancora dichiarato morto. La Farnesina fa riaprire il caso. Insigne cerca nei segreti del passato. Ne riemergono episodi oscuri, e compaiono figure grottesche, mefistofeliche, appassionate. La moglie abbandonata, l’affascinante e tenebrosa Nastasja. Quando l’avvocato Lapis la vede, non ha più pace. Già vive, per sua natura, in un mondo fantastico di surreali sogni. Una storia di personaggi multiformi; si mischiano per disvelare l’enigma, percorrendo i mari da Siracusa a Rio de Janeiro. E
quando non avranno più paura di sé, forse sparirà il Destino.

Perché ho scritto questo libro?

Questo libro è una fantasiosa ricostruzione che trae spunto da un caso giudiziario nel quale mi sono imbattuta e che davvero mi ha condotto in Brasile. La differenza di norme può creare cortocircuiti giuridici.
Mi sono divertita a inventare una realtà surreale con l’immaginazione. Di giorno, per necessità di mestiere, mi sforzo di perfezionare la regola dell’ordine e della razionalità, di sera cerco un varco oltre le distinzioni imposte dalla logica dei concetti. La pagina è un varco.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Capitolo 2 – Insospettato stratagemma

L’indomani era giunto all’alba, come deciso. Dal pomeriggio era cominciata la pioggia. Era di umore nero e desiderava chiuderla al più presto, quella faccenda. Stare fermo in macchina a non far niente, senza sapere per quanto ancora, gli dava ansia.

“In quest’auto ci sono almeno cinquantamila euro di danni; avvocato, chi ce l’ha con te”? chiese lei, adagiata sul sedile accanto con aria desolata.

“Intuisco che qualcuno ci sia”, rispose, carezzando il volante. Poi, ingoiò d’un boccone il maritozzo con la panna che si era portato per ammazzare il tempo e allungò la testa oltre il finestrino; la pioggia non cessava.

“Suona come un avvertimento. Avevi parlato a qualcuno del nostro appostamento”?

Scosse la testa. La luce dei tre fanali, quelli scampati alla mano del figlio d’Eva, attraversava le pozzanghere scure e pareva risucchiarle dall’ombra. Regnava, intorno, il più completo silenzio. Lei aveva reclinato il sedile e ogni tanto lo guardava, mordicchiando un panino.

Lapis aveva trent’anni, il tipo ariano, alto e snello. Capelli color sabbia e occhi di tè, liquidi, annegati nella solitudine dell’esistenza, dalla quale, ultimamente, aveva cercato di distrarsi acquistando l’Eneide illustrata da Guttuso e una versione, rilegata in oro, delle memorie di Casanova, con le tredici tavole dipinte e autografate da Dalì che raffiguravano prodigiosi seni e generosi sederi. Adesso, mentre raccoglieva le briciole del maritozzo sparse sul cruscotto, rimpiangeva di non aver lasciato perdere tutta la faccenda.

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“Ti mando da un amico mio che ricicla pezzi usati. Se ti viene incontro, forse la sistemi senza svenarti”.

“Non so”, rispose, fissando la villa. La cancellata era rimasta chiusa. Nessuno era entrato, o uscito, per tutto il giorno.

Lapis toccò il vetro. Era lattiginoso, rigato di umidità. Fuori, la sera era afosa, tetra. Il lampione, sul ciglio della strada, illuminava di traverso i cani randagi che pascolavano, olezzando qua e là le pozzanghere fumanti, in cerca di qualcosa da inghiottire. Era diluviato per ore sull’asfalto infuocato. E i rigagnoli d’acqua, che ancora scorrevano tra i san pietrini della carreggiata, si andavano a raccogliere sul bordo del marciapiede in sacche putride di terriccio e fili d’erba. La villa non cessava di trasudare acqua.

Allo scoppio del temporale, la mattina, delle braccia si erano sporte da una finestra del terzo piano per sprangare le imposte. Lapis non era in grado di riconoscere quelle braccia. Ma sapeva che lì doveva esserci quel qualcuno che cercavano. Ormai era quasi mezzanotte.

“Potremmo trovare uno stratagemma, sai, per far passare l’attesa”, gli disse lei, mentre, con le labbra, iniziò a sfiorargli la pelle del collo.

“In fondo, Insigne ci ha consigliato di fingerci una coppia, tanto per non dare nell’occhio”, bisbigliò, sollevando il tulle della gonna e mostrando la farfalla tatuata sulla coscia interna.

Lapis, poggiandole una mano sulla farfalla, soffiò distrattamente il suo alito caldo sul finestrino e rimase ad osservare la nebbiolina biancastra posarsi sulla superficie, ovattandola, ed il cancello al di là dal vetro e le imposte, ancora chiuse, al terzo piano. Dall’interno non trapelava nessuna luce e nessun rumore.

“Uno di noi due dovrebbe controllare il portone”, disse Lapis. Poi, socchiuse gli occhi.

“Troveremo il modo di farlo”, rispose lei, e già, china sul volante, gli stava sganciando la cinta dei calzoni. Lapis affondò, lentamente. Ed era sul punto di dimenticarsi dov’era, quando, all’improvviso, udì aprirsi lo sportello e aprì gli occhi. Vide una sagoma nella poca luce del lampione. Era uscita nella notte. Gli puntava al petto qualcosa. Una pistola. Avvertì un click. Aveva tolto la sicura. Sentì che se fosse partito il colpo così da vicino, in quel preciso momento, gli avrebbe spezzato il cuore in due, come una barretta di zucchero filato. Lei non si era mossa. La sentiva avvinghiarsi con le unghie alle sue gambe. Immaginò l’epitaffio, sull’impietoso rapporto della polizia “… illustrissimo avvocato e giovane e procace poliziotta trovati senza vita in macchina, alla periferia della città, in piena notte. Prima del decesso avevano avuto rapporti intimi…”; la sagoma che lo avrebbe ucciso gli appariva filiforme, scura e senza faccia nella semioscurità, solo un’ombra senza consistenza. Ora, un braccio si era sollevato più in alto, ora l’arma non era più al suo cuore. Stava per sparargli alla tempia.

Lapis aspettò il colpo.

Poi, vide che la sagoma abbassava l’arma. La abbassava! E la sentì, per quanto fosse stordito dalla paura, la sentì davvero dire: “scusate, scusate non volevo disturbare”. E s’accorse che li osservava, con aria compiaciuta: lei, con la maglietta sollevata al seno, ancora china sotto il volante e lui, lì con i pantaloni calati ed una faccia da barbabietola.

Di nuovo, la sagoma disse: “Scusate, continuate, continuate, prego” e chiuse la portiera. Poi, se ne tornò verso la villa, a passi veloci. Rientrò. Così, silenziosamente. Com’era uscita.

Passarono molti minuti prima che Lapis riuscisse a riaversi dallo spavento. Si strofinò le mani per darsi calore e accarezzò la guancia di lei che parve riprendere un po’ di rossore. Rialzandosi, lei si guardò intorno, smarrita, come ricordandosi, in quell’istante solo, dove si trovasse e cosa fosse appena accaduto; ai piedi del sedile, c’era una chiazza liquida e giallastra. Si toccò l’incavo delle cosce. Era umido, maleodorante. 

“Non lo dire al commissario. Se viene fuori, mi toglierà dal servizio attivo”.

“Io non sono un poliziotto e non devo farti rapporto”.

“Sei gentile, avvocato. Comunque, anche se non l’ho visto bene in faccia, era lui”.

“Non mi riguarda chi fosse. E’ un’indagine solo vostra”.

“Guarda che noi della polizia ci occupiamo del caso su indicazione di altri”.

“Che intendi”?

“Che, in realtà, è un’indagine voluta dalla Farnesina”.

“La Farnesina? Perché proprio la Farnesina”?

“Io non faccio domande ai superiori. Tu, piuttosto, che c’entri in questa faccenda”?

Lapis raccontò, allora, di quando la vecchia signora che abitava in quella villa morì ed il nipote americano, che era suo cliente, si accorse che non poteva metterci piede, perché occupata, ma non sapeva da chi. “Così, sono andato da Insigne e lui, qualche appostamento e due verifiche dopo, subito mi ha chiamato per spiegarmi ‘la fortunata coincidenza’ e ‘la delicatezza’ del caso; che quella certa persona era già sotto indagine, che doveva essere portata al commissariato e trattenuta per accertamenti; perciò mi sono detto, bene! E’ semplice. Allora, ci vado anch’io, così dopo faccio cambiare la serratura”.

“Mi sa che sei un po’ matto, avvocato”.

Chiamarono le volanti. La polizia circondò la zona a sirene spiegate. L’uomo non oppose resistenza. Uscì, spontaneamente, con tutte e due le braccia alzate e le mani ben visibili con i palmi avanti.

Disse solo: “Io sono, per voi, assolutamente insignificante”.

Lo ammanettarono e se lo portarono via.

Dopo l’afosa giornata di pioggia, il vento aveva preso a soffiare, violento, sulla superficie piatta del cielo e, abbassandosi rasoterra, asciugava le pozzanghere e, con i suoi mulinelli, scuoteva i lampioni e il cancello di ferro scricchiolava sinistro, all’imbocco della villa.

“Buonanotte, avvocato”, lo salutò con un bacio, poi scese dalla Lamborghini senza voltarsi indietro.

Lapis tentò di trattenerla. “Buonanotte allora, … aspetta, aspetta; ti chiami”?

“Isabella”.

Nel pronunciare il suo nome si sentì nuda. Fuggì a bordo dell’ultima volante rimasta.

Capitolo 3 – I gatti del cimitero acattolico

Anche per i gatti, quella nottata, fu stranamente affollata. Dalla cima delle mura aureliane si fermarono a guardar le tombe cosparse di larve e minuscole goccioline di pioggia. Sopra le croci celtiche e i templi, gli angeli di marmo, sinistri e aleggianti nel buio, erano le sentinelle dei dannati, dalla vista infallibile di pipistrelli. L’aria ventosa odorava di mandarini e arance amare nel giardino che circondava, da un lato e dall’altro, il piccolo sentiero in mezzo alle lapidi. Uno dei busti di bronzo era ancora in cerca della sua testa dal Novecentosessanta. Lo aveva decapitato, si racconta, un tombarolo, sotto l’albero di Giuda.

Se di notte andavano a caccia, al tramonto pregavano sulle lapidi il Dio dell’autarchia, immaginato con gli occhietti a lisca di pesce e sempre in lutto, affinché dall’inferno propiziasse banchetti di topi, volatili e insetti. Verso l’alba, sonnecchiavano e bevevano il latte che portava il guardiano. Si facevano trovare appollaiati sulle figure di Cariatide che incorniciavano il viale d’ingresso. Bene in vista. Che, tanto, il guardiano era sordo come un campanaro, così lo sforzo di miagolare era inutile, ci si poteva bollire i polmoni, rimanendo senza latte e senza fiato.

Fendendo l’aria sottile, saltarono giù nel terreno erboso e col dorso si strusciarono alle lapidi, attratti dal cupo odore che esalava dalle tombe. Parve loro di non essere davvero soli, quella notte. Udirono un suono nuovo, che non era la fradicia erba, le zampe dei ratti, nel cupo nascondiglio tra le intercapedini dei sepolcri. Un segnale che bisognava indovinare. Allora, uno dei gatti zompò su un ramo e dall’alto scorse una pala, e c’era una grossa mano attaccata. Lì sotto, una piccola tomba, non granché rispetto alle altre, un po’ misera e corta.

“Ecco, li vedo, un seipiedi; sì, sono un trepiedi, moltiplicato per due, una coppia”, disse il gatto.

Gli uomini erano per i gatti del cimitero esseri formati da un paio di polpacci, un tantino arcuati, con due piedi e magari da una vanga, quella degli addetti alle pompe funebri, che fungeva da terzo piede e aveva molteplici usi: reggersi stabilmente eretti davanti ad una tomba, scavarsi la fossa o disseppellire qualcun’altro. Di qui il nome “duepiedi”, o “tre, seipiedi”, all’occorrenza.

“Seipiedi di cosa? santi? becchini? sciacalli?” chiesero gli altri felini.

Il gatto si mise in direzione del vento. Fiutò l’odore degli anfibi che portavano ai piedi. Ci pensò su, poi rispose: “Macché, seipiedi di sbirri”.

“Vedi se hanno qualcosa da mangiare”?

Fiutò di nuovo.

“No, sono poveri diavoli, stipendio fisso basso con alte trattenute alla fonte, e calzoni infangati. Non ci inviteranno a prendere il latte con il prosciutto”.

“Ma tu riesci a vedere che fanno qui”?

“Scavano”.

“Dobbiamo avvicinarci”?

“Per conto mio, stanotte non voglio puzzare di fossa. Ho fame”.

Il gatto già pregustava la carne del topo, ma per la curiosità si fermò, ancora un momento, a guardare. La lapide gli parve singolare. Non c’era foto. Nessun nome, né data di nascita, né di morte. Una tomba anonima. “Perché lo fanno”? si chiese, perplesso.

Poi, dietro la lapide, trovò un filo d’erba da mordicchiare. I seipiedi, intanto, scavavano a turno, per non stancarsi troppo, nella ricerca di quel che c’era sotto. Così, mentre un trepiedi scavava, l’altro si appisolava.

Ma l’uno, scavando, e l’altro, sonnecchiando, si chiedevano entrambi se quella lapide era poi quella giusta. O il posto era sbagliato. Non avevano a disposizione un prete che nell’omelia pronunciasse il nome. Dunque, il tizio sottoterra poteva non essere lo sconosciuto che pensava Insigne.

Erano stati mandati proprio lì e proprio quella notte dal commissario. Con la planimetria del cimitero acattolico per individuare il punto da ispezionare. Altrimenti, li avrebbe spediti a fare i porta-pizza in bicicletta. Per questo, ora puzzavano di fiori morti.

Ecco, il gatto vide che avevano scavato a sufficienza. Adesso, poggiavano le vanghe. Prendevano le corde e sollevavano una bara dalla fossa. Si chinarono. Un trepiedi si torse le mani e raschiò via la terra; inspirò a fondo e sollevò il coperchio. Il buio alle sue spalle cadde nella bara. L’altro proiettò dentro la luce di una torcia.

Un corpo, non c’era.

C’era uno strano imballaggio. In acciaio e plastica. Conteneva lettere, cartoline, pacchi. Qualche timbro postale era scolorito, vecchio di anni. Ma la corrispondenza intatta, apparentemente grazie a quello speciale imballaggio. I seipiedi non si mossero per qualche minuto. Neanche il gatto. Tentavano di capire. Non era ciò che si aspettavano. Neanche il felino se l’aspettava. Posta finita lì, non si sa come. Poi, il trepiedi che aveva sollevato il coperchio si sporse all’interno. Controllò se davvero non vi fosse un morto da tastare. Mentre l’altro dirigeva la luce della torcia, alla ricerca di qualcosa, in quella carta, che magari valesse la pena recuperare.

Una busta, incastrata a tre millimetri da un angolo dell’imballaggio, sopra una pila di lettere. Il nome del destinatario, in basso a destra, era ancora leggibile: “S.V. Ill.mo et Ecc.mo Is, presso la Black Diamond’s S.r.l.”. I seipiedi si fecero un cenno d’intesa.

Il gatto avrebbe tanto voluto leccarla, ma subito finì nella sacca dei poliziotti e, da lì, nel portabagagli dell’auto che avevano parcheggiato appena fuori le mura aureliane. Fuggirono a velocità rallentata, per non svegliare i morti. Poi, tornò il silenzio. Dimenticarono di ricoprire di terra la fossa. La riempirono i topi. Per i felini un abbondante pasto, quella notte.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Serena Mattei
Avvocato civilista, patrocinante in Cassazione, e giornalista. Ha curato successioni ereditarie e problematiche giuridiche legate al riconoscimento di morte presunta e recupero al patrimonio ereditario di beni all’estero, vendite in asta di opere d’arte e adempimenti in presenza di vincoli culturali e acquisizioni privilegiate della Soprintendenza. Lavora tra Roma e Milano.
Ha collaborato con testate nazionali di carattere economico finanziario - Panorama Economy (Arnoldo Mondadori Editore), Milano Finanza (Gruppo Class), Gente Money (Haschette Rusconi) - pubblicando articoli relativi a operazioni di finanza straordinaria (IPO, OPA, M&A, ristrutturazioni bond) e case history societarie (Parmalat, Cirio); e curato i rapporti con la Farnesina per una nota agenzia di stampa.
Appassionata di viaggi e montagna. “Il maestro e Margherita” di Bulgakov è il suo romanzo preferito
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