Quanto può essere ironica la vita? Fin da bambino per Giulio Torre la normalità ha avuto le sembianze di una pistola e di una striscia di coca, e i suoi ispiratori sono stati i delinquenti del quartiere: gli anni Ottanta possono picchiare duro se nasci in una periferia degradata. Avviato sulla strada della delinquenza, Giulio scala in poco tempo la via del successo, guadagnandosi il rispetto e la posizione di leader di una banda, insieme ai suoi amici più cari, che semina il caos in città, espandendo progressivamente le sue operazioni criminali. Tuttavia, tra il crimine e la redenzione, la linea è sottile, e un solo istante può rivelarsi fondamentale per il suo destino.
Prologo
Sento l’odore del bosco, l’odore inconfondibile di muschio umido misto a quello delle foglie bagnate che cominciano a marcire. I raggi del sole passano attraverso le fronde degli alberi e creano lame di luce che colpiscono tutta la radura in cui mi trovo. Sento il suo calore sulla schiena. È una sensazione piacevole all’alba di questa fresca mattina.
L’ho seguita tutta la notte. Adesso è là, davanti a me, a qualche decina di metri. Enorme, ferita, sa esattamente quale sarà la sua prossima mossa. Mi guarda con l’aria di chi è costretto a farlo, ma allo stesso tempo con profonda determinazione. Ogni suo respiro si trasforma in vapore a contatto con l’aria fredda e, come il fumo di una locomotiva possente, è la promessa che lei metterà tutta la sua forza in quest’ultimo disperato gesto.
Mi metto in ginocchio.
L’umidità del terreno penetra i vestiti e raggiunge la pelle. È fresca e seducente.
Dicono che, quando stai per morire, la vita ti scorre tutta davanti agli occhi in pochi istanti. In effetti, i miei ricordi stanno affiorando uno dopo l’altro.
PARTE Prima
Un talento sprecato
Capitolo uno
Quando penso alla prima volta che ho commesso un crimine, mi rendo conto di quanto fossi incosciente. Quel gesto fu figlio di una scelta che mi spinse nella direzione sbagliata in uno dei tanti bivi della vita. Frantumai la vetrina del povero Graziano, il gelataio del quartiere dove ero nato, che non voleva rendere i soldi delle ultime dosi di coca, quattordici grammi circa, poco più di un milione di lire. Per lui una cifra irrisoria, non perché fosse ricco, ma per quanto gli costava il suo vizio.
Il lavoretto mi fu commissionato da uno spacciatore conosciuto come il Colombiano. Tutti sapevamo benissimo che non era sudamericano (credo fosse originario dell’entroterra lucano), lo chiamavamo così a causa della qualità e quantità di cocaina che quel figlio di puttana riusciva a gestire. Si diceva che avesse connessioni dirette con la Colombia e, a giudicare dalla qualità del prodotto e dalle quantità che aveva sempre a disposizione, quel soprannome gli si adattava a pennello. Lui mi contattò e io accettai, senza pensarci due volte: con quei soldi avrei potuto chiedere a Eleonora, la ragazza che mi piaceva, di uscire con me.
Il Colombiano scelse me non perché avessi delle doti particolari, aveva semplicemente pescato nel grande bacino di risorse composto dai giovani sbandati del quartiere. Mi disse che potevo gestire la cosa nella maniera che ritenevo migliore. Fece una sola richiesta: agire di giorno per dare il messaggio che i debiti si pagano. Sempre.
Ubbidii.
Che sciocco! Qualcuno mi avrebbe potuto identificare senza problemi, mettendomi nei guai visto che in zona ci conoscevamo pressoché tutti. Il fatto è che volevo assomigliare ai criminali del mio quartiere che, agli occhi di noi pivelli, erano dei miti.
La mattina che segnò l’inizio della mia storia criminale, mi presentai davanti alla vetrina della gelateria. Da fuori, non si riusciva a vedere l’interno a causa degli aloni di sporco. L’insegna luminosa di plastica era piena di crepe e mi ricordo che la sera non veniva mai accesa. Visto che la maggior parte degli incassi serviva ad altro, era facile capire perché il negozio stesse andando in pezzi. Apparentemente non avrei dato nell’occhio, perché la strada era una di quelle secondarie, con pochi passaggi d’auto, l’asfalto pieno di buche e i marciapiedi in attesa di manutenzione da anni. Tipico di un quartiere di periferia che è meglio non frequentare di notte, soprattutto se non si è del posto.
Era una mattina di estate, di quelle che, alle prime ore di sole, il caldo ti dà un’idea del genere d’inferno che ti aspetta in giornata. Indossavo un fazzoletto nero che mi copriva bocca e naso e un cappellino tirato giù sugli occhi. Il cuore mi batteva forte e avevo le mani sudate, con l’ansia che mi stringeva lo stomaco in una morsa micidiale. Appena il momento fu propizio, scrutando in giro che non mi vedesse nessuno, con un immenso sforzo di volontà e prendendo una profonda boccata d’aria, tirai la pietra che mi ero portato dietro per l’occasione. La vetrata della gelateria si frantumò in mille pezzi con un forte boato. Scattò anche l’allarme di una macchina parcheggiata lì accanto.
Con le tempie che mi pulsavano, mi allontanai rapidamente e scaricai tutta la mia tensione sull’asfalto, correndo. Nessuno mi vide o quantomeno nessuno parlò. La mia prima missione era stata compiuta.
Avevo sedici anni e mi sentivo già lanciato nel mondo dei grandi, di quelli che contavano. Il Colombiano aveva inviato il suo avvertimento e io imboccato una strada senza ritorno.
Nei giorni successivi, tutti parlavano di ciò che era successo alla gelateria. Nessuno si era meravigliato più di tanto, sapevano che prima o poi sarebbe successo qualcosa. Graziano non doveva soldi solo al Colombiano, anche al minimarket, al meccanico, una lunga lista. Purtroppo, quando ti piace tanto la coca, i soldi diventano sempre un problema, a meno che tu non sia un cazzo di narcotrafficante.
Come molti altri tossici, Graziano decise di sparire per un po’ di tempo. Non l’ho mai più visto. Dopo alcuni anni, si scoprì che era morto di AIDS. Aveva contratto la malattia prostituendosi per procurarsi la droga in qualche città sconosciuta. Sapere che il mio primo crimine aveva contribuito a quella fine si aggiunse ai miei pensieri oscuri, che mi hanno impedito di dormire per anni.
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Capitolo due
I miei genitori non sono state figure molto presenti. Mia madre, una donna dal corpo esile ma con uno sguardo che lasciava trasparire il carattere d’acciaio, scappò con uno sconosciuto appena i bilanci di famiglia precipitarono a causa del fallimento della ferramenta di mio padre. Se ne andò un giorno di dicembre. Avevo circa dieci anni e nevicava. Per un bambino la neve deve essere un ricordo gioioso, allegro. Per me ha sempre avuto il triste sapore dell’abbandono. Lei non avrebbe voluto neanche mettere su famiglia, lo fece solo per compiacere sua madre.
Mio padre, invece, un uomo onesto con un addome che lasciava intuire che i piaceri culinari erano rimasti il suo solo conforto, nonostante tutto era stato furbo. Quando dovette chiudere il negozio per l’impossibilità di pagare i debiti, era comunque riuscito a nascondere diverse decine di milioni di lire, frutto delle vendite in nero. Tutto ciò mia madre non l’ha mai saputo. Poco importa, quando il negozio chiuse, invece di rimanere vicino a mio padre, se ne stava andando con il suo amante.
Benché fossi ancora un ragazzino, non soffrii molto per la separazione dei miei. Gli anni, alla fine della loro storia, erano stati pieni di mostruosi litigi e urla impressionanti, recriminazioni, pesanti offese e, naturalmente, lanci reciproci di oggetti di tutti i tipi.
Quando mia madre se ne andò, fu quasi una liberazione per me, anche se il distacco improvviso tra una madre e il proprio figlio non è cosa da poco. Ricordo che mi salutò con un bacio e un abbraccio, promettendomi di tornare presto. Che insensibile bugiarda! Non l’ho mai più rivista viva. Quando la ebbi di nuovo davanti, era il giorno del suo funerale, distesa nella bara con il fazzoletto che copriva la testa glabra. Aveva perso la metà del suo peso. Era morta di un cancro al seno, ma neanche negli ultimi mesi di vita aveva avuto il coraggio di contattarmi per incontrarmi almeno una volta. Credo si sia comportata così per la vergogna o, almeno, mi piace credere che sia stato questo il motivo.
Rimasi a vivere con mio padre. Dovetti affrontare molte difficoltà da solo, poiché il mio vecchio non era in grado di crescere un figlio. I miei nonni erano già morti e il resto della famiglia non si fece avanti per aiutare chi non aveva saputo tenersi né la moglie né un lavoro.
Era un uomo buono, mio padre, ma incapace di darmi una qualunque direzione. Mi diede un unico buon consiglio, anche se all’epoca io non capivo bene cosa intendesse, ero ancora così giovane e sapevo ancora poco di me stesso, tantomeno quali fossero i miei talenti.
Ricordo con nitidezza quel giorno perché mi aveva portato a pescare, tentando goffamente sia di svolgere quel ruolo che proprio non sembrava tagliato per lui sia di improvvisarsi pescatore, quando non era neppure capace di assemblare una canna da pesca visto che stavamo usando attrezzature già confezionate. Era una mattina presto, di giugno. Il calore del sole appena nato faceva evaporare la rugiada caduta nella notte, e a pelo del prato e sull’acqua una nube di vapore si levava verso l’alto, esortando la mia fantasia a credere che ciò che vedevo fosse il respiro del lago, pensieri che poco si adattavano alla serietà dell’argomento di cui mio padre voleva parlarmi.
Dunque, eravamo seduti vicini e lui iniziò un lungo discorso pieno di raccomandazioni su come avrei dovuto condurre la mia vita, e alla fine mi disse queste parole, che sono rimaste per sempre impresse nella mia mente per qualche motivo sconosciuto: «Figlio mio, non sprecare il tuo talento». Lo disse con gli occhi lucidi, mostrando tutta la malinconia che provava in quel momento, forse perché aveva fatto lo stesso errore, lasciando scorrere la sua vita sprecando chissà quale talento.
Anni dopo mi resi conto di aver effettivamente seguito il suo consiglio, anche se in una direzione sbagliata.
Giacomo Alfredini (proprietario verificato)
Ballando sulla mia tomba è un libro che narra la storia di tre amici. La trama gira intorno alle vicissitudini criminali dei tre nella prima parte,con la seconda parte del libro in cui il protagonista prende la via della redenzione. Il ritmo sempre incalzante si conferma un grande pregio della prosa di Vignoli: rende quasi impossibile interrompere la lettura,grazie anche ai colpi di scena mai banali o troppo prevedibili. Consiglio la lettura di questo libro,in quanto vi terrà incollati alle pagine dall’inizio alla fine.
Cristian Calistri (proprietario verificato)
“Ballando sulla mia tomba”, un libro crime che ti travolge dall’inizio alla fine,ha la capacità di farti immergere completamente nella storia.Una trama avvincente che tratta una prima parte crime con scene crude e potenti,e una seconda parte di redenzione e Catartica il tutto legato molto bene dallo scrittore,se vogliamo potrebbe anche essere d’ispirazione per un film.Un libro avvincente che consiglio a tutti amanti del genere e non!