L’umidità del terreno penetra i vestiti e raggiunge la pelle. È fresca e seducente.
Dicono che, quando stai per morire, la vita ti scorre tutta davanti agli occhi in pochi istanti. In effetti, i miei ricordi stanno affiorando uno dopo l’altro.
1
Più della metà della vita l’ho passata in carcere. Forse per quello di cui sono colpevole è anche poco. Ci ho rimesso veramente tutto e non biasimo mia figlia se non ha mai voluto conoscermi. Non conosco neanche il suo viso. A dirla tutta, non conosco il suo viso da adulta. Sono stato separato da lei troppo presto e le droghe che mi sono fatto in passato non mi hanno certo aiutato a ricordare il volto di bambina, l’unico a cui potrei aggrapparmi. Le ho scritto molte lettere, ma non ho mai avuto risposta. Non so neanche se le ha ricevute. Gli unici ricordi che ho sono di quando aveva pochi mesi e mi viene da sorridere.
Quando penso alla prima volta che ho commesso un crimine, mi rendo conto di quanto fossi stato incosciente. Fu figlio di una scelta che mi spinse nella direzione sbagliata in uno dei tanti bivi della vita. Frantumai la vetrina del povero Graziano, il gelataio del quartiere dove ero nato. Non voleva rendere i soldi delle ultime dosi di coca, quattordici grammi circa, poco più di un milione di lire. Per lui una cifra irrisoria, non perché fosse ricco, ma per quanto gli costasse il suo vizio.
Il lavoretto mi fu commissionato da uno spacciatore del quartiere conosciuto come il Colombiano. Tutti sapevamo benissimo che non era veramente sudamericano (credo fosse originario dell’entroterra lucano), lo chiamavamo così a causa della qualità e quantità di cocaina che quel figlio di puttana riusciva a gestire. Si diceva che avesse connessioni dirette con la Colombia e a giudicare dalla qualità del prodotto e dalle quantità che aveva sempre a disposizione, il suo soprannome gli si adattava perfettamente. Lui mi contattò e, nella mia incoscienza, accettai. Con quei soldi avrei potuto chiedere a Eleonora, la ragazza del quartiere che mi piaceva, di uscire con me.
Il Colombiano scelse me, non perché avessi delle qualità particolari, aveva semplicemente pescato nel grande bacino di risorse fatto di giovani sbandati del quartiere. Fu lui a contattarmi e io, nella mia incosciente spavalderia, non ci pensai due volte. Mi disse che potevo fare nella maniera che ritenevo migliore. Fece una sola richiesta: farlo di giorno per dare il messaggio che i debiti si pagano. Sempre. Feci come mi era stato chiesto. Che sciocco! Qualcuno mi avrebbe potuto riconoscere senza problemi, mettendomi da subito nei guai visto che nel quartiere ci conoscevamo pressoché tutti. Il fatto è che volevo assomigliare ai criminali del mio quartiere che agli occhi di noi pivelli erano miti.
La mattina che segnò l’inizio della mia storia criminale, mi presentai davanti alla vetrina della gelateria. Da fuori, attraverso la vetrina, non si riusciva a vedere l’interno a causa degli aloni di sporco. L’insegna luminosa di plastica era piena di crepe e mi ricordo che la sera non veniva mai accesa. Visto che la maggior parte degli incassi servivano ad altro, era facile capire perché il negozio stesse andando in pezzi. Fortunatamente, non avrei dato nell’occhio, semplicemente perché la strada era una di quelle secondarie, con pochi passaggi d’auto, l’asfalto pieno di buche e i marciapiedi in attesa di manutenzione da anni. Tipico di un quartiere di periferia che è meglio non frequentare di notte, soprattutto se non si è del posto.
Era una mattina di estate, di quelle che alle prime ore di sole, il caldo ti dà subito un’idea del genere d’inferno che ti aspetta in giornata. Indossavo un fazzoletto nero che mi copriva bocca e naso e un cappellino tirato giù sugli occhi. Il cuore mi batteva forte e avevo le mani sudate, con l’ansia che mi stringeva lo stomaco in una morsa micidiale. Appena il momento fu propizio, scrutando in giro che non mi vedesse nessuno, con un immenso sforzo di volontà e prendendo una profonda boccata d’aria, tirai la pietra che mi ero portato dietro per l’occasione. La vetrata della gelateria si frantumò in mille pezzi con un forte boato. Scattò anche l’allarme di una macchina parcheggiata lì accanto. Con le tempie che mi pulsavano, mi allontanai rapidamente e scaricai tutta la mia tensione sull’asfalto correndo. Nessuno mi vide o quantomeno non parlò. La mia prima missione era stata compiuta.
Avevo sedici anni e mi sentivo già lanciato nel mondo dei grandi, nel mondo di quelli che contavano. Il Colombiano aveva inviato il suo avvertimento e io imboccato una strada senza ritorno.
Nei giorni successivi, tutti parlavano di ciò che era successo alla gelateria. Nessuno si era meravigliato più di tanto e sapevano che prima o poi sarebbe successo qualcosa. Graziano non doveva soldi solo al Colombiano, ma anche al minimarket, al meccanico e ad altri nel quartiere. Purtroppo, quando ti piace tanto la coca, i soldi diventano sempre un problema, a meno che tu non sia un cazzo di narcotrafficante. Come molti altri tossici, Graziano decise di sparire per un po’ di tempo. Non l’ho mai più visto. Dopo alcuni anni, si scoprì che era morto di AIDS. Aveva contratto la malattia prostituendosi per procurarsi la droga in qualche città sconosciuta. Sapere che il mio primo crimine aveva contribuito a quella fine, si aggiunse ai miei pensieri oscuri, che mi hanno impedito di dormire per anni.
2
I miei genitori non sono state figure molto presenti. Mia madre, una donna dal corpo esile ma con uno sguardo che lasciava trasparire il suo carattere d’acciaio, scappò con uno sconosciuto appena i bilanci di famiglia precipitarono a causa del fallimento del ferramenta di mio padre. Se ne andò un giorno di dicembre. Nevicava. Per un bambino la neve deve essere un ricordo gioioso, allegro. Per me ha sempre avuto il triste sapore dell’abbandono. Lei non avrebbe voluto neanche mettere su famiglia, lo fece solo per compiacere sua madre. Quando lei se ne andò avevo circa dieci anni.
Mio padre, invece, un uomo onesto con un addome che faceva intuire che i piaceri culinari erano rimasti il suo solo conforto, nonostante tutto era stato furbo. Quando dovette chiudere il negozio per l’impossibilità di pagare i debiti, era comunque riuscito a nascondere diverse decine di milioni di lire, frutto delle vendite in nero. Tutto ciò mia madre non l’ha mai saputo. Poco importa, scappò ancor prima che mio padre decise di chiudere l’attività, aveva fiutato in anticipo la rovina del suo matrimonio.
Benché fossi ancora un ragazzino, non soffrii molto della separazione dei miei. Gli anni, alla fine della loro storia, erano pieni di mostruosi litigi e urla impressionanti, recriminazioni, pesanti offese e, naturalmente, lanci reciproci di oggetti di tutti i tipi. Quando mia madre se ne andò, fu quasi una liberazione per me. Ricordo che mi salutò con un bacio e un abbraccio, promettendomi di tornare presto. Che insensibile bugiarda! Non l’ho mai più rivista viva. Quando la ebbi di nuovo davanti, fu il giorno del suo funerale, distesa nella bara con il fazzoletto che copriva la testa glabra. Aveva perso la metà del suo peso. Morì di un cancro al seno, ma neanche negli ultimi mesi di vita ebbe il coraggio di contattarmi per rivedermi almeno una volta. Credo si sia comportata così per la vergogna o, almeno, mi piace credere che sia stato questo il motivo.
Dopo che mia madre se ne andò, rimasi a vivere con mio padre. Dovetti affrontare molte difficoltà da solo, poiché il mio vecchio non era in grado di crescere un figlio. I miei nonni erano già morti e il resto della famiglia non si fece avanti per aiutare un uomo che non aveva saputo tenersi né la moglie né un lavoro. Era un uomo buono, mio padre, ma praticamente incapace di darmi una qualunque direzione. L’unico buon consiglio che fu in grado di darmi in tutta la sua vita fu quello di non sprecare il mio talento. All’epoca non sapevo bene cosa intendesse, ero ancora così giovane e sapevo ancora poco di me stesso, tantomeno quali fossero i miei talenti. Ricordo bene il giorno in cui mio padre mi disse quelle parole, rimaste impresse per qualche motivo a me sconosciuto nella mia mente. Era il giorno in cui mi portò a pescare, tentando goffamente di svolgere quel ruolo che proprio non sembrava tagliato per lui. Era una mattina presto, di giugno. Il calore del sole appena nato faceva evaporare la rugiada caduta nella notte, e a pelo del prato, una nube di vapore si levava verso l’alto. Lo stesso fenomeno si manifestava sull’acqua ed esortava la mia fantasia a credere che ciò che vedevo era il respiro del lago, evidentemente nella mia testa aleggiavano pensieri che avevano poco a che fare con la serietà dell’argomento di cui mio padre voleva parlarmi. Mentre stavamo pescando, usando attrezzature già confezionate perché lui non era capace di assemblare un’armatura da pesca, mi disse queste parole: «Figlio mio, non sprecare il tuo talento». Come ho già detto, all’epoca non avevo ben chiaro cosa volesse dire, ma quella frase è rimasta con me per sempre. Quel consiglio e stato l’unico utile che mi abbia mai dato. Mio padre pronunciò quella frase dopo un lungo discorso pieno di raccomandazioni su come avrei dovuto condurre la mia vita. I suoi occhi erano lucidi, mostrando tutta la malinconia che provava in quel momento, forse perché aveva fatto lo stesso errore, lasciando scorrere la sua vita sprecando chissà quale talento. Anni dopo mi resi conto di aver effettivamente seguito il suo consiglio, anche se in una direzione sbagliata.
3
Nonostante le difficoltà, ho avuto anche alcune esperienze meravigliose, come quella di incontrare mia moglie Eleonora. Ci conoscevamo da molti anni, fin da quando eravamo bambini e abitavamo entrambi nel nostro quartiere, il cosiddetto villaggio S. Jacopo. Il quartiere popolare era noto per essere abitato da famiglie disagiate e spesso veniva additato come il luogo dove si concentravano tutti i mali del mondo. In realtà, ho imparato che il crimine non ha classi sociali privilegiate e ho fatto affari con personaggi insospettabili che si nascondevano dietro camicia bianca e cravatta, sfruttando la loro posizione per raggiungere i loro scopi più abbietti. In mezzo a tutta questa melma, incontrare Eleonora è stato uno dei momenti più importanti della mia vita, che mi ha dato speranza e motivazione per andare avanti.
Io ed Eleonora abitavamo nello stesso stabile, un palazzo tipico dei quartieri popolari di quei tempi. Erano le classiche costruzioni grigie che non avevano goduto del lusso di un progetto di qualche architetto di fama, con poche aree verdi attorno e molto cemento.
I nostri terrazzi erano uno di fronte all’altro perché la struttura dove abitavamo aveva una forma a ferro di cavallo. Dal mio terrazzo potevo vedere fin dentro la sua camera.
Quando i miei genitori litigavano, le urla venivano udite da tutto il vicinato, inclusa ovviamente Eleonora. Vedevo i miei vicini che sbirciavano fuori per ascoltare il sordido spettacolo che i miei genitori mettevano in scena ogni volta che se la prendevano l’uno con l’altro. Nel pieno del mio imbarazzo, mentre guardavo i volti dei vicini sui loro terrazzini che guardavano la loro messa in scena come se fosse uno spettacolo teatrale, cercavo Eleonora. Lei era appoggiata alla ringhiera e faceva gesti di ogni tipo per farsi notare. Quando io gli facevo cenno che mi ero accorto di lei, mostrava tutta la sua bellezza, con un sorriso che spiccava dal mezzo a tutto quello squallore che avevo davanti, tra terrazzi che sembrava dovessero crollare da un momento all’altro e vicini pieni di maligna curiosità. Mi bastava il suo sorriso per darmi quel poco di energia che mi serviva per riuscire a vivere quei momenti, immerso nei drammi familiari che avevano segnato la mia infanzia. Lei era là ogni volta che i miei genitori si urlavano contro. Giorno dopo giorno, il mio affetto per la ragazza col sorriso che squarciava l’oscurità dei miei momenti bui, non poteva fare altro che crescere ogni volta.
Da adolescenti alle soglie della mia carriera criminale, il nostro affetto infantile si è rapidamente trasformato in attrazione. Eleonora era molto bella, non molto alta, capelli lunghi neri, ricci e molto voluminosi. Una forma fisica generosa, sviluppata in confronto a tante sue coetanee. Di carnagione scura, eredità della madre di provenienza mediorientale, libanese per l’esattezza. Il padre, invece, era siciliano ma uno di quei siciliani insoliti, con i capelli castano chiaro e gli occhi azzurri per via dei geni tramandati dalla colonizzazione normanna. Questo aveva conferito anche a lei degli occhi celesti, quasi blu, contornati da piccole lentiggini. Questo miscuglio di geni aveva dato vita a ciò che ai miei occhi appariva un fiore di ninfea in mezzo a una pozza di acqua putrida.
Adesso, però, dopo tutto ciò che è accaduto, penso che non meritassi una donna così bella. Avrei dovuto essere all’altezza di dare una vita migliore a una simile creatura. Invece, il meglio che riuscii a fare all’epoca, fu accettare un lavoro dal Colombiano per guadagnare centomila lire per poterla portare fuori a cena.
Venendo a me, posso dire che Madre Natura è stata generosa, almeno nel mio aspetto fisico. Sono alto nella giusta misura, con un corpo proporzionato e una muscolatura particolarmente sviluppata nonostante non abbia mai praticato sport. Anch’io come Eleonora ho una carnagione scura, a causa delle origini meridionali, sia da parte di mia madre che di mio padre. Questo mi conferisce un aspetto caratteristico mediterraneo. Con l’avanzare dell’età, la mia passione per i tatuaggi e il mio sguardo perennemente incazzato hanno fatto sì che il mio aspetto divenisse quello di un uomo senza scrupoli. Me ne rendo conto solo adesso, ma non posso dire che questa peculiarità non mi sia tornata comoda nel mestiere che mi ero scelto.
Sebbene la natura si sia dimostrata benevola con me per quanto riguarda l’aspetto fisico, non posso dire altrettanto per l’intelletto, anche se durante gli anni trascorsi in carcere ho avuto tutto il tempo necessario per rifarmi. Il mio carattere si è sempre contraddistinto per la tendenza a raggiungere i miei obiettivi con la forza, alimentata da un forte istinto di prevaricazione. Non sono mai stato un esempio da seguire, in quanto non ho mai saputo scegliere ciò che era meglio per me. Una delle mie peculiari abilità, che da un lato mi ha aiutato ma dall’altro ha contribuito alla mia rovina, è stata la mia naturale predisposizione a lottare. Sapevo schivare attacchi di chi provava a colpirmi e allo stesso tempo mettere a segno i miei. Un maledetto dono di Dio.
Giacomo Alfredini (proprietario verificato)
Ballando sulla mia tomba è un libro che narra la storia di tre amici. La trama gira intorno alle vicissitudini criminali dei tre nella prima parte,con la seconda parte del libro in cui il protagonista prende la via della redenzione. Il ritmo sempre incalzante si conferma un grande pregio della prosa di Vignoli: rende quasi impossibile interrompere la lettura,grazie anche ai colpi di scena mai banali o troppo prevedibili. Consiglio la lettura di questo libro,in quanto vi terrà incollati alle pagine dall’inizio alla fine.
Cristian Calistri (proprietario verificato)
“Ballando sulla mia tomba”, un libro crime che ti travolge dall’inizio alla fine,ha la capacità di farti immergere completamente nella storia.Una trama avvincente che tratta una prima parte crime con scene crude e potenti,e una seconda parte di redenzione e Catartica il tutto legato molto bene dallo scrittore,se vogliamo potrebbe anche essere d’ispirazione per un film.Un libro avvincente che consiglio a tutti amanti del genere e non!