Un uomo vive in una quotidianità segnata da un gesto ossessivo: cucirsi addosso gli oggetti che ama. Libri, fotografie, giocattoli, ricordi d’infanzia diventano parte della sua pelle, trasformando il suo corpo in un archivio vivente di memorie e passioni. Quella che potrebbe sembrare follia è, per lui, un atto d’amore e di protezione, un modo per non perdere nulla di ciò che lo ha reso felice. Ma il mondo esterno non comprende: lo giudica, lo teme, tenta di strappargli via ciò che egli custodisce con devozione.
Tra incontri imprevisti, violenza, desiderio e vulnerabilità, il protagonista si muove come una creatura fragile e al tempo stesso indistruttibile, alla ricerca di qualcuno che sappia davvero guardarlo e accettarlo. Un racconto inquietante e struggente sulla solitudine, sull’attaccamento e sul confine sottile tra cura e ossessione.
26.04
Stavo lì, seduto sulla mia veranda. Una comoda sedia e un tavolaccio di legno davanti a me. In lontananza si vedeva un poco del tramonto tra i palazzi. La luce calda del sole si faceva strada fino a me e al tesoro che stringevo tra le mani: un libricino rilegato in cuoio. Una bellissima, preziosa raccolta di poesie di un francese di cui non mi azzardo nemmeno a pronunciare il nome. Da giorni e giorni stringevo tra le mani quelle pagine, e ogni momento di pausa era dedito alla lettura di quelle parole stupende. Ero addirittura arrivato a consumare quel cuoio e ad assottigliare la carta. Lo amavo! Ecco! Queste sono le parole giuste, le parole che userebbe un poeta: lo amavo! Stringevo quel quadernetto al petto, con passione, mentre il tramonto ci dedicava la sua ultima carezza. Mi ripetevo le parole graziose a memoria, con lo sguardo rivolto verso il cielo. Quale luna dovrei io attendere… Poi sì, quelle altre parole che mi ricordavano l’infanzia: Sulla tavola, il caldo pane paterno… non potevo saziarmene! E così, mentre la luce dorata ci lasciava, affiorava nella mia mente la ferma consapevolezza di ciò che avrei dovuto fare.
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Sia chiaro: non ho mai dubitato. Non ho mai avuto nemmeno un’ombra di esitazione, no. L’avevo già fatto? Può darsi, ma forse anche no. Ma questo non vi interessa e non fa differenza alcuna: non ho dubitato, non ho esitato. L’ho solamente fatto. Io faccio, e faccio questo.
Misi svelto una mano nella tasca dei pantaloni. Finché c’è ancora questo poco di luce, pensai. Ma sapevo che luce o meno faceva lo stesso. Presi una scatola metallica poco più grande del mio palmo e la poggiai sul tavolo. Posato delicatamente il libro di poesie, afferrai con entrambe le mani la scatoletta e iniziai a svitarla finché non schioccò. Con cura ne tirai fuori il contenuto e poco a poco lo appoggiai sul tavolo. Un gomitolo di filo ruvido. Un lungo ago da cucito, robusto. Lo guardai riflettere il sole morente, mi godetti quella luce come mi godetti quel metallo. Feci passare il filo spesso attraverso la cruna. So che molti si spazientiscono nel centrare l’anellino metallico, ma io sono di diverso avviso. Trovo tutto questo, compreso il trapassare la cruna dell’ago, pacifico e delicato. Poetico, potrei anche dire.
Presi il libro, lo sfogliai, ne respirai a fondo l’odore acre e quasi ne baciai ogni pagina. Poi, con metodo, allungai il braccio destro, nudo, e ve lo stesi lì sopra, poco sotto il gomito. Tra le tante cose, ho anche la fortuna di essere ambidestro! Lo accarezzai lì, a contatto con la mia pelle. Il cuoio risveglia il senso del tatto in un modo che oserei dire… speciale. Dopodiché lo lasciai così in equilibrio, mentre con la mano sinistra che si allontanava prendevo l’ago. Si muoveva nella luce fioca come una saetta, e si portava dietro la sua coda di spago come un’umile cometa. Puntai la cima contro il vertice in alto a sinistra del quadernino, posato sul mio braccio. Mi assicurai che tutto fosse al suo posto, poi, senza perdere altro tempo, affondai l’ago. Bucò facilmente il cuoio in copertina, ebbe invece qualche indecisione nel penetrare i fogli di carta. Nulla però che non si potesse risolvere con un po’ di sana fermezza. Ecco che passa per il cuoio in fondo e, finalmente, sento il freddo del metallo sulla mia pelle. E dopo la pelle nella carne, dentro di me. Ed ecco che lo faccio riaffiorare dal lato opposto, di nuovo lo stesso processo, ma a ogni punto dato il lavoro diventa più facile.
Non fraintendete: sono un tipo a modo io. Non ho certo sbiadito le parole del grande poeta con il mio sangue, non pensateci nemmeno! No, infatti io di sangue non ne caccio fuori, e le sensazioni che provo in generale, per quanto entrino a fondo dentro me, non sono mai cattive, ma sempre buone: innamorate. Continuavo così, nella macchia di buio che progressivamente si allargava sulla veranda, l’ago si muoveva come la sega nel tronco della sequoia. Dentro fuori dentro fuori con fare meccanico, il freddo, la punta acuminata, ma anche l’amore per la poesia, il nome francese che non proverò mai più a pronunciare, perché in fondo non ne ho più alcun bisogno adesso che sarà con me per sempre.
Soddisfatto, tirai il filo, lo strappai con i denti e lo fissai. Osservai meravigliato il rettangolo di cuoio, ma sapevo che osservarlo non era il punto, ora lo… sentivo. Dunque, potevo dirmi davvero felice. Stesi la manica della camicia sopra il braccio. Nessuno, vedendomi in quel momento, poteva immaginare cosa avessi appena fatto, cosa faccio.
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