Un uomo perverso, ma forse non così tanto cattivo. Non tanto un uomo, piuttosto una bambola. Il suo corpo non è un corpo, bensì il suo oggetto più prezioso. Il suo amore non è un amore qualsiasi, ma l’ossessione che guida la sua mano, la follia che si esprime attraverso ago e filo, e che gli trapassa la pelle.
Un uomo perfetto, ma forse anche un mostro; il prediletto, eppure al contempo il reietto. Quel suo amore che teme la dimenticanza, ma anche quel suo amore che si lascia il vuoto alle spalle.
Perché ho scritto questo libro?
Questo romanzo rappresenta un passo cruciale nella mia esplorazione artistica del corpo umano e dei sentimenti a esso profondamente legati. Bambola si ispira ai tentativi artistici di fine Novecento di “dissacrare” il corpo per sviscerarlo delle emozioni e dei pensieri altrimenti inaccessibili. Pur con un’atmosfera surreale e ironica, questo diario riflette l’intimità che è familiare a ciascuno noi.
ANTEPRIMA NON EDITATA
26.04
Stavo lì, seduto sulla mia veranda. Una comoda sedia e un tavolaccio di legno davanti a me. In lontananza si vedeva un poco del tramonto trai palazzi. La luce calda del sole si faceva strada fino a me e sull’adorato tesoro che stringevo tra le mani: un piccolo libriccino rilegato di un cuoio consunto. Una bellissima, preziosa raccolta di poesia di un autore francese di molti anni or sono, non mi azzardo nemmeno a pronunciarne il nome. Da giorni e giorni stringevo tra le mani quelle pagine, e ogni momento di pausa era dedito alla lettura di quelle parole stupende. Ero addirittura arrivato a consumare quel cuoio e ad assottigliare la carta. Lo amavo! Ecco! Queste sono le parole giuste, le parole che userebbe un poeta: lo amavo! Stringevo quel quadernetto al petto, con passione, mentre il tramonto ci dedicava la sua ultima carezza. Mi ripetevo le parole graziose a memoria, con lo sguardo rivolto verso il cielo. Quale luna dovrei io attendere… poi sì, quelle altre parole che mi ricordavano l’infanzia Sulla tavola, il caldo pane paterno…non potevo saziarmene! E così, mentre la luce dorata ci lasciava, affiorava nella mia mente la ferma consapevolezza di ciò che avrei dovuto fare.
Sia chiaro: non ho mai dubitato. Non ho mai avuto nemmeno l’ombra di un tentennamento, no. L’avevo già fatto? Può darsi, ma fors’anche no. Ma questo non vi interessa e non fa differenza alcuna: non ho dubitato, non ho tentennato. L’ho solamente fatto. Io faccio, e faccio questo.
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Misi svelto una mano nella tasca dei miei pantaloni larghi. Finché c’è ancora questo poco di luce, pensai. Ma sapevo che luce o meno faceva lo stesso. Presi una scatola metallica poco più grande del mio palmo e la poggiai sul tavolo. Posato delicatamente il libro di poesie, afferrai con entrambe le mani la scatoletta e iniziai a svitarla finché non schioccò. Con cura ne tirai fuori il contenuto e poco a poco lo appoggiai sul tavolo. Un piccolo gomitolo di filo ruvido. Un lungo ago da cucito, robusto. Lo guardai riflettere il sole morente, mi godetti quella luce come mi godetti quel metallo. Feci passare il filo spesso attraverso la cruna. So che molti si spazientiscono nel centrare l’anellino metallico, ma io sono di diverso avviso. Trovo tutto questo, compreso il trapassare la cruna dell’ago, pacifico e delicato. Poetico, potrei anche dire.
Presi il quadernino, lo sfogliai, ne respirai a fondo l’odore acre e quasi ne baciai ogni pagina. Poi, con metodo, allungai il braccio destro, nudo, e ve lo stesi lì sopra, poco sotto il gomito. Tra le tante cose, ho anche la fortuna di essere ambidestro! Lo accarezzai lì, a contatto con la mia pelle. Il cuoio risveglia il senso del tatto in un modo che oserei dire… speciale. Dopodiché lo lasciai così in equilibrio, mentre con la mano sinistra che si allontanava prendevo l’ago. Si muoveva nella luce fioca come una saetta, e si portava dietro la sua coda di spago come un’umile cometa. Puntai la cima contro il vertice in alto a sinistra del quadernino, posato sul mio braccio. Mi assicurai che tutto fosse al suo posto poi, senza perdere altro tempo, affondai l’ago. Bucò facilmente il cuoio in copertina, ebbe invece qualche indecisione nel penetrare i fogli di carta. Nulla però che non si potesse risolvere con un po’ di sana fermezza. Ecco che passa per il cuoio in fondo e, finalmente, sento il freddo del metallo sulla mia pelle, e dopo la pelle nella carne, dentro di me, ed ecco che lo faccio riaffiorare dal lato opposto, di nuovo lo stesso processo, ma a ogni punto dato il lavoro diventa più facile.
Non fraintendete: sono un tipo a modo io. Non ho certo sbiadito le parole del grande poeta con il mio sangue, non pensateci nemmeno! No, infatti io di sangue non ne caccio fuori, e le sensazioni che provo in generale… per quanto entrino a fondo dentro me, non sono mai cattive, ma sempre buone: innamorate. Continuavo così, nella macchia di buio che progressivamente si allargava sulla mia veranda, l’ago si muoveva come la sega nel tronco della sequoia. Dentro fuori dentro fuori con fare meccanico, il freddo, la punta acuminata, ma anche l’amore per la poesia, il nome francese che non proverò mai più a pronunciare, perché in fondo non ne ho più alcun bisogno adesso che sarà con me per sempre.
Soddisfatto, tirai il filo, lo strappai con i denti e lo fissai. Osservai meravigliato il rettangolino di cuoio, ma sapevo che osservarlo non era il punto, ora lo… sentivo. Dunque, potevo dirmi davvero felice. Stesi la manica della mia camicia sopra il braccio destro e la allacciai. Nessuno, vedendomi in quel momento, poteva immaginare cosa avessi appena fatto, cosa faccio.
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